Combatto con me stesso, ormai da molto, da troppo tempo, indeciso se lasciarmi cadere dalla parte della rassegnazione e “seguire a tutti costi le correnti” (come bene cantavano “I Nomadi“) o se, invece, reagire, rimboccarmi le maniche e non dare nulla per scontato. Aspettare sul letto del fiume che passi il cadavere del mio Partito oppure fare qualcosa affinché ciò che ne rimane possa svolgere la sua ultima degna missione, propria del nome “rifondazione” e sostenere la rinascita di un nuovo progetto politico?

Il dilemma, se così lo si può definire, non riguarda soltanto Rifondazione Comunista: la crisi verticale di partecipazione, di attivismo è la conseguenza proprio della rassegnazione che si è fatta largo tra le compagne ed i compagni nel momento in cui non siamo stati (includo, come potete vedere, anche me stesso e ampiamente) in grado di pensarci come organizzazione dei lavoratori e di tutti gli sfruttati anche al di fuori del Parlamento, anche in un extraparlamentarismo forzato, non voluto, al quale abbiamo cercato di porre rimedio in mezzo a mille contraddizioni.

Non tutte endemiche nel nostro corpo politico: molte le abbiamo subite e ci siamo trovati imbrigliati nelle trame sporche di un gioco istituzionale fatto di poteri che mortificavano il voto popolare con leggi elettorali create per vincere facile, a tutto scapito delle minoranze. Abbiamo continuato a fidarci della democrazia rappresentativa, perché è un discrimine imprescindibile se non si vuole scadere nell’autoritarismo modernamente inteso, se si vuole preservare formalmente – e quindi anche in parte sostanzialmente – quel rispetto delle regole che appaiono eguali per tutti e che, al contrario, sono diseguali perché non tutti riescono a partire con il medesimo slancio.

Siamo ancora vivi, nonostante tutto, nonostante la crisi di rappresentantivà politica dei partiti, dei sindacati e delle associazioni di volontariato che registrano, tutte, per davvero tutte, una progressiva inedia, un venir meno di tante possibilità di azione che scemano nel momento in cui fanno i conti con le forze intellettive e materiali cui possono far ricorso.

Rifondazione Comunista non sfugge a questa contingenza e, siccome il congresso nazionale si avvicina, sarebbe bene si iniziasse a discutere anche pubblicamente di ciò che si ritiene opportuno tanto per il Partito quanto per la sinistra di alternativa, antiliberista di questo Paese, dentro al più ampio contesto europeo. A questo proposito, è bene avere presente che nessun paese del Vecchio Continente vede una assenza così marcata dell’anticapitalismo in seno anche ad una sinistra plurale, ma pur sempre antiliberista e critica verso il sistema dello sfruttamento dell’essere umano su sé stesso, sugli animali e sul pianeta nel suo complesso.

Portogallo, Spagna, Francia, Germania, persino Inghilterra, Belgio e Paesi Bassi non pensano ad un PD quando si tratta di parlare di sinistra, ma fanno riferimento a partiti che si richiamano almeno ad una tradizione solidamente socialista, socialdemocratica se non apertamente anticapitalista: dall’Esquerda ad Izquierda Unida, dalla Linke a Left Uniy, dalla France Insoumise alla rinnovata Syriza.

Le particolarità nazionali giocano un peso enorme nella ridefinizione degli ambiti politici; non c’è dubbio che il caso italiano sia del tutto tale e sia un caso unico in Europa. Riprendendo un concetto che ho più volte espresso, del quale rimango risolutamente convinto, l’anomalia tutta italiana è stata anzitutto rappresentata da tre fattori che si sono combinati fra loro:

1 – la corsa al maggioritario protrattasi per decenni, sempre al rialzo e diffusasi in ogni contesto elettorale, raggiungendo definitivamente lo schema mentale di una politica divisa tra blocchi contrapposti che si sono, una volta al governo, impegnati in riforme molto simili sul terreno economico e anti-sociale;

2 – il ventennio berlusconiano che ha trasformato l’Italia del dopo-Tangentopoli in un Paese di nuovo arrivismo, di personalismi esasperati, piegando alla logica del privato le istituzioni pubbliche, i beni comuni e riuscendo a permeare di questa logica liberista una parte importante di quella che si è continuata a definire, o a farsi comodamente definire, “sinistra“;

3 – la nascita del Partito Democratico, condensazione della tradizione socialdemocratica (di derivazione più che altro post-comunista) con quella cattolico-progressista, entrambe abbandonate al loro destino da socialisti craxiani e democristiani di destra confluiti in Forza Italia e oggi dispersi nei mille rivoli di un conservatorismo a tratti liberale, a tratti sovranista.

Questi tre elementi, riuniti nell’arco di tempo che va dal 1994 ad oggi, hanno determinato, in larga parte, le condizioni per il venir meno di una necessità della sinistra comunista e di alternativa: il tentativo nobile della “rifondazione comunista“, come reazione alla cancellazione di una rappresentanza politica della classe lavoratrice, degli “ultimi” della società, trova il suo senso fino a che non crolla il binomio tra piazza e palazzo, tra base sociale e istituzioni di vario livello.

A poco a poco, mentre le percentuali elettorali si ridimensionano, vengono meno tutta una serie di ambiti in cui prima si aveva voce, risonanza e presenza: gionali, televisioni, radio. Tutti si occupano della “sinistra” che rimane: il PD. Il resto sono frattaglie, trascurabilità.

