L’era Corbyn alla guida del Labour si è contraddistinta per un attacco continuo da parte della destra del partito nei suoi confronti, che ha visto l’utilizzo sistematico delle accuse di antisemitismo. Una strategia impiegata anche contro Sanders, in uno schema di contrapposizione dei liberals ai progressives che potrebbe diventare la norma
di Emma Catherine Gainsforth e Luca Galantucci
L’ORIGINE DELLE ACCUSE DI ANTISEMITISMO AL PARTITO LABURISTA GUIDATO DA JEREMY CORBYN
Le accuse di antisemitismo nel partito laburista, guidato fino alla primavera 2020 da Jeremy Corbyn, proseguono da tempo quasi immemore. La vicenda è culminata in una recente sentenza della Equality and Human Rights Commission (EHRC), la commissione istituzionale contro le discriminazioni, che ha riscontrato «carenze significative nel modo in cui il Partito laburista ha gestito le denunce di antisemitismo negli ultimi quattro anni» (significant failings in the way the Labour Party has handled antisemitism complaints over the last four years). In seguito alle dichiarazioni rilasciate da Corbyn riguardo alle conclusioni contenute nel dossier pubblicato dall’EHRC – la questione dell’antisemitismo sarebbe stata esagerata per essere usata in maniera strumentale –, il Labour del neo segretario Starmer ha immediatamente sospeso l’ex-segretario dal partito; la pressione della base del Labour ha tuttavia costretto il partito a riammetterlo nelle proprie fila, pur escludendolo, per ora in via temporanea, dal gruppo parlamentare (mettendo così a rischio la sua rielezione).
Nel tentare di ricostruire la vicenda dell’antisemitismo nel Labour si riscontra una difficoltà non trascurabile: il focus del dibattito, sia interno al partito che nei giornali, non riguarda comportamenti o episodi tacciati di antisemitismo, bensì presunti mancati procedimenti disciplinari nei confronti dei/delle militanti accusati/e di antisemitismo, con ampio spazio dato ai vertici della Comunità Ebraica, il Jewish Labour Movement, la Campaign Against Antisemitism, parlamentari vicini alla destra del partito. Nei media è stato continuamente ribadito, fino a darlo per scontato, che dall’elezione di Corbyn alla guida del Labour, il partito è intriso di antisemitismo, un’affermazione che si regge non su eventi o episodi di antisemitismo ma sulla presunta inadeguatezza di gestione delle denunce di comportamenti antisemiti di iscritti al partito (troppo lento, non trasparente, interferenze politiche dall’alto).
La maniera di porre la vicenda sembra aver tralasciato la questione principale: se i comportamenti segnalati siano effettivamente casi di antisemitismo.
Andando a scavare, per la maggior parte si tratta di post o dichiarazioni da parte di membri del partito – alcuni sono semplici iscritti – che condannano la politica espansionistica di Israele. Affermazioni che sono state ricevute con una chiara confusione tra antisionismo e antisemitismo. Per il resto i media sono unanimemente concordi nel dire che le segnalazioni sono aumentate a partire dal 2015, anno in cui Corbyn è diventato segretario del partito grazie all’iscrizione in massa di nuovi membri. Secondo la Bbc, «molti erano critici nei confronti di Israele e credevano che il Regno Unito, insieme agli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere più duro nei confronti di Israele, soprattutto per quanto riguarda la sua politica nei confronti dei palestinesi e la sua costruzione di insediamenti nei territori occupati».
Uno dei casi che ha ricevuto più attenzione di recente è la rimozione della ministra ombra Rebecca Long Bailey, candidata della sinistra corbyniana alle scorse primarie e sconfitta dal neo segretario Starmer, a causa di un tweet con cui condivideva un articolo contenente, questa l’accusa, «una teoria complottista antisemita». Si trattava di un’intervista con l’attrice Maxine Peake che sosteneva che la «tattica» con cui è stato ucciso George Floyd era stata insegnata dalla polizia israeliana a quella americana. Una serie di fonti autorevoli hanno subito chiarito che le tattiche che la polizia americana apprende nei corsi di formazione tenuti in Israele non includono la mossa usata con George Floyd, ovvero mettere un ginocchio sulla gola della persona fermata.
