La destituzione del presidente Vizcarra e le successive proteste popolari rappresentano solamente l’apice della gravissima crisi che il Perù sta vivendo sotto tre punti di vista: sanitario, economico e politico.
Il Congresso del Perù ha approvato lo scorso lunedì la rimozione del presidente Martín Vizcarra dalle sue funzioni, al termine di un dibattito durato più di quattro ore. Con un totale di 105 voti a favore, quattro astensioni e solo 19 contrari, i parlamentari hanno sostenuto a maggioranza l’immediata destituzione del capo di stato, entrato in carica nel marzo 2018 in sostituzione di Pedro Pablo Kuczynski, a sua volta dimessosi dopo aver subito pesanti accuse di corruzione.
La richiesta di destituzione contro Vizcarra è stata giustificata dal Congresso con la presunta “incapacità morale” del presidente peruviano, in quanto il capo di stato è attualmente coinvolto in un’inchiesta per un presunto caso di corruzione nella costruzione di un ospedale quando era governatore dalla regione di Moquegua, tra il 2011 ed il 2014. Vizcarra ha invece risposto che “non ci sono prove affidabili di alcun crimine, e non ci saranno, perché non ho raccolto tangenti“. “La storia e il popolo peruviano giudicheranno la decisione presa da ciascuno di voi“, ha concluso il presidente nel suo discorso di fronte ai parlamentari. Secondo i suoi detrattori, il presidente peruviano avrebbe incassato 660.000 dollari in tangenti da due società indagate per corruzione legate alla multinazionale brasiliana Odebrecht, che ha effettuato lavori di irrigazione e la costruzione di un ospedale nella regione meridionale.
Alla destituzione di Vizcarra, legato al partito del centro-destra liberista Peruanos Por el Kambio (PPK), ha fatto seguito la nomina ad interim di Manuel Merino de Lama, capo del Congresso, che ora si troverà a ricoprire la carica più importante tanto del potere esecutivo quanto di quello legislativo. Il presidente destituito ha sottolineato come questo porterà all’accentramento di tutto il potere dello stato nelle mani di un solo uomo, esponente di Acción Popular, una forza nata come partito di centro-sinistra, ma oramai considerata come facente parte della destra nazionalista, che ha ottenuto un importante risultato alle ultime elezioni legislative. Tuttavia, secondo la costituzione del Paese sudamericano, la nomina di Merino è resa necessaria dall’assenza di vicepresidenti, visto che Mercedes Aráoz si è dimessa da questo incarico nell’ottobre del 2019 e non è mai stata sostituita.
Proprio per evitare l’accentramento di due dei tre poteri dello stato in una sola persona, la carta fondamentale peruviana prevede anche che, qualora questa ipotesi dovesse verificarsi, il presidente ad interim debba indire nuove elezioni. Poiché l’8 luglio erano già state indette le elezioni per l’aprile del 2021, i giuristi peruviani ritengono che non sarebbe opportuno indire nuove elezioni, ma piuttosto ratificare l’appello esistente. Ciò significa che Merino continuerà a ricoprire il doppio incarico fino a questa data.
La crisi politica arriva in un momento poco favorevole per il Perù, già travolto dalla crisi sanitaria e da quella economica. Con un totale di oltre 900.000 casi positivi infezioni e circa 35.000 decessi causati dal Covid-19, il Perù si colloca alle porte della top ten mondiale in queste statistiche, superando Paesi più popolati. Inoltre, il suo tasso di fatalità tra i pazienti con infezione da coronavirus è uno dei più alti a livello mondiale. Questa situazione ha portato anche ad una grave crisi economica, che naturalmente ha colpito soprattutto le classi sociali più deboli: a metà agosto, la disoccupazione era salita all’8.8%, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica e informatica, e gli economisti peruviani hanno dichiarato che il Paese è ufficialmente entrato in recessione.
In questo contesto tragico, non sorprende che la destituzione del presidente Vizcarra abbia rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso della rabbia dei peruviani, che sono scesi in strada al grido di “Congresso golpista!”. Intervistato da TeleSur, l’avvocato, sociologo, analista internazionale e professore dell’Università di San Marcos, Héctor Béjar, ha affermato che “questa è una crisi terminale del sistema politico peruviano, molto lontano dal Perù sociale. Il nostro quinto presidente, destituito, arrestato o ucciso, esprime la crisi di un sistema che non può durare oltre“.
Nonostante tutto, Merino ha prestato giuramento come presidente nella giornata di martedì, ed in seguito ha nominato Ántero Flores-Aráoz come primo ministro del Paese. Il settantottenne, che in passato ha ricoperto cariche importanti come quella di ministro della difesa, ha tentato di offrire un volto conciliante attraverso le sue dichiarazioni: “È un governo di transizione, molto chiaro, dobbiamo migliorare le condizioni in cui lo abbiamo ricevuto per essere in grado di consegnare un Paese in ordine“. “Ora dobbiamo lasciare un paese ordinato. Non siamo nel migliore dei mondi, abbiamo una crisi economica molto forte, una disoccupazione galoppante e una crisi sanitaria. Non è il momento migliore per fare esperimenti“, ha aggiunto. Flores è considerato come un politico conservatore, ed in passato è stato anche leader del Partido Popular Cristiano, prima di passare tra le fila di una forza minore, il Partido Político Orden.
Sulle vicende politiche peruviane è intervenuto anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite (ONU) per i diritti umani in Sud America, il ceco Jan Jařab, che ha espresso la sua preoccupazione per la repressione che la polizia peruviana sta esercitando contro i cittadini che partecipano alle proteste contro il nuovo governo. Le Nazioni Unite hanno ricevuto segnalazioni di detenzioni arbitrarie, uso eccessivo della forza e attacchi a giornalisti, che il funzionario onusiano ha definito “informazioni inquietanti“, ricordando che la polizia “ha l’obbligo di osservare in ogni momento gli standard internazionali sull’uso della forza nella gestione delle manifestazioni“.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog