Il dialogo fra Landini e Bonomi potrebbe rappresentare una svolta epocale nelle relazioni sociali e nel disegno del welfare. Occorre disinnescare l’attacco al contratto nazionale e istituire una patrimoniale per rifinanziare il sistema previdenziale.
Nella bozza della Legge di Bilancio è apparso un articolo che rinvia al 2023 la rivalutazione delle pensioni disattendendo così l’impegno del 2017 con le organizzazioni sindacali.
Non sarebbe certo la prima volta che un governo, o una parte datoriale, disattende qualche accordo con il sindacato. Ben altra è la sostanza del discorso: si chiude la parentesi di quota 100 e dell’anticipo dell’età previdenziale, si esclude a priori ogni revisione dei meccanismi pensionistici e, in piena seconda ondata Covid, si rinvia di dodici mesi la rivalutazione già prevista degli assegni.
Il governo Conte vuole far cassa con i pensionati?
La previdenza pubblica è in affanno. Per trenta-quarant’anni abbiamo regalato soldi a previdenza e sanità privata. Le casse statali subiscono le conseguenze del minor gettito fiscale (il neoliberismo e la mancata tassazione delle rendite e dei patrimoni ne sono la causa). Le spese sociali in epoca pandemica crescono e lo Stato deve pur sempre rispettare i tetti di spesa imposti dalle regole che puntellano le politiche di austerità.
L’attacco alle pensioni va letto dentro questo contesto. Nel 2020 il Pil della Ue dovrebbe diminuire di circa il 7,5%. Ferme restando le regole di Maastricht e non volendo aggredire i grandi patrimoni non resta che far cassa con i pensionati e spingere i contratti nazionali sempre più verso le pensioni integrative e la sanità privata.
E su questi ultimi punti l’arrendevole linea dei sindacati rappresentativi la dice lunga sul loro ruolo concertativo come dimostrato dal dialogo tra Bonomi (presidente di Confindustria) e Landini (segretario della Cgil).
In numerosi paesi la riduzione del Pil è strettamente connessa alle prestazioni previdenziali (conseguentemente in calo) e più in generale alle prestazioni del welfare.
La questione di fondo è legata innanzitutto alla tenuta della previdenza pubblica e del contratto nazionale (non certo quello attuale che rinvia al secondo livello di contrattazione e all’ingannevole sistema delle deroghe). Teniamo conto che da anni i contratti nazionali vengono siglati con lo scambio diseguale tra salario e servizi, enti bilaterali e fondi previdenziali non sono una conquista dei salariati ma la gabbia che sorregge la concertazione. Si aggiunga poi la riduzione della base salariale (gli stipendi medio bassi da anni subiscono l’erosione del potere di acquisto), i contributi sociali più bassi, l’aumento della disoccupazione e della massa salariale che destina all’Inps i propri contributi.
La crisi da Covid spinge anche i guardiani dell’ortodossia di Maastricht a rivedere le loro posizioni solo per la tenuta del sistema, non è casuale l’uscita di Mario Draghi dettosi favorevole all’aumento del debito pubblico.
Il congelamento della rivalutazione degli assegni previdenziali da una parte, la richiesta di una legge sulla rappresentanza sindacale e la riorganizzazione della dinamica contrattuale sempre più spostata sul secondo livello sono il prodotto di politiche che mirano a far cassa con i pensionati e al contempo operano per disarticolare il sistema pubblico.
Forse sarà troppo ingeneroso attaccare la Cgil, ma anni di sostegno alla sanità e alla previdenza privata hanno permesso ai governi di dormire sonni tranquilli, di non mettere all’ordine del giorno la patrimoniale e una revisione del sistema previdenziale che tra sistema di calcolo contributivo e innalzamento dell’età pensionistica ci costringe a lasciare il lavoro alle soglie dei 70 anni e con assegni risicati. E forse oltre per chi deve attraversare per anni le forche caudine della disoccupazione e della precarietà.
E l’arrendevole, e complice, atteggiamento della Cgil ha finito con distruggere anche il contratto nazionale attraverso i continui rinvii alle deroghe e ai secondi livelli dove le associazioni datoriali fanno il bello e il cattivo tempo.
La richiesta padronale di collegare i salari alla produttività (ricorderete lo slogan confindustriale del salario collegato ai profitti…) è solo il risultato finale di un lungo processo di sgretolamento delle conquiste ottenute nei trenta anni “gloriosi” postbellici attraverso l’offensiva politica e sindacale.
La difesa di ufficio delle pensioni, attraverso la richiesta di rivalutarle nel 2022, è di per sé un compromesso che nasconde la necessità di rivedere in toto il sistema previdenziale con migliaia di uomini e donne che tra quindici/venti anni avranno bisogno di aiuti sociali perché i loro assegni saranno troppo bassi.
E in assenza di una imposta Patrimoniale, e in presenza dell’attuale legge sulla rappresentatività, verrebbe rafforzato il secondo livello di contrattazione e meccanismi che vanno verso il rafforzamento di sanità e previdenza integrativa aiutando così i governi nell’opera di demolizione del welfare.
Ecco spiegate le ragioni per le quali il dialogo tra Landini e Bonomi è non solo pericoloso, ma la pietra miliare sulla quale costruire una svolta epocale delle relazioni sindacali, all’insegna della complicità con il capitale e con le regole dell’austerità.