Altre inchieste hanno messo in luce il fatto che la polizia di Minneapolis era autorizzata a eseguire il neck kneel molto tempo prima del 2012, anno in cui si è tenuto il corso organizzato dal consolato israeliano. Il fact check conclude che «anche se l’inginocchiarsi sul collo fosse stato incluso in quella conferenza, cosa che non possiamo sapere, questa non sarebbe stata una novità per la Polizia di Minneapolis», tant’è vero che sono molte le persone morte a causa di questa pratica prima del 2012. Aljazeera ha ripetutamente denunciato il fatto che questi corsi di formazione che si tengono in Isreale «stanno facendo dell’occupazione della Palestina lo standard globale per le pratiche poliziesche in tutto il mondo – e le comunità di colore negli Stati Uniti stanno pagando un prezzo altissimo».
Tuttavia, una ministra ombra in Gran Bretagna è stata licenziata per aver condiviso un articolo in cui un’attrice erroneamente include il neck kneel tra le tattiche insegnate in questi corsi, dal momento che si tratterebbe di un’affermazione «complottista» e «antisemita». L’espulsione di Rebecca Long Bailey dal governo ombra è di particolare rilevanza in quanto, da un lato, è il primo atto formale, e pubblico, che sancisce l’inizio della guerra del neo segretario Starmer alla sinistra del partito, dall’altro, con questo atto, Starmer raggiunge l’obiettivo di “de-corbynizzare” il governo ombra, uno scopo perseguito dalla destra del partito sin dal 2015, data in cui Corbyn vince le primarie e la storia del Labour Party viene scossa da una profonda trasformazione.
Il motivo per cui la questione del presunto antisemitismo nel partito coincide con uno dei punti più bassi raggiunti dal giornalismo e dalla dialettica politica inglese è che la vicenda è interamente politica e si intreccia alla storia delle innumerevoli strategie adottate dalla destra del partito laburista per ostacolare, e ora eliminare, Jeremy Corbyn (a dire il vero in continuità con una lunga tradizione di caccia alle streghe con cui la destra del partito ha ripetutamente cercato di espellere la parte più radicale). Una strategia ampiamente documentata da un report commissionato dallo stesso partito (allora ancora guidato da Corbyn) ma mai pubblicato, fatto trapelare alla stampa e più o meno ignorato da tutte le grandi testate. Il dossier permette di ricostruire le manovre degli orfani del New Labour di Tony Blair, che prevedevano una prima linea di artiglieria pesante, il Parliamentary Labour Party (Plp, l’insieme dei deputati eletti alla House of Commons), una retroguardia di lavoro sotterraneo composta dagli alti dirigenti (non eletti) che governano il funzionamento della macchina del partito dal quartier generale LabourHQ in Victoria Street e il supporto esterno impaziente e desideroso dei media britannici.
Le ragioni alla base dello scontro interno sono sostanzialmente due: il controllo del partito e l’agenda politica. Vale la pena infatti ricordare il considerevole cambio di direzione politica impresso dall’elezione di Corbyn a segretario: dalla cosiddetta Terza Via al Socialismo.
