Non si butta niente. Nemmeno l’ondata di isteria collettiva per la morte di Maradona, neppure la spasmodica voglia di indossare gli sci e scendere per colate bianche di neve artificiale sulle vette alpine della nostra bella Italia nel bel mezzo della seconda ondata della pandemia; men che meno si archivia, si derubrica o si cancella la presunta necessità di spostare la messa di mezzanotte di qualche ora. Del resto, visto che Gesù Cristo non è nemmeno nato il 25 dicembre e forse neppure 2020 anni fa (secondo calcoli più precisi fatti non troppo tempo fa), il coprifuoco può rimanere alle 22 e la celebrazione cattolica della nascita del bimbo di Betlemme anticipata giusto, giusto all’ora di cena.

Si vive per davvero in tempi molto curiosi: ma, in fondo, ogni tempo è di per sé curioso, particolare, attraente per la specificità che esprime e che è prigioniera dell’istante in cui diviene sé stessa, folklore massivo, inebriamento totale di popoli che fanno chilometri di fila per salutare un grande campione del calcio, unico nel suo genere, non certo irripetibile. Non vi è nulla di non replicabile a questo mondo: il susseguirsi delle stagioni porta novità positive e negative, ma raramente si tratta di manifestazioni singolari o collettive così rivoluzionarie da potersi dire completamente innovatrici.

La dirompenza appartiene a fenomeni veramente globali come il Covid-19. Oggi, anche per la sinistra, per il progressismo, è più comodo rapportarsi con situazioni locali, con problemi necessariamente legati alla contingenza del momento piuttosto che ricercare la coltivazione di una visione che unisca cultura, analisi, elaborazione e tesi. Una catena di sviluppo politico e sociale di questa portata non può non tenere conto del coinvolgimento di larghe fasce della popolazione che si riconoscano in un progetto ben delineato.

Al momento, questo progetto non solo non esiste ma manca esplicitamente tutto un terreno culturale sul quale farlo crescere mediante la presa di consapevolezza della veloce trasformazione dei tempi, che non riguarda più soltanto la capacità tutta meccanica del capitalismo di produrre con il minor salario possibile e il maggiore impiego di forza-lavoro, ma si riconduce direttamente al rapporto che i lavoratori hanno – in quanto esseri umani, parte della contraddizione economico-sociale globale – con l’intera “scala” delle relazioni interpersonali e tra essi le istituzioni politiche e sovrastrutturali di altro tipo.

In una lettera inviata a Bloch nel 1890, Engels esprime un disappunto inerente la cattiva (malevola, verrebbe da dire) interpretazione data dai giornali e dall’intellighenzia borghese dell’epoca alla esplicita, facile e intuitiva spiegazione del rapporto tra struttura e sovrastruttura: l’economia, ieri come oggi, ha la sua dirimente rilevanza nel condizionare tutti gli altri ambiti di vita; tuttavia non va reso un cattivo servizio alle sovrastrutture, provando a minimizzarle, a ridurle alla stregua di complete dipendenti del regime capitalistico, visto che al suo interno si sviluppano movimenti – proprio come quello operaio, di massa e internazionale – che riescono a proporre una visione completamente sovvertita della intangibilità del sistema stesso.

La critica marxista non è mai un attacco privo di proposizione: è cultura essa stessa, tesa ad offrire, anche alla più moderna forma e sostanza della classe degli sfruttati, un punto di appoggio su cui sollevare il mondo delle sempre maggiori diseguaglianze e farne un traballante costrutto che riveli tutta la sua fragilità. Proprio come accade in questi mesi, ormai quasi un anno, di pandemia.

Non sono soltanto i rapporti tra i diversi livelli istituzionali ad essere saltati completamente e ad aver mandato in tilt il meccanismo previsto dal Titolo V della nostra Costituzione: questa è la conseguenza di una torrentizia valanga di inefficienze di una economia che si rivolge, del tutto naturalmente, al “si salvi chi può” esclusivamente privato, pronta a dimenticare qualunque sforzo produttivo fatto dalle grandi masse dei salariati per far accrescere i profitti di sempre meno grandi paperoni in ogni parte di questo pianeta.

La pandemia ha sollevato il coperchio di una giara ricolma di tensioni sociali ma priva di un coordinamento efficace tanto sindacale quanto politico-istituzionale. Non è più sufficiente intendere il rapporto tra rappresentanza istituzionale dei bisogni sociali ed economia dominante come un rapporto meramente dialettico, intrinseco del sistema in cui viviamo e pertanto “naturale” e accomodabile nelle sue storture dalle meline di un passivo riformismo, peraltro molto di facciata, invece molto sfacciatamente incline al liberismo.

Condivido l’osservazione fatta da Astengo su queste pagine: in sostanza che il sisma Covid-19 abbia aperto delle crepe laceranti in un regime globale che non può più recuperare, nella sua univoca totalità, quel “pensiero unico” che era il tratto distintivo del miraggio economico e sociale modernista. Niente di meglio poteva essere pensato, concepito e descritto se non il liberismo di ultima generazione: un approdo definitivo dell’umanità al suo più alto grado di evoluzione nella complicazione dei rapporti tra popoli e tra diversi approcci al sistema.

Le divergenze, o per meglio dirla con l’aggettivazione data da Paolo Favilli alle forze politiche anticapitaliste estranee al resto di una politica completamente devota al capitale, i “divergenti” sono stati progressivamente esclusi dalla scena mediatica, dal dibattito e, quindi, dall’accesso ad ogni possibilità anche minima di interazione con grandi masse di salariati sedotti dal consumismo, dalla merceologia e dal rampantismo egoistico e individualistico.

Le colpe della sinistra di alternativa, che anche troppe volte abbiamo cercato di analizzare, andrebbero ricordate mentre si cerca (o si dovrebbe cercare…) di inserirsi nelle crepe aperte dalla pandemia, nei solchi tracciati tra verità e apparente verità del liberismo, rimettendo in discussione ogni paradigma consolidato, ogni certezza che pareva granitica, ogni fiducia che era data per incondizionata.

Il cosiddetto “libero mercato” affronta anche una crisi finanziaria, di cali di fatturati: ma questa riguarda essenzialmente il ceto medio e non di certo le grandi catene produttive, i colossi delle vendite su Internet, quindi un nuovo modello di sviluppo della commercializzazione delle merci che mostra al piccolo la inevitabile retrocessione che subirà se si ostinerà a pretendere di vivere e sopravvivere in un contesto globale in deciso e decisivo cambiamento.

Ogni cambiamento epocale è, per sua stessa natura, un mutamento economico e ogni mutamento di questo genere presuppone – come bene scrive Friedrich Engels nell’”Anti-Düring” – un esercizio della violenza che si instaura come elemento ordinatore degli assetti sovrastrutturali per poter imporre quelle necessarie conformità che la classe dirigente nemmeno pretende, ma direttamente necessita di avere quale presupposto fondamentale per il suo mantenimento e rafforzamento.

«La violenza non è un semplice atto di volontà, ma […] esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali […], la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla “potenza economica“, sull’”ordine economico“, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza». Così Engels travolge e capovolge la teoria di Eugen Düring secondo cui era invece il moto violento, quasi istintivo della società, a generare le condizioni economiche di oppressione delle classi sociali più deboli e degli sfruttati.

Oggi il ceto medio è ancora più preda della grande globalizzazione dei mercati e dell’informatizzazione degli scambi: non si tratta soltanto di finanza allo stato puro, ma di una riorganizzazione del mercato che entra direttamente in contatto con le masse dei consumatori sorpassando la mediazione del piccolo commercio, della vendita al dettaglio e stabilendo un rapporto bivalente esclusivo che prescinde persino dalla grande distribuzione dei super e degli ipermercati.

Per fare tutto questo, i grandi colossi delle vendite internettiane devono stabilire condizioni di sfruttamento tutte nuove e rivoluzionare la concezione del lavoro entro i loro grandi capannoni dove sono stipate milioni di merci tra le più differenti: è una globalizzazione nella globalizzazione stessa, una bulimia merceologica frutto del consumismo alimentato dal liberismo più sfrenato. Ecco dove la violenza diventa bastone dell’economia: lì dove nascono i nuovi rapporti di produzione e di accumulazione dei profitti che, proprio nel periodo della pandemia, per questi grandi giganti della distribuzione di ogni possibile bene materiale, sono cresciuti del 30% rispetto al 2019.

E’ evidente che davanti ad una ristrutturazione capitalistica di queste dimensioni, così profondamente innovativa nell’essere feroce, intransigente e violenta, i lavoratori devono ricomporre una unità di classe e ripensare sé stessi non come singole unità produttive ma come esclusive funzionalità all’ingranaggio della macchina del mercato globale. Per questo non è pensabile una sinistra di classe senza la classe, ma soprattutto non è pensabile senza una Internazionale moderna, proiettata in tutto questo secolo e oltre.

I tentativi dei riformisti di casa nostra e dei sostenitori della “moderazione” degli effetti del capitalismo sulle vite sopravvissute di milioni di lavoratrici e lavoratori, di precari, di disoccupati e di inoccupati di lunghissimo periodo, sono tentativi ruffiani, apparenze piuttosto che sostanze. Non meritano alcuna considerazione nell’ipotesi di una alleanza tra nuove ispirazioni rivoluzionarie per un comunismo rinascente, attuale e disincrostato dai feticismi angusti del passato.

Il capitalismo mantiene le sue organizzazioni internazionali di controllo dello status quo. I lavoratori e tutti gli sfruttati, ben 2 miliardi e mezzo di salariati nel mondo, più tutti gli indigenti che non hanno accesso alcuno al mercato del lavoro, hanno diritto di avere una nuova Internazionale, un luogo della cultura, della politica e del sindacalismo che sia la loro patria, dove si possano riconoscere per unirsi, per accrescere la consapevolezza del proprio sfruttamento e gettare nuove basi per una lotta che lo superi. Definitivamente.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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