In un continente attraversato da numerose guerre endemiche, le ultime settimane hanno visto il riemergere di due conflitti che sembravano quanto meno sopiti, come quello del Sahara Occidentale e quello della regione etiope del Tigrè.
Le origini degli scontri sarebbero da ricercare nella politica del primo ministro di Addis Abäba, Abiy Ahmed Ali, che, dopo essersi guadagnato un forse prematuro Premio Nobel per la Pace grazie alla riconciliazione portata avanti con le minoranze etniche, ha recentemente cambiato rotta, superando quel federalismo etnico che aveva permesso all’Etiopia di trovare un equilibrio tra le tante popolazioni che la abitano. Con la fondazione del Prosperity Party, nel dicembre del 2019, Ahmed ha cercato di riunificare numerose forze politiche sotto un’unica bandiera, all’insegna del nazionalismo etiope.
Il Prosperity Party, di ispirazione liberale, ha trovato il sostegno della maggioranza delle forze politiche del Paese, ma non quello del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (FPLT), che invece difende le istanze della popolazione tigrina e proviene da una storia di ispirazione marxista-leninista. Il FPLT ha deciso così di rompere l’alleanza che lo legava ad Ahmed all’interno di quello che era l’ormai dissolto Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, ricominciando la lotta per rivendicare i diritti del popolo tigrino.
Un altro motivo di tensione che è andato ad aggiungersi a quelli precedenti è stato il rinvio delle elezioni. Previste per il 29 agosto, queste sono state spostate dal premier Abiy ad una data ancora da definire del 2021; al contrario, il FPLT ha organizzato le proprie elezioni nella regione del Tigrè, dichiarate illegittime dal governo di Addis Abäba.
Il conflitto armato vero e proprio ha invece avuto inizio il 4 novembre, in seguito ad uno scontro tra le forze del Tigrè e la Forza di difesa nazionale etiope di stanza nella regione. Il 10 novembre, le forze etiopi hanno sferrato un importante attacco all’aeroporto di Humera, vicino al confine con il Sudan e l’Eritrea, prendendone il controllo, dopo che il premier Abiy aveva ordinato di procedere ad attacchi per via terrestre ed aerea contro il Tigrè.
L’Unione Africana, che ha sede proprio ad Addis Abäba, ha chiesto colloqui di pace e un cessate il fuoco, per bocca del proprio presidente, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, il quale “sollecita la cessazione immediata delle ostilità e invita le parti a rispettare i diritti umani e garantire la protezione dei civili”. Amnesty International ha confermato l’esistenza di massacri di civili all’interno del conflitto, segnalando numerosi morti e feriti tra persone che non hanno avuto alcun ruolo negli scontri. Anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite (ONU) per i diritti umani, l’ex presidente cilena Michelle Bachelet, ha parlato di massacro di civili e di possibili crimini di guerra.
In risposta agli eventi, il 13 novembre il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha emesso un ultimatum affinché le forze ribelli si arrendessero nell’arco di tre giorni. Il 17 novembre, lo stesso premier ha comunicato che “questo termine di tre giorni concesso alle forze regionali e alle milizie del Tigrè per arrendersi all’esercito federale è scaduto”, dando il via a quella che è stata definita come la fase “finale” del conflitto. “Poiché il termine è scaduto, nei prossimi giorni verranno effettuate le operazioni definitive delle forze dell’ordine”, ha affermato il leader del governo federale.
Al contrario, Debretsion Gebremichael, presidente della regione del Tigrè, ha risposto che “il governo e il popolo della regione rimarranno saldi nelle proprie posizioni”, lasciando intendere che il conflitto è destinato a durare ancora a lungo. “Questa campagna militare non può essere terminata. Finché l’esercito degli invasori sarà sulla nostra terra, la lotta continuerà. Non possono farci tacere con la forza“, ha aggiunto. Il governo tigrino ha anche denunciato un bombardamento della capitale regionale Mek’elē (Macallè, secondo la toponomastica italiana) da parte dell’esercito etiope, per il momento smentito da Addis Abäba.
Il 19 novembre, il governo etiope ha nuovamente esortato il FPLT “a deporre le armi e interrompere qualsiasi intenzione di compiere ulteriori crimini per i quali sono stati emessi mandati di arresto federali”. Sabato 21 novembre, Addis Abäba ha affermato che il proprio esercito starebbe avanzando verso la città di Mek’elē per riprendere il controllo della regione del Tigrè. “Le nostre forze di difesa stanno attualmente marciando verso Mek’elē“, dopo dopo aver preso le città circostanti, l’ultima delle quali è Adigrat, la seconda città del Tigrè.
Come nel Sahara Occidentale, anche nel Tigrè stiamo assistendo in queste settimane alla repressione di una minoranza etnica che non chiede altro che la propria autodeterminazione. Il caso dell’Etiopia dimostra anche come spesso i Premi Nobel per la Pace vengano assegnati con una certa superficialità, mentre forse andrebbe quanto meno attesa la fine della carriera di un leader politico per insignirlo di questo riconoscimento. Abiy Ahmed, come altri prima di lui, è un Premio Nobel per la Pace che non disdegna la guerra, dopo essere già stato al centro di forti tensioni internazionali con Egitto e Sudan per la costruzione della Grande Diga della Rinascita Etiope sul Nilo.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog