Negli ultimissimi giorni, da pulpiti diversi e in salse varie, ci è capitato di ascoltare e leggere lo stesso inquietante ritornello: tutti devono contribuire a pagare la crisi da Covid, gli effetti nefasti della pandemia non devono ricadere solo su quella parte di popolazione che ne subisce direttamente le conseguenze. Per scongiurare il pericolo che la diffusione del virus e le misure di contenimento colpiscano solo una parte della società, occorrerebbe dunque togliere qualcosa a chi ancora non è stato toccato da questa crisi. Benissimo, diremmo: andiamo a prendere i soldi dagli sciacalli e dai profittatori che in questi mesi hanno visto le loro ricchezze crescere ancora. E invece no: chi ci propina questa solfa suggerisce di andare a mettere le mani nelle tasche dei dipendenti pubblici e, più in generale, di chi ha un lavoro garantito, per poi redistribuire verso coloro che davvero soffrono le conseguenze economiche delle chiusure.

C’è chi, come il commentatore de ‘Il Foglio’ Camillo Langone, dedica al tema un contributo dal titolo emblematico, “Togliere al pubblico per dare al privato: ecco la vera unità nazionale”. Chi, come il Professore di Economia Riccardo Puglisi, redattore de ‘La voce.info’, si augura che nel nuovo lockdown paghino anche i dipendenti pubblici. C’è anche Massimo Cacciari, che, intervistato a Piazza Pulita sui provvedimenti del Governo per il contrasto all’epidemia, si lascia sfuggire un: “non è possibile tenere la gente a zero euro al mese o a 700 euro al mese. Voglio dire ai miei colleghi dello Stato e del parastato, prima o dopo arriveranno a voi, per forza. E io spero che ci arrivino presto, perché è intollerabile che questa crisi la paghi metà della popolazione italiana”. Insomma, serpeggia l’idea per cui se la crisi morde su alcuni settori in particolare, chi ancora non è stato morso è ora che venga colpito dalla scure di tagli, sacrifici e austerità per fare giustizia. 

Ora, al netto dell’evidente insulsaggine della contrapposizione tra pubblico e privato in quanto tali, visto e considerato che parti consistenti del settore privato non hanno ridotto i propri fatturati né messo i dipendenti in cassa integrazione con stipendi ridotti, è evidente che gli effetti della crisi da Covid-19 si stanno chiaramente concentrando su fette specifiche di popolazione: lavoratori precari a progetto, a collaborazione, a tempo determinato; false partita IVA non coperte da cassa integrazione; effettive piccole partite IVA precarie; piccoli commercianti, piccoli imprenditori dei settori più colpiti dalla chiusure; lavoratori in nero, lavoratori stagionali e occasionali. Un vasto mondo che vede coesistere insieme le ultime ruote del carro del sistema economico capitalistico e del lavoro subordinato non garantito, insieme a frammenti crescenti di piccola imprenditoria già in crisi da tempo, spazzata via prima dalle dinamiche competitive del capitalismo neoliberale e ora messi in ginocchio dalle chiusure e dal crollo del volume di vendite conseguenziali alla crisi pandemica.

Partendo da questo ritratto della realtà, si invoca, come provvedimento salvifico, una miglior distribuzione dei costi della crisi usando come classico capro espiatorio i dipendenti pubblici: tra le proposte, più o meno rabbiose, l’introduzione di una cassa integrazione per i lavoratori pubblici che lavorano a distanza (presupponendo falsamente che ciò comporti a priori una minor efficienza e fatica), la riduzione lineare del 5% o 10% dello stipendio, o altre amene suggestioni. Idee, del resto, già spuntate qua e là in primavera, durante la prima ondata di virus, e che affondano le loro radici su un’idea tristemente sempreverde: quella del dipendente garantito e pubblico come vittima sacrificale dei mali della società. Vale al riguardo la pena ricordare che tra il 2009 e il 2018 i contratti del pubblico impiego sono rimasti bloccati, con un risparmio di spesa di almeno 25 miliardi di euro. Inoltre, negli ultimi 15 anni gli organici sono stati tagliati almeno del 30%. L’idea di tagliare gli stipendi pubblici, quindi, non solo è ripugnante di per sé, ma fa a cazzotti con i ‘risparmi di spesa’ che negli ultimi anni hanno contribuito a rendere la PA italiana una delle più sottodimensionate tra i Paesi più avanzati: nel 2015 in Italia si contavano poco più di 3 milioni di dipendenti pubblici, contro i 5,5 della Francia e i 5,1 del Regno Unito (Paesi paragonabili per numero di abitanti). In termini relativi, ciò corrisponde a circa 49 dipendenti pubblici ogni mille abitanti in Italia, contro gli 83 della Francia, i 78 del Regno Unito, i 71 degli Stati Uniti e i 60 della Spagna.