Mentre la destra del partito rimane fedele ai principi del New Labour di Tony Blair, che individuava l’economia di mercato, l’uguaglianza delle opportunità, la meritocrazia e le privatizzazioni dei servizi pubblici come il mezzo per garantire giustizia sociale e un’efficienza economica all’altezza del mondo globalizzato, Corbyn costruiva il proprio programma politico su diritti inalienabili (salute, istruzione e reddito), fiscalità altamente progressiva, ripubblicizzazione di acqua e energia, nazionalizzazione di ferrovie e poste e, soprattutto, un ridimensionamento del potere di comando delle aziende mediante la “social ownership” che avrebbe garantito ai lavoratori una rappresentanza nei consigli di amministrazione e una quota azionaria. Anche in politica estera, Jeremy Corbyn è il parlamentare che più si è battuto contro le scelte di Tony Blair: segretario fino al 2015 della Stop the War Coalition, nel 2003 Corbyn fu tra gli organizzatori della più grande manifestazione britannica di sempre, in opposizione alla guerra in Iraq che vedeva il Regno Unito in prima fila insieme agli Stati Uniti di Bush. Il clash culturale è quindi evidente, in gioco c’era l’apertura di uno spazio di possibilità per una vittoria elettorale con una piattaforma radicale di sinistra: tutto il contrario del perché nacque il New Labour nei primi anni ‘90.
2015: LA BATTAGLIA PER LE PRIMARIE, LA VITTORIA DI CORBYN CHE SPIAZZA IL LABOUR
Jeremy Corbyn è stato eletto leader del partito laburista inglese nel 2015. La sua candidatura è stata seguita da un’impennata di iscrizioni che ha continuato nel tempo portando il totale dei membri del partito a più di mezzo milione – rendendolo il partito con più iscritti in tutta Europa. Corbyn è stato sostenuto da una manciata di parlamentari che più tardi si sono dichiarati pentiti. L’intento nel permettere la sua partecipazione era inizialmente quello di far sembrare che le primarie non fossero una corsa tra tante varianti della stessa persona. Si trattava di rendere il processo credibile e dare l’impressione che all’interno del partito ci fosse una buona dose di diversity. Nessuno si aspettava che un veterano dichiaratamente socialista che si batteva contro l’austerity avrebbe riscosso così tanto successo.
Le regole per eleggere il segretario del partito erano cambiate l’anno prima. Fino al 2014 il partito aveva un collegio elettorale che venne abolito e sostituito con un sistema one member one vote. Il cambio era inteso in realtà a limitare il potere dei sindacati che si era rivelato determinante nell’ascesa di Ed Miliband, divenuto leader nel 2010 sconfiggendo il fratello David Miliband, sostenuto invece dalla maggioranza dei parlamentari e dei membri ordinari. Con questa riforma interna si istituivano tre classi di membri che potevano votare alle primarie: ordinari, sostenitori affiliati, e sostenitori registrati.
Alle elezioni del 2015 questo sistema consentì a Corbyn di vincere con il 59% dei voti. Lo stacco dal resto dei candidati era netto: Andy Burnham, al secondo posto, ottenne il 19% dei voti. L’apporto dei nuovi membri iscrittisi al partito per sostenere la candidatura fu decisivo.
Si parlò del tentativo di gruppi esterni di infiltrare il partito e sabotarlo – eleggendo Corbyn – e ci fu chi tentò di fermare il voto. Si stima, tuttavia, che anche senza i sostenitori registrati, che pagavano la cifra più bassa, di tre sterline, Corbyn avrebbe comunque raggiunto il 51% dei voti. Jeremy Corbyn è stato il segretario più votato nella storia del partito ma anche quello che ha ricevuto il minor numero di voti dei parlamentari del Labour, mostrando un netto scarto fra la base egli eletti a Westminster.
Il 23 giugno del 2016 si tenne il referendum che decise la Brexit. Solo cinque giorni dopo, il 28 giugno, i deputati laburisti si pronunciarono su una mozione di sfiducia – presentata il giorno dopo il referendum – votando in massa contro Corbyn: 172 contro 40. Seguirono le dimissioni di molti membri del partito: il 27 giugno si erano già dimessi 23 dei 31 ministri ombra e sette parlamentari. Subito dopo la mozione di sfiducia ci fu una nuova impennata di iscrizioni al partito – altri 100.000 in una sola settimana e la stampa, anche quella meno vicina, parlò di un «political sea change». Corbyn, infatti, aveva risposto con un discorso trasmesso sui social in cui si rivolgeva direttamente agli iscritti, affermando che non aveva nessuna intenzione di lasciare la guida del partito e che il voto non imponeva al partito di tenere nuove primarie. Un grande numero di politici senior chiese le dimissioni di Corbyn, mentre i sindacati e la base esprimevano tutto il loro appoggio.
