I comunisti francesi alle prese con il virus, le destre e la disgregazione della sinistra di classe, con l’obbiettivo della ricomposizione di un vero partito comunista.
Presentiamo qui un’intervista fatta al compagno Axel Dupin, giovane membro dell’Iht (Institut Homme Total) e del Prcf (Pôle pour une Renaissance Communiste en France), che ringraziamo per la disponibilità.
La pandemia da coronavirus è tornata a colpire con forza anche l’Europa ed in questa seconda ondata specialmente la Francia, seconda per contagi nel continente solo dopo la Russia. Cosa sta facendo l’amministrazione a riguardo, e cosa ha fatto? Cosa pensate come comunisti?
È necessario per prima cosa posizionare l’arrivo di questa crisi sanitaria nel suo contesto. In Francia, nei sei mesi che hanno preceduto l’epidemia, abbiamo assistito a scioperi di rara intensità, decisi dalle organizzazioni sindacali per far fronte alle misure antisociali del Governo di Edouard Philippe. [1] Tra le rivendicazioni del movimento figuravano quelle degli infermieri e del personale infermieristico in generale, di fronte a una situazione sempre più catastrofica e ingestibile negli ospedali dovuta alla carenza di mezzi e di personale, così come alla privatizzazione e alla demolizione sempre più accelerate di questo settore di attività (va ricordato che sotto il solo mandato di Macron sono stati tagliati 4000 posti letto negli ospedali). Inoltre, i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni non hanno mai smesso di attaccare (sotto la pressione del padronato e del suo sindacato, il Medef – Movimento delle Imprese di Francia – Mouvement des entreprises de France) il sistema generale di sicurezza sociale, conquista sociale storica e rivoluzionaria ottenuta grazie alle lotte della classe operaia e dei comunisti francesi durante la Resistenza e all’indomani della Liberazione del nostro paese. In questo contesto, il presidente Macron a una risposta politica ha preferito la strada del disprezzo e della repressione violenta da parte della polizia.
Dopo i grandi scioperi dell’inverno 2019, l’epidemia del Covid-19 si è diffusa bruscamente, frenando le lotte sociali che si sono concluse con il lockdown del marzo 2020, che ha comunque offerto una magra consolazione al personale infermieristico: Macron ha infatti incoraggiato i francesi ad applaudire i lavoratori ospedalieri dalle finestre ogni sera alle venti, il tutto combinato con una politica disastrosa e miope punteggiata da ingiunzioni contraddittorie (in particolare per quel che riguarda l’uso della mascherina). Noi affermiamo, come comunisti, l’assoluta necessità di una totale revisione delle politiche attuate negli ultimi anni. Sebbene sia difficile opporsi a un fenomeno naturale come una epidemia, e a maggior ragione a una pandemia, siamo però in grado di anticipare tali disastri se mettiamo in atto una politica che non sia soltanto una politica a breve termine mirata esclusivamente ai profitti delle grandi aziende. Se facciamo caso ai paesi che sono riusciti a combattere efficacemente questa epidemia, notiamo che questi sono, nella maggior parte dei casi, paesi socialisti (Cuba, la Cina, il Venezuela e ancora il Vietnam) con una economia pianificata, che anticipa la produzione di lungo termine in funzione delle necessità della popolazione.
In Francia, abbiamo dovuto attendere la fine del lockdown per ottenere test e mascherine per tutta la popolazione, la scusa ufficiale del governo è stata in quel caso la presunta incapacità del francese medio di utilizzare questo oggetto. Inoltre, il verificarsi della seconda ondata non è stato assolutamente previsto: al posto di reclutare più personale, di destinare più risorse agli ospedali e soddisfare le richieste del personale sanitario, il governo ha piuttosto perseverato nella sua politica tagliando ulteriori posti letto in alcuni ospedali. Questo genere di cose non dovrebbe accadere in un paese che è la sesta potenza mondiale e ci deve portare non solo a batterci con tutte le nostre forze contro questo governo reazionario ma anche e soprattutto a distaccarci totalmente e incondizionatamente dall’attuale modo di produzione che è la causa principale di tutte queste crisi. Per la Francia poi sarà anche necessario uscire dall’Unione Europea ultra liberale che priva i popoli europei della loro sovranità nazionale e popolare, per poter ricreare servizi pubblici di qualità in Francia, “rilocalizzare” la produzione e riaffermare l’importanza delle conquiste sociali rivoluzionarie, come il sistema generale di sicurezza sociale o lo status della funzione pubblica, ottenute nel corso delle lunghe lotte della classe operaia del nostro paese. Solo l’uscita dal capitalismo e il passaggio al socialismo, tenendo conto delle strutture materiali ed economiche già presenti nella nostra società attraverso queste stesse conquiste rivoluzionarie, ci permetterà di evitare la totale distruzione antropologica verso la quale ci stiamo pericolosamente dirigendo.