L’idea di tagliare gli stipendi ai dipendenti pubblici non è solo ripugnante, ma sottende, a ben vedere, una visione del sistema economico dominata da tre lampanti pregiudizi che vale la pena smontare uno ad uno.

  1. Il falso mito delle risorse scarse. Le risorse economiche potenzialmente attivabili da parte dello Stato in un’economia di mercato non sono affatto scarse e, in prima battuta, non vi è alcuna necessità di andarle a togliere a qualcuno per darle a qualcun’altro. Lo Stato può in qualsiasi momento mobilitare risorse sotto forma di investimenti pubblici o di trasferimenti monetari a favore di chi ha bisogno di sostegni al reddito generando così nuovi consumi, nuova produzione e nuova occupazione, in un circolo virtuoso. Ciò è possibile facendo ricorso alla spesa in deficit, emettendo titoli del debito pubblico il cui costo può essere reso contenuto, se non nullo, da una Banca Centrale che ne garantisce il sostegno sui mercati. Per giunta, in un sistema lontanissimo dal pieno impiego, con tassi di disoccupazione a due cifre già presenti ben prima della crisi attuale, e una sottoccupazione spaventosa, i rischi inflazionistici di tale intervento sono pressoché nulli.
  2. La falsa rappresentazione della polarizzazione della ricchezza. Ammettiamo, ma solo per un attimo, l’esistenza di un vincolo stringente all’uso delle risorse pubbliche. Fermo restando che politiche di diretta redistribuzione del reddito tra chi ha tanto e chi ha poco sono sempre e comunque benemeriti strumenti di giustizia sociale con positivi effetti macroeconomici sulla crescita, analizziamo in modo serio il problema distributivo nella nostra società. L’esistenza di una pessima distribuzione delle risorse tra le persone è costitutiva del capitalismo e in particolare del capitalismo neoliberale dominante ormai da trent’anni. Esisteva prima del Coronavirus, ed esiste oggi, a maggior ragione, durante la crisi da Covid. Ma è davvero la dicotomia pubblico/privato la chiave di lettura per intendere la diseguale distribuzione del reddito? Davvero le grandi ricchezze del nostro Paese sono gli stipendi dei dipendenti pubblici? La domanda, per quanto ridicola, non meriterebbe nemmeno risposta se non fosse per il periodico riproporsi di questa orribile narrazione nel corso degli anni. Ovviamente, tutti sanno (compresi Cacciari, Puglisi e Langone) che i dipendenti pubblici non detengono la fortuna del Paese. Semplicemente, i cattivi maestri partono dal presupposto, esplicito o implicito, per cui le vere risorse concentrate, quelle dei redditi da capitale delle grandi imprese e delle banche, dei redditi finanziari e della grande ricchezza immobiliare sono semplicemente intoccabili. Vuoi perché, nella versione liberista più esplicita, quelle ricchezze vengono giudicate fonte e motore dello sviluppo economico, vuoi perché, date le regole vigenti, è normale che i capitali si spostino dove sono tassati di meno. Insomma, non soltanto si rimuove a priori la dicotomia capitale-lavoro nella lettura della realtà, ma, più clamorosamente, viene annichilita la stessa categoria di buon senso ricchi-poveri. Se a questo oblio si aggiunge un pizzico di retorica del dipendente pubblico fannullone, lavoratore improduttivo che succhia risorse dallo Stato per funzioni per lo più inutili, assieme alla retorica del conflitto eterno tra garantiti e precari, l’operazione ideologica è bell’e pronta: se abbiamo un problema di risorse scarse la miglior cosa da fare è toglierla ai più parassiti tra i garantiti del sistema economico, ovvero ai dipendenti statali.
  3. La rimozione della memoria a breve termine. Che la crisi da Covid stia colpendo in particolare alcuni strati della popolazione è cosa indubbia. Così come è fuori discussione che in particolare i lavoratori precari nelle loro varie forme siano state le vittime preferenziali del neoliberismo negli ultimi tre decenni ovvero da quando si è deciso di disintegrare il mondo del lavoro creando il precariato. Ben più dubbio è che “tutti gli altri”, i presunti privilegiati, non siano stati già reiteratamente bastonati nel recente passato a suon di riforme liberiste. Tutti i lavoratori dipendenti, tanto del settore privato quanto di quello pubblico, anche i meno sfortunati, dotati di un contratto a tempo indeterminato, sono stati bersagliati da tre decenni di ridimensionamento del potere sindacale, stagnazione dei salari, riduzione dei diritti accessori, per non parlare della campagna ideologica e legislativa contro il pubblico impiego avviato dal Ministro Brunetta con l’attacco al diritto alla malattia pagata, continuata con la Ministra Madia che introdusse il licenziamento rapido in 48 ore, e poi con la Ministra Bongiorno che individuava nel personale pubblico le cause delle inefficienze di sistema. Insomma, non sembra proprio, anche a volere dar retta alla narrazione di chi vorrebbe sostituire alle contraddizioni capitale-lavoro e ricchi-poveri la falsa contrapposizione tra garantiti e non garantiti e tra dipendenti pubblici e privati, che i garantiti o i pubblici dipendenti siano stati esenti dai danni materiali e dalle campagne ideologiche perpetrati dalle politiche neoliberiste.