IL REPORT CHAKRABARTI
È stato in questo frangente che alcuni membri che osteggiavano Corbyn hanno cominciato a parlare diffusamente di un problema di antisemitismo all’interno del partito. Il ministro ombra Fabian Hamilton si è dimesso dichiarando che il partito era spaccato, aggiungendo di essere molto preoccupato dal modo in cui era stata trattata una deputata ebrea in occasione della presentazione del rapporto sull’anti-semitismo richiesto dallo stesso Corbyn – il Chakrabarti Inquiry. Si tratterebbe, secondo i media, di Ruth Smeeth, che aveva lasciato la presentazione in lacrime dopo essere stata accusata da un altro membro del partito di essere «collusa con i giornalisti» e di voler affossare il partito.
Il report in questione era stato commissionato a Shami Chakrabarti da Jeremy Corbyn a seguito di due episodi che avevano riscosso molta attenzione nella stampa: la sospensione di Naz Shah e di Ken Livingstone, ex sindaco di Londra. La prima aveva condiviso una vignetta su Twitter che suggeriva di rilocare Israele negli Stati Uniti – che avrebbero in questo modo risparmiato i soldi inviati annualmente al paese alleato – mentre il secondo l’aveva difesa e, durate una lunga intervista alla radio, aveva dichiarato che Hitler aveva collaborato con il movimento sionista. Livingstone si riferiva agli accordi in vigore fino al 1939 tra le autorità economiche della Germania e la Federazione Sionista per il trasferimento dei beni degli ebrei che emigravano verso la Palestina. Mentre in Gran Bretagna si levavano voci indignate e offese, il quotidiano “Haaretz” difendeva Livingstone dicendo che non poteva essere accusato di antisemitismo qualcuno che semplicemente aveva studiato la storia – o forse letto Hannah Arendt.
La stessa presentazione del report che Corbyn aveva ordinato a seguito di questi episodi – che forniva una lista di raccomandazioni ma concludeva che il partito non era travolto dall’antisemitismo – fu motivo di scontro: durante la presentazione Corbyn disse che «i nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele o del governo di Netanyahu più di quanto non lo siano i nostri amici musulmani delle azioni di sedicenti Stati o organizzazioni islamiche». Questa affermazione ricorda l’ultimo degli undici esempi che compongono la «working definition» di antisemitismo elaborata dalla International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), adottata dal partito laburista: «Ritenere che gli ebrei siano collettivamente responsabili delle azioni compiute dallo stato d’Israele». Nel fare questo paragone Corbyn stava chiaramente accostando questo atteggiamento a quello per cui nei paesi occidentali le persone di fede islamica vengono percepite e trattate come se fossero responsabili degli atti di terrorismo dettati dal fanatismo religioso.
Nei media, tuttavia, venne riportato che Corbyn aveva paragonato Israele all’Isis. Più tardi Corbyn irritò ulteriormente i giornalisti ammettendo che aveva usato parole sbagliate, non avrebbe dovuto dire «stati islamici» ma «paesi islamici».
Circa una settimana più tardi, Momentum, l’organizzazione composta da attivisti pro-Corbyn, faceva sapere che più di 25.000 persone avevano preso parte alle manifestazioni a sostegno del segretario del partito e più di 1.500 persone avevano donato circa 11.000 sterline al giorno. Altre 100.000 persone si erano iscritte al partito. Con l’acuirsi della crisi aumentava la mobilitazione da parte della base.
