L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha acuito le problematiche di chi già soffriva di disturbi relativi alla sfera psicologica, ma ha anche messo in luce nuovi bisogni ed esigenze. Purtroppo, l’attenzione da parte delle istituzioni si è rivelata insufficiente

«Per gli altri è la normalità, per me alzarmi dal letto è come scalare l’Everest». Sara è un fiume in piena mentre parla del suo disturbo. Lo fa senza peli sulla lingua, senza tabù, per lei è questa la normalità. Un disturbo borderline di personalità di cui prende coscienza all’età di 18 anni. Per chi come Sara soffre di una malattia mentale non c’è mai stata un’entrata nel lockdown, «noi siamo in lockdown da sempre», dice attaccata al telefono.

L’Osservatorio Suicidi Covid-19 della Onlus Brf ha conteggiato da marzo a oggi oltre 50 suicidi, di cui più di 30 per cause direttamente o indirettamente associabili all’emergenza sanitaria. Invece, la rivista scientifica “The Lancet”, pochi mesi fa, ha pubblicato uno studio sull’impatto psicologico del coronavirus. Con lo scoppio della pandemia e la messa in campo del lockdown è stato possibile sviluppare paure, spesso anche “infondate”, che hanno magari determinato l’innesco di sintomi ossessivo-compulsivi, fino a quelli depressivi.

Infatti, in un contesto in cui l’interazione sociale è stata ridotta al limite per settimane o per mesi, dove regnava il silenzio nelle strade normalmente rumorose e affollate e tanti di noi sono stati costretti a rimanere chiusi in casa, emozioni come la noia e la frustrazione hanno preso il sopravvento.

Afferma la psicologa e psicoterapeuta Maria Grazia Flore: «Molte persone hanno vissuto un vero e proprio trauma: pensiamo a tutti coloro che sono stati colpiti da un lutto in famiglia senza poter vedere per un’ultima volta il familiare, o che hanno contratto in prima persona la malattia, oppure che sono stati esposti fortemente al rischio di contrarla. Moltissimi hanno vissuto questi eventi con la percezione di non avere più il controllo sulla propria salute, sulla propria vita».

Sicuramente, la popolazione più vulnerabile è composta da quelle persone che già prima della comparsa del virus presentavano quadri più o meno importanti di depressione, angosce, fobie, ansia generalizzata, disturbi ossessivo-compulsivi.

«Mi sono chiesta perché a 22 anni non riesco a dare un valore alla mia persona, per quale motivo penso di valere così poco. So rispondermi solo: credo che dipenda dal fatto che nessuno me l’abbia mai insegnato. Posso dire che, nel mio caso, questa situazione e questo essere chiusi in casa non è stata una novità». Sara resta in silenzio qualche secondo e aggiunge: «Perché io e le persone come me, viviamo dei ricoveri ogni tot di tempo, in cui siamo chiusi in delle strutture per un mese, mese e mezzo, siamo abituati». Sara ci tiene a sottolineare più volte che una condizione del genere può diventare per soggetti con disturbi mentali importanti quasi una scusante, una sorta di nascondiglio dove ripararsi.

foto di Rino Porrovecchio da commons.wikimedia.org

Il problema reale che si riscontra è legato alla psicoterapia che è fondamentale. «Ho incominciato un nuovo percorso trasferendomi a Milano, dove vivo con la famiglia del mio ragazzo, ho iniziato con una nuova psicologa e con nuova psichiatra». La pandemia ha costretto tutti ai colloqui online: conoscere una persona che dovrà rivestire un ruolo così delicato nella tua vita da dietro a uno schermo è nettamente diverso che averla seduta di fronte. «A volte ci sono problemi pratici, come la connessione, se non va si interrompe e si perde tempo, spesso non c’è tanta chiarezza. Per fortuna la loro disponibilità c’è, ma è tutto più difficile», afferma sempre Sara.

Un altro problema, alimentato dall’emergenza sanitaria, ricade sui ricoveri. Sara sa che sono lo stesso attivi, ma spiega che negli ospedali pubblici ci sono liste di attesa infinite e che – aggiunge – «se non riesci a farti mettere come urgenza o se non paghi, aspetti anche mesi. In ogni caso un ricovero andrebbe fatto perché la persona ha problemi imminenti, se è una che ha tentato un suicidio, si fa richiesta per ricoverarla e se la mettono in lista d’attesa c’è qualcosa che non va. Tuttavia puoi essere ricoverato nonostante la Covid-19, ma giustamente non puoi aspettarti di essere seguito con tutte le attenzioni del caso, in un ospedale pubblico, a causa dell’emergenza sanitaria».

Si apre uno scenario già conosciuto, quello a cui in questi mesi abbiamo già assistito, ovvero il collasso degli ospedali pubblici e il divario tra questi e le strutture private.