A fronte di chi vorrebbe scatenare e rinfocolare periodicamente la guerra tra poveri, tra lavoratori pubblici e privati, tra ultimi e penultimi, tra chi ha perso meno e chi ha perso tutto, tra chi vive condizioni di vita decorose e chi vive nella miseria, bisogna ribaltare il tavolo e ricordare poche cose molto semplici. A fronte della crisi che stiamo vivendo e dell’ormai ineludibile necessità di protezione sanitaria della popolazione, anche per via dei tagli al sistema sanitario e di ciò che non si è fatto fino ad ora, servono risorse, ne servono tante, tantissime. Bisogna sostenere il reddito di tutti coloro che vengono colpiti dalla caduta del proprio reddito, non solo sotto la soglia della sopravvivenza, ma sotto quella di un normale e decoroso benessere. Bisogna sostenere il sistema economico nel suo complesso, salvare i settori produttivi in crisi tutelandone l’occupazione di breve e di lungo periodo. Bisogna promuovere forme massicce di intervento pubblico per sostenere produzione, occupazione e garanzia di piena continuità di tutti i servizi pubblici. Bisogna elevare la cassa integrazione al 100% per tutti i lavoratori coperti da tale istituto e provvedere a misure di garanzia di un reddito minimo su soglie decorose – ben oltre il Reddito di Cittadinanza – per tutti coloro che ne hanno bisogno: precari, false partite iva, piccole partite iva costrette alla chiusura, lavoratori in nero.

Bisogna aggiungere, non togliereLivellare verso l’alto e non vero il basso. Rincorrere le tutele e i diritti per tutti, non sottrarli a qualcuno per darne le briciole ad altri. I soldi ci sono. Ce ne sono moltissimi ricorrendo allo strumento della spesa a deficit, ed altrettanti togliendoli dalle tasche dei veri ricchi. Ma per prenderli davvero, questi soldi, occorre entrare in aperto conflitto con quella gabbia, chiamata Unione Europea, che impietosamente e scientemente definisce quei vincoli di bilancio artificiali, tutti politici, che rendono apparentemente impossibile farlo. Se non ora, quando?

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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