2016: ALTRE PRIMARIE, ALTRO PLEBISCITO PER CORBYN
È stato grazie a questa mobilitazione che poco dopo Corbyn ha sfidato il partito dicendo che sebbene non fosse disposto a dimettersi sarebbe stato pronto a farsi rieleggere segretario. Si apriva di nuovo la corsa per le primarie. Con una mossa a sorpresa il National Executive Commitee stabilì che i membri iscrittisi al partito nei sei mesi precedenti non avrebbero avuto diritto di votare in queste primarie (circa 130.000 iscritti), che i registered members avevano due giorni di tempo per pagare altre 25 sterline che avrebbero consentito loro di prendere parte e che nel periodo di questa elezione erano sospese tutte le riunioni nelle sedi locali del partito. Queste misure erano chiaramente tese a ostacolare la partecipazione della base, e la questione finì in tribunale. Venne attaccata la sede di una delle sfidanti di Corbyn e le sue pagine sui social media furono prese d’assalto con l’hashtag #StillCorbyn (ancora Corbyn). Fatto indicativo, la stampa notava la scissione tra base e dirigenza, ma anziché parlare di un problema di rappresentanza del partito, commentava sul fatto che questa base non era a sua volta rappresentativa dell’elettorato del partito laburista. Si trattava del vecchio adagio dell’electability.
Invece di prendere atto della politicizzazione nella società inglese, di livelli di partecipazione mai visti negli ultimi decenni, i media hanno parteggiato con la destra del partito, in nome di una moderazione che avrebbe presumibilmente aiutato il partito alle elezioni.
È da tenere a mente che tutto questo accadeva in contemporanea alla pubblicazione del Chilcot Report, il documento che ha messo nero su bianco il disastro che era stata la guerra in Iraq voluta da Bush e Blair, stabilendo che Tony Blair mentì spudoratamente alla nazione circa l’esistenza di armi di distruzione di massa. Il secondo hashtag più usato sulle pagine dei dirigenti del partito era #YouSupportedIraqWar. Lo scontro era dunque tra una base inferocita e ormai disposta a tutto pur di vedere confermato Jeremy Corbyn e una dirigenza Blairite. L’ipotesi più plausibile è che il coup per rimuovere Corbyn dal partito sia stato preparato proprio in vista del report sull’Iraq – e non a seguito del referendum per la Brexit. Corbyn era stato chiaro nel dire che avrebbe voluto vedere l’ex primo ministro processato per crimini di guerra.
Nonostante i tentativi di cambiare le regole, alle primarie Jeremy Corbyn è stato rieletto con il 61,8% dei voti, dunque con più voti di quelli ottenuti nel 2015. Inoltre, nelle elezioni del 2017 volute da Theresa May, il partito laburista ha ottenuto il 40% dei voti (+10% sulle elezioni precedenti), togliendo la maggioranza al partito conservatore e guadagnando altri 30 parlamentari. Chiaramente la battaglia contro Jeremy Corbyn non stava sortendo gli effetti sperati.
L’ANTISEMITISMO NEL LABOUR: PARTE DI UN BOICOTTAGGIO PIÙ AMPIO. IL CASO DEL LEAKED DOSSIER
È in questo contesto che s’inserisce la questione dell’antisemitismo all’interno del Labour. È molto arduo, se non impossibile, rintracciare gli episodi di antisemitismo di cui tutta la stampa britannica lamenta la tolleranza da parte del Labour. Cospicua attenzione viene invece dedicata a riportare affermazioni che incolpano il segretario Corbyn di connivenza con gli antisemiti, come ad esempio la dichiarazione, abbastanza inusuale, del rabbino capo di Londra che due settimane prima delle elezioni del 2019 riferisce della preoccupazione della comunità ebraica di fronte a un’eventuale vittoria di Corbyn (si badi bene, non del Labour, ma di Corbyn).