La pandemia non ci ha aiutati nel risalire la china. Ci ha divisi, separati, allontanati e ci ha fatto sentire ancora meno utili di quanto pensavamo d’esserlo fino a pochi mesi fa. Per questo dobbiamo affrontare la crudissima realtà dei fatti, forse senza nemmeno metterci innanzi ad un bivio, ma scegliendo insieme un modus vivendi che non si accontenti della mera sopravvivenza fatta di alibi. Scrivere, anche in breve, la storia di questi ultimi decenni non può essere una giustificazione di un eterno ritorno di un “rilancio” impossibile per un Partito che ha rappresentato un passaggio importante per il movimento comunista in Italia dopo il rovinoso 1989, dopo la svolta dell Bolognina e la liquidazione del PCI.

Scrivere del recente passato deve invece poter significare proprio “vedere” tutta l’impreparazione culturale, politica e sociale che abbiamo: noi viviamo del nulla e sopravviviamo di feticci, di agganci iconici al passato. Invece dovremmo smetterla di pensare Rifondazione Comunista come qualcosa di adattabile ad un futuro che ci interroga su tutt’altri temi: stando in questo stagno di passioni spente, si finisce col far imputridire ciò che di buono ancora c’è nel PRC e che non deve andare disperso.

Ma non è più il momento di richiami al “rilancio“, al “rinnovamento“. Noi, da soli, non possiamo essere la soluzione per antonomasia della riconversione moderna del movimento anticapitalista in Italia. Intorno a noi c’è un deserto fatto di sabbie mobili che portano al riformismo governista da un lato e di autoreferenzialità isolazionista dall’altro. Nessuno di questi due percorsi può rassicurarci, ma se c’è un compito cui il congresso del Partito può assolvere è quello di pensare diversamente a Rifondazione Comunista: non come insufficienza dell’oggi, bensì come valore aggiunto per un domani di cui ancora si fa fatica a vedere l’alba.

Si rischia di cadere nella retorica più fastidiosa quando si utilizzano concetti che, inevitabilmente, risultano essere sempre gli stessi nei documenti che produciamo: le intenzioni sono ammirevoli, ma poi si scontrano con una crisi del rapporto tra mondo del lavoro e mondo della politica che vede andare in pezzi anche movimenti come quello pentastellato, proprio sotto i colpi della disperazione sociale trasformata in lotta della classe contro la classe stessa. La vittoria del capitalismo è globale e, tuttavia, per rimanere tale deve utilizzare i peggiori istinti della politica, visto che il disagio sociale cresce, le masse si impoveriscono e la pandemia aggrava questa situazione.

Le contraddizioni, dunque, esistono: così come è impossibile dichiarare morto il movimento comunista, è altrettanto impossibile dichiarare che il liberismo abbia solide fondamenta. Sembra proprio essere entrato in una fase di grande incertezza, a causa del virus che ha messo a nudo tutte le fragilità delle economie continentali e, in particolar modo, del ceto medio di ogni paese.

In queste contraddizioni bisogna inserirsi, ma occorre farlo senza aspettare sul letto del fiume che compaia il cadavere del PRC: bisogna reagire, ammesso che si voglia davvero farlo. Il congresso nazionale serva a questo: a considerare come andare oltre noi stessi per rimanere comunisti senza civetterie e capricci, ma per consapevole necessità delle tremende diseguaglianze sociali che si ampliano, che non accennano a rientrare e a riconvertirsi in riforme pseudo-egualitarie tramite le opzioni riformiste e riformatrici declinate nei varii esperimenti governisti.

Il comunismo, come movimento, ritorna ad essere partito se supera le attuali cristalizzazioni e incrostazioni disorganizzative che si sono sedimentate lungo questi anni. Non si tratta di “rifondare rifondazione“, ma di essere parte di un progetto più ampio in termini di visione di inseme, da pensare non in chiave meramente numerica, ma di prospettiva: occorre ripensare tutto. Ad iniziare dalla cultura, dall’analisi sociale, da quella scientifico-economica, smettendola di aggrovigliarci nella sola tattica e provando a costruire una strategia anche di lungo corso.

Non un partito più grande. Non un somma di minoranze. Non una sinistra moderna che pensa, divenendo socialista o riformista, di essere al passo coi tempi. Quella è solamente al passo con le opportunità del momento: è opportunismo e va combattuto senza alcuna remora. Ma una ricomposizione organizzativa della politica che sia culturale e sociale, che sia una alternativa ad una funzione ormai vissuta e rivissuta di un metodo inefficace nella trasformazione locale e globale, ad una cultura e ad una società che sono l’esatto opposto di ciò che intendiamo come liberazione umana, animale, naturale.

Un nuovo comunismo, che ho già invocato e richiamato varie volte. Un nuovo metoto politico che include una nuova forma mentis che unisca sapere e fare. Lo dobbiamo mettere in pratica con estrema sincerità di intenti. Non fingiamo d’essere ciò che non possiamo più essere: non siamo e non possiamo essere oggi il partito dei lavoratori, degli studenti, dei pensionati. Siamo una debolezza che si pensa forza. Dovremmo invece essere una debolezza che si riconosce come tale e che non si rassegna nell’angusto angolo in cui è finita.

Non perdiamoci d’animo. Per chi vuole provare a cambiare questa società, una possibilità c’è sempre. Se lo si vuole.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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