Nella complessa situazione del paese si ripetono da anni esplosioni di rabbia estremamente significative che, non incanalate, finiscono spesso con un nulla di fatto di fronte alla destra liberale al governo, oppure andando a riempire le fila della destra reazionaria. Come è possibile oggi trasformare questa situazione e fornire un’alternativa diversa? La crisi economica e sanitaria come può influire sui futuri scenari del paese?
Se questa pandemia ci re-insegnato una cosa, non solamente in Francia, ma in tutto il mondo, è che le forze vive della società sono i lavoratori stessi, e non i padroni e gli azionisti delle grandi imprese. In Francia, come altrove, il Paese non avrebbe potuto operare durante il primo lockdown (e ora il secondo) senza l’attività, da un lato, del personale sanitario, ma anche di tutti i lavoratori della grande e piccola distribuzione, e della grande parte della classe operaia mobilitata. Paradossalmente, questi ultimi sono i primi a subire le conseguenze di questa crisi sanitaria, sociale ed economica, mentre allo stesso tempo le grandi industrie del CAC 40 [2] non rinunciano a versare i dividendi ai loro azionisti nel 2020 (malgrado le “suppliche” del nostro ministro dell’economia Bruno Le Maire) e i grandi padroni vedono invece crescere in maniera straordinaria i loro profitti a scapito della quota attribuita ai salari e ai contributi sociali. Non possiamo non sottolineare l’incredibile aumento dei patrimoni di personaggi come Jeff Bezos, Elon Musk (quest’ultimo ha guadagnato più di 88 miliardi di dollari nel solo 2020), o ancora Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia, proprio nel mezzo della crisi del Covid-19. È quindi del tutto naturale che in questo contesto emergano manifestazioni a volte esplosive di rabbia. Purtroppo questa rabbia in realtà non porta a molto, a causa delle difficoltà dei lavoratori a organizzarsi come classe rivoluzionaria, legate principalmente all’attuale debolezza dei sindacati nonché all’assenza di un Partito Comunista combattente che svolga il suo ruolo di avanguardia teorica e pratica della classe operaia. Infatti, dopo la destalinizzazione del maggio 68 e sulla scia degli sconvolgimenti sociali a cui il Partito Comunista non è stato in grado di rispondere e di un’intensissima propaganda anticomunista, quest’ultimo ha iniziato progressivamente a declinare, abbandonando le sue basi teoriche, e il marxismo leninismo in particolare. Questo ci porta ai problemi che il movimento dei Gilet Gialli, spontaneo e privo di qualsiasi forma di organizzazione e di collante teorico, può aver conosciuto, anche se lo stesso rifletteva un ritorno della coscienza di classe dei lavoratori francesi precari che vivono nelle periferie.