Paradossalmente, per risalire ai presunti comportamenti antisemiti, è necessario ricorrere al dossier “non ufficiale” recentemente trapelato alla stampa. Questo dossier fu commissionato dai vertici del Labour (Corbyn ancora in carica) per fornire un supplemento di informazioni all’Equality and Human Rights Commission, incaricata di svolgere un’inchiesta indipendente sulla gestione interna delle denunce di antisemitismo nel partito. La pubblicazione di questo dossier è stata però bloccata dal neoeletto segretario Starmer; decisione che, dopo qualche giorno, ha di fatto determinato il leak dei contenuti del documento sul web. Il dossier, intitolato The work of the Labour Party’s Governance and Legal Unit in relation to antisemitism, 2014 – 2019, è un’inchiesta interna molto dettagliata (860 pagine) sul funzionamento della Governance and Legal Unit (Glu) del Labour (l’unità responsabile, fra le altre cose, delle indagini interne relative a denunce di comportamenti discriminatori), supportata da oltre diecimila e-mail di lavoro e migliaia di messaggi in chat, recuperate dal server del Labour Party.
Il dossier, presentato dal “Guardian” come «delirante», è un’inchiesta enorme sul funzionamento interno del Labour, non solo relativamente alla gestione delle denunce di antisemitismo. Riguardo a quest’ultimo tema, il documento descrive una scientifica e metodica negligenza di fronte a numerose denunce di presunto antisemitismo.
In particolare, il dossier registra come Sam Matthews, capo della divisione Disputes (Reclami), ignori regolarmente le e-mail che sollecitano l’istruzione di procedimenti disciplinari riguardo a commenti, post, dichiarazioni di membri del Labour denunciati per antisemitismo, razzismo o sessismo. Contiene decine di esempi documentati in cui Matthews non inoltra le dovute segnalazioni alla commissione istituita per trattare casi di comportamenti discriminatori.
A titolo di esempio, nel 2017 a fronte di centinaia di denunce di antisemitismo, solo 10 sospensioni sono state istruite dalla Governance and Legal Unit. La musica cambia nel 2018 quando Jennie Formby (in quota Corbyn) diventa segretaria generale del LabourHQ, sostituendo Iain McNicol. Le pratiche, anche quelle parcheggiate da anni data l’inazione di Matthews, vengono processate con celerità e si giunge alla cifra di 296 sospensioni nel solo 2019 (p.282 del dossier). Quello che si evince da questi numeri è l’effettiva mala (o piuttosto non-) gestione delle denunce di antisemitismo nel partito, ad opera principalmente di Matthews, e un deciso cambio di passo nel momento in cui Corbyn riesce a imporre una sua persona di fiducia a capo del LabourHQ. Il dossier smonta quindi in modo chiaro le accuse di interferenza politica della leadership per bloccare i procedimenti disciplinari contro gli episodi di antisemitismo, dimostrando piuttosto il contrario.
OPERATION CUPCAKE: IL GIOCO A PERDERE
Se il contenuto del dossier si limitasse a quanto descritto saremmo di fronte non a un antisemitismo sistemico nel Labour (si parla di presunti episodi relativi allo 0.1-0.2% degli iscritti), ma a una negligenza, molto grave, di un gruppo di burocrati del LabourHQ, non ascrivibile ai vertici del partito (Corybn in primis). Invece, il dossier trapelato alla stampa contestualizza il fenomeno dell’antisemitismo in quella che emerge chiaramente come una campagna coordinata di sabotaggio, boicottaggio e screditamento organizzata dalla destra del partito ai danni di Corbyn e di Momentum (la corrente corbynista, per tradurla in termini nostrani). Il nucleo in prima linea di questa campagna è, coincidenza vuole, la Governance and Legal Unit, proprio la stessa divisione del LabourHQ preposta alle indagini interne contro gli episodi di antisemitismo che, come visto, non processa le pratiche. Componenti di tale unità (il già menzionato Sam Matthews, ma anche Sophie Goodyear, Ben Westerman e Louise Withers-Green) partecipano infatti al dirottamento, non autorizzato, di fondi (150.000£) della campagna elettorale 2017 verso seggi (fra l’altro sicuri) di parlamentari della destra del partito (Tom Watson, vice-segretario, Yvette Cooper, Angela Eagle, Heidi Alexander, Chuka Umuna, Rachel Reeves, v. pagg. 92-93 del dossier).
Per mantenere i vertici del partito all’oscuro di questa manovra, le riunioni operative di questa sottrazione di fondi avvengono addirittura in un altro edificio del LabourHQ. È fondamentale ricordare come il Labour nel 2017 non vinse la maggioranza della Camera dei Comuni per solamente 2.227 voti in sette seggi cosiddetti marginals. Non sappiamo come sarebbe andata se quelle 150.000 sterline fossero state gestite in modo trasparente, ma sicuramente l’intento di questo dirottamento di soldi del partito non era la vittoria delle elezioni. Come d’altronde si evince chiaramente da questo estratto della chat di lavoro “Smt” (dove è presente il direttore esecutivo della Governance and Legal Unit Emilie Oldknow) relativo alla sera stessa delle elezioni del 2017, quando iniziano ad arrivare i primi dati che delineano un exploit di Corbyn (p. 102):
08/06/2017, 22:41 – Emilie Oldknow [Executive Director Governance, Membership and Party Services]: Che aria tira lì?
08/06/2017, 22:41 – Simon Mills [Executive Director – Finance]: Dipende da che parte del palazzo!
08/06/2017, 22:41 – Patrick Heneghan [Executive Director – Elections, Campaigns and Organisation]: Orribile
08/06/2017, 22:41 – Patrick Heneghan: Aiuto
08/06/2017, 22:42 – Simon Mills: Divisi tra euforia e shock
08/06/2017, 22:42 – Julie Lawrence [General Secretary Office]: Siamo attoniti e sbigottiti
08/06/2017, 22:45 – Tracey Allen [General Secretary Office]: Loro festeggiano, noi siamo ammutoliti e depressi. È l’opposto di ciò per cui ho lavorato in questi ultimi due anni!
08/06/2017, 22:46 – Emilie Oldknow: Dobbiamo mostrarci allegri
08/06/2017, 22:46 – Emilie Oldknow: Non far vedere come stiamo
08/06/2017, 22:47 – Emilie Oldknow: Ad ogni modo ora abbiamo una montagna di soldi…
08/06/2017, 22:47 – Julie Lawrence: Non se formiamo una coalizione e perdiamo i soldi
08/06/2017, 22:47 – Julie Lawrence: “Steve” sta camminando in corridoio
08/06/2017, 22:48 – Emilie Oldknow: Oh no
08/06/2017, 22:48 – Patrick Heneghan: Dobbiamo sorridere tutti
08/06/2017, 22:48 – Patrick Heneghan: Io sto per entrare nella stanza della morte
08/06/2017, 22:48 – Emilie Oldknow: Dobbiamo essere tutti allegri
08/06/2017, 22:48 – Julie Lawrence: È dura ma sì
08/06/2017, 22:52 – Iain McNicol [General Secretary]: Sono in modalità sorrisi e chiacchiere e mi faccio il secondo piano
08/06/2017, 22:53 – Iain McNicol: tutti gli altri devono fare lo stesso.
08/06/2017, 22:53 – Iain McNicol: La notte sarà lunga.
Ciò che emerge con forza a leggere il report trapelato alla stampa è il fatto che la strategia di opposizione a Corbyn non si limitava a un attacco alla sinistra del partito. In questa chat Tracy Allen parla dell’«opposto di ciò per cui ho lavorato in questi anni» commentando i risultati delle elezioni del 2017 che avrebbero tolto la maggioranza ai conservatori. Altrove è detto ancora più esplicitamente: «Se perdiamo queste elezioni potrebbero seguire altre primarie». Si riporta infatti l’istituzione di gruppi di lavoro per sostituire Corbyn con il vice Tom Watson (Operation Cupcake, p.85 del dossier). Se la partecipazione attiva della Governance and Legal Unit al sabotaggio di Corbyn non fosse sufficiente a suggerire le ragioni dietro la deliberata negligenza dell’unità nell’avviare procedimenti disciplinari rispetto a presunti atteggiamenti antisemiti, l’episodio successivo di quella che potrebbe essere un’affascinante serie TV sulle guerre intestine all’interno di un partito politico non lascia alcun dubbio.