Evidentemente, come sempre, la destra reazionaria non esita a strumentalizzare la collera popolare per ingrossare le sue fila, in evidente collaborazione con il partito del presidente che, per le elezioni presidenziali del 2022, non sogna altro che un secondo atto del duello Macron-Le Pen. Perché questo è l’unico ruolo oggettivamente svolto da Marine Le Pen e dal Fronte Nazionale in Francia: fare da trampolino di lancio al secondo turno per il candidato della borghesia, che può sventolare senza problemi la bandiera del “Fronte Repubblicano” di fronte alla minaccia fascista. Credo sia necessario sottolinearlo, in particolare nel caso dei Gilet gialli. In effetti, secondo me, la mancanza di risultati di questo movimento è da ricondurre soprattutto, in maniera più globale, a un disinteresse per la politica, in particolare per la politica dei partiti, e ciò costituisce un problema grande almeno quanto quello dell’avanzamento della destra reazionaria. Per cui, anche se la situazione sembra catastrofica, abbiamo ancora una carta da giocarci in mezzo a tutto questo. Queste crisi e le loro conseguenze, così come tutta questa rabbia che cresce, devono portare a un ritorno della coscienza di classe dei lavoratori francesi e della loro organizzazione per difendere ed estendere il nostro eredità, e per questo è prima di tutto necessario ricostruire una vera avanguardia rivoluzionaria nel nostro paese, che costituisca la spina dorsale della classe operaia, come il partito comunista di un tempo. Nella mia organizzazione, l’Institut Homme Total, abbiamo a tal fine stilato e cercato di far circolare un elenco di 10 misure da attuare non appena termina il lockdown, in modo che queste situazioni non si ripetano mai più in futuro.
La pandemia da coronavirus ha fornito una nuova scusante per ulteriori attacchi a diritti fondamentali come quello all’istruzione, con una didattica che ha finito per essere spesso dimenticata. Cosa sta succedendo in Francia tra scuole ed università? Ci sono risposte dagli studenti e dalle studentesse? Di che tipo?
È chiaro che questa crisi sanitaria ha permesso alla classe dirigente di fare un salto di qualità nella fascistizzazione del Paese e nella deriva autoritaria del potere macroniano. Abbiamo ormai un presidente che governa da solo, dando per scontato di non dover più passare dagli organi intermedi come l’Assemblea nazionale, che, con tutti i suoi difetti, dovrebbe rappresentare la sovranità popolare. Stiamo arrivando alle estreme conseguenze della Quinta Repubblica, un regime nato ai tempi del generale De Gaulle per promuovere il potere presidenziale a scapito della rappresentanza nazionale. Per ciò che riguarda l’istruzione, si tratta effettivamente di un problema di duplice natura che riflette un movimento che si è accelerato in quest’ultimo decennio, soprattutto sotto i mandati di Francois Hollande e di Emmanuel Macron. Prima di tutto di natura politica, poiché tutti i ministri dell’istruzione desiderano lasciare il segno attraverso riforme sempre più disastrose. In secondo luogo, di natura economica e sociale, poiché queste misure mirano a modellare il funzionamento delle scuole e delle università su quello del mercato del lavoro, esacerbando selezione e concorrenza. Innanzitutto la competizione tra le scuole superiori, attraverso l’istituzione di un baccalaureato “à la carte” che sostituisce il baccalaureato nazionale che esisteva prima del mandato di Macron e le riforme del suo ministro Blanquer. Questo porta alla concorrenza tra i licei più prestigiosi e quelli considerati meno prestigiosi, il tutto diventa poi una questione di fortuna e di origine sociale che consente o meno l’accesso (per ragioni geografiche, o economiche nel caso delle scuole superiori private) ai migliori licei. Ne conseguirà la concorrenza nell’istruzione superiore, attraverso una competizione sempre più aspra e un aumento sempre crescente delle tasse universitarie. Così la scuola e l’istruzione in Francia sono sempre meno luoghi di apprendimento dove tutti possono andare a studiare in condizioni di parità, ma sempre più luoghi in cui si impara a essere competitivi e a sopravvivere in quella “giungla” che è il mercato del lavoro capitalista.
Recentemente, è stata appena approvata una legge (la legge LPR) che accelera la privatizzazione dell’università e della ricerca in Francia, attraverso l’istituzione di “contratti di missione” che sono in realtà contratti a tempo determinato che mettono in pericolo lo status di dipendente pubblico nell’ambito della ricerca universitaria. Come in tutte le altre aree, in Francia è molto difficile lottare contro queste offensive liberali. Nel maggio 2018, in Francia si è creato un enorme movimento studentesco, con il blocco di molte grandi università. Ma i movimenti di questa natura sono sfortunatamente ancora molto settoriali e di sinistra per ottenere qualcosa, per non parlare dei gruppuscoli di estrema destra a volte sostenuti dalla direzione degli istituti che arrivano per far sloggiare i picchetti con la violenza, diventando ancora una volta pedine della classe dirigente. Inoltre, è anche complicato per gli insegnanti rendere noti i loro disaccordi con le politiche perseguite dal Ministero dell’educazione nazionale e il Ministero dell’insegnamento superiore. In effetti, il lavoro degli insegnanti è sempre meno controllato dagli ispettori, che sono funzionari pubblici indipendenti, e sempre più dagli stessi direttori scolastici. Non è quindi raro vedere professori richiamati o addirittura sanzionati per critiche al ministero svolte sui social network. Alcuni si vedono anche rifiutare dei posti o borse di studio per motivi simili.