SCACCO AL RE?
Il 10 luglio 2019, quattro componenti sempre della Governance and Legal Unit (Sam Matthews, Ben Westerman, Dan Hogan e Louise Withers-Green, esattamente gli stessi che hanno dirottato i soldi verso i seggi della destra del partito di cui sopra) partecipano a un programma della Bbc raccontando di come fosse impossibile svolgere il loro lavoro di caccia assidua agli antisemiti nel partito: i vertici del partito erano soliti mettersi di traverso, certo non esplicitamente, ma in modo sufficientemente chiaro e inequivocabile. Le interviste rilasciate alla Bbc svelano tutta l’assurdità del meccanismo messo in piedi: le stesse persone a capo della sezione incaricata di processare le segnalazioni diventano in un secondo momento, una volta che Corbyn li ha sostituiti, whistleblowers, ovvero informatori, persone che denunciano quello stesso sistema di cui erano in realtà i primi responsabili. Denunciano, a tutti gli effetti, il loro stesso operato.
Tanto che il report ufficiale dell’Ehrc, per dimostrare l’esistenza di una tolleranza riguardo agli episodi denunciati di antisemitismo, addirittura cita il report non pubblicato, a prova del fatto che un problema effettivamente c’era e dell’attendibilità dello stesso leaked report.
La strategia di attacco a Corbyn tuttavia tiene perché è commissionata per la stampa che, come d’altronde il report dell’Ehrc, riporta unicamente il fatto che sotto Corbyn il dipartimento Disputes non funzionava, tralasciando di menzionare il fatto che non funzionava a causa di una preciso e reiterato sabotaggio.
Di fronte alle affermazioni andate in onda sulla Bbc, il Labour (leader ancora Corbyn) dichiara che i dipendenti sono evidentemente in malafede, motivo per cui il partito viene citato in giudizio dagli stessi whistleblowers per diffamazione. Chiaramente tale denuncia per diffamazione non avrebbe retto se fossero state rese note le prove raccolte nel dossier non pubblicato. Ma, colpo di scena (quasi) finale, il neo-segretario Starmer non solo non pubblica il dossier che avrebbe scagionato il Labour, ma ordina un’indagine interna per capire chi lo ha commissionato e redatto e decide di risolvere la questione legale pagando oltre 600.000 sterline ai cosiddetti whistleblowers creando un gigantesco buco nero all’interno delle finanze del partito. Ascrivendo la responsabilità, naturalmente, a Corbyn, ça va sans dire.
Questo è un riassunto stringato della vicenda che ruota attorno al presunto e gonfiato antisemitismo sistemico interno al partito con più iscritti in Europa. Com’è noto, il capitolo finale di questa drammatica e surreale serie hanno tentato di scriverlo ancora Starmer e “compagni” soltanto qualche giorno settimana fa, sospendendo Corbyn dal partito per i commenti riguardo al verdetto dell’Ehrc: «L’antisemitismo è ripugnante, un antisemita nel partito è un antisemita di troppo. Tuttavia, la portata del problema è stata anche decisamente enfatizzata per ragioni politiche dai nostri avversari, interni ed esterni al partito, e da gran parte dei media». Una dichiarazione che, alla luce del report filtrato, pare più che attinente alla realtà. Ma evidentemente per la destra del partito l’occasione per liberarsi di Jeremy Corbyn era troppo invitante per non tentare lo scacco all’ex-leader. Mossa rimandata al mittente grazie alla diffusa mobilitazione della base del partito. Per ora.