La pandemia da Coronavirus non ha tardato a mostrare da una parte ampie analogie generali con la crisi climatica, e dall’altra profonde connessioni materiali legate, ad esempio, alla riduzione drastica della biodiversità. In Francia quanto è percepita la crisi climatica come questione da porre all’ordine del giorno? Come stanno avendo i comunisti, anche rispetto ai movimenti di massa esplosi a livello globale?
Pur non trascurando l’importanza delle questioni climatiche e ambientali, desideriamo comunque mettere in guardia da quelle che ci sembrano pericolose derive da parte di molti movimenti e partiti ambientalisti. Le crisi ecologiche e climatiche che stiamo vivendo da molti decenni sono, e va ricordato costantemente, crisi del modo di produzione capitalistico. Queste crisi attaccano in primo luogo l’ambiente dei lavoratori e non l’ambiente della grande borghesia, che peraltro è più pronta a preoccuparsi di queste questioni quando, ad esempio, l’inquinamento finisce per toccare le grandi metropoli e non soltanto le zone periferiche o i paesi poveri nei quali la produzione è stata delocalizzata.
Eppure, molti movimenti attuali tendono a negare del tutto la lotta di classe, o almeno a separarla dalle questioni ambientali. In Francia, ad esempio, abbiamo avuto una campagna chiamata “l’affaire du siècle”, l’affare del secolo, avviata da diverse associazioni e volta a denunciare lo Stato francese per l’inerzia nella lotta al mutamento climatico. Un tale approccio è rivelatore, secondo noi, di una analisi totalmente idealistica della situazione, come se lo Stato, con la “S” maiuscola, fosse responsabile per il mutamento climatico e non per il modo di produzione capitalistico. Ciò porta dei partiti come Europe Ecologie les Verts a chiudersi in alcune contraddizioni, come la loro adesione al liberalismo economico e la loro opposizione all’energia nucleare, con la loro lotta che si riduce in definitiva a misure simboliche (come dimostra la recente polemica sugli alberi di Natale nei comuni verdi). È questa ecologia depoliticizzata che nega la lotta di classe che denunciamo con forza, allo stesso modo di associazioni come quella di Pierre Rabhi (fondatore del movimento dei Colibrì) o del movimento Extinction Rebellion che ci spingono ad abbandonare la cosiddetta società dei consumi per andare verso la decrescita e la “sobrietà felice”, come se quest’ultima fosse una scelta per gli ormai 10 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà in Francia. Inoltre, sul tema della biodiversità, mettiamo in guardia anche dalle derive paganeggianti, sia tra le persone di sinistra che di estrema destra. Infatti, non sono una “Natura” o una “Pianeta” divinizzato che dobbiamo proteggere, ma l’ambiente dei lavoratori, e più in generale l’ambiente degli esseri umani, in armonia con le altre specie che condividono il nostro pianeta, ovviamente. In realtà, non è attraverso la decrescita, né cambiando i modelli di consumo degli individui che riusciremo a risolvere le sfide climatiche e ambientali che dobbiamo affrontare.
Come comunisti lottiamo per la transizione al socialismo e affermiamo che la vera ecologia viene sempre dal progresso tecnologico. Se non fossimo passati al nucleare, chissà se oggi sarebbero rimaste delle foreste visto che producevamo energia solo attraverso una massiccia deforestazione. Dobbiamo quindi ribadire l’importanza del progresso tecnico e garantire che sia in linea con l’ambiente umano, e non più solo con la logica del profitto. Ma per fare questo dovremo puntare sulla lotta ideologica per riconquistare l’egemonia culturale di cui parla Antonio Gramsci, di fronte a tutti i reazionari di destra, di sinistra o ecologisti.