Le carenze strutturali sono tante e – come sottolinea la psicologa Flore – «la popolazione si è trovata a confrontarsi ancora più del solito con la carenza di servizi psicologici pubblici, in situazioni di grande difficoltà. Se ci fossero stati più psicologi negli ospedali, per esempio, avrebbero costituito una risorsa per il personale sanitario, che si è confrontato e continua a confrontarsi con un forte stress, oltre che per i pazienti e le loro famiglie.

Se ci fossero stati più servizi psicologici nelle scuole, le famiglie si sarebbero sentite meno sole nel gestire le problematiche emotive e comportamentali dei bambini e dei figli adolescenti, o dell’intero nucleo familiare. Perché purtroppo sulla salute psicologica in Italia si è sempre investito molto poco e oggi si vedono con più chiarezza le ripercussioni di questa scelta».

«Sono stata tre volte ricoverata in clinica neuropsichiatrica e molte volte nei reparti di psichiatria degli ospedali pubblici e La differenza si nota». spiega Sara. «Negli ospedali, almeno per la mia esperienza, i reparti sono anni ‘80, resti chiusa nella tua stanza tutto il giorno, non ci sono attività, non hai niente da fare, quindi dormi tutto il giorno. Puoi parlare con gli altri pazienti, questo sì ma non sai cosa fare. Una persona normale impazzirebbe. Nelle cliniche è diverso, gli psichiatri formano dei gruppi di confronto, ci sono tante attività da svolgere, ti tengono occupata e ti insegnano a gestire le tue emozioni».

Come tanti altre persone che soffrono di una malattia mentale, a Sara capita di dover fare i conti con la precarietà del sistema sanitario pubblico. Il trattamento farmacologico rispetto alla malattia a volte è un problema, «io ho fatto accesso a psichiatria quando avevo 18 anni mi sono vista prescrivere 3 medicinali diversi dopo un colloquio di 40/50 minuti senza analisi, tac, niente. Si parla di farmaci che vanno a agire sul cervello altre volte sul cuore, non mi capacito che vengano dati come caramelle».

Sara ha percorso più volte i corridoi dei reparti di psichiatria, vuole chiarire che nessuno dei medici l’ha mai cacciata, ma ha sempre avvertito che avessero avuto fretta che finisse, dopo di lei doveva entrare il prossimo.

«Il nostro problema è che siamo schiavi delle nostre emozioni, perché razionalmente io non mi toglierei mai la vita, non so cosa c’è dopo quindi mi fa paura, ma nel momento in cui sto male e ho le crisi, mi ritrovo dentro a una bolla, il dolore emotivo è talmente forte che non riesco a gestirlo, l’unica cosa che vorrei è che finisse e l’unico modo è porre fine alle sofferenze, e chi ti cura lo sa». Sara sospira, «per questo io come tanti, siamo finiti un sacco di volte in pronto soccorso. Pagare un privato costa tanto, è molto difficile. La nostra condizione non deve essere dimenticata, sia in tempi “normali” che in un periodo di emergenza sanitaria».

Gaia soffre invece di un disturbo che prende il nome di disturbo ossessivo compulsivo. Anche per Gaia avere una vita sociale limitata, non poter andare a fare sport, non poter frequentare i luoghi come prima ha acuito le problematiche presenti, contribuendo a farla ricadere in depressione. «Restare a casa compromette tantissimo. Quando sembra non esserci un motivo reale delle crisi, le persone non ti sanno aiutare e in queste fasi ti chiudi e ti isoli.

Sono convinta di uscirne, perché ho fatto e faccio terapia da un privato, per forza, è questo che mi salva, ma non è lo stesso di quando andavo fisicamente dalla psicoterapeuta». In lacrime, racconta delle mattine in cui non ha la forza di buttarsi giù dal letto, la voglia di lavarsi o di mangiare. «La terapia ti aiuta, ti sprona nelle piccole cose, prima non avrei mai fatto colazione appena sveglia, oggi non dico che bevo tutta la tazza di latte ma metà, non mangio l’intero cornetto ma almeno do un paio di morsi».

dal sito Servizi Psicologici Online

Per Gaia come per tanti altri o forse per pochi altri, la salvezza è quella di avere una possibilità economica che permetta l’accesso alla terapia privata. Si parla di colloqui di dai 60 ai 90 euro presso psicologhe o psicologi, mentre le sedute psichiatriche si aggirano addirittura attorno ai 200 euro. Ma per chi questa possibilità non c’è, che succede? Il Ministero della salute avrebbe potuto creare dei servizi psicologici gratuiti, se si pensa che sono state assunte molte persone in più nel personale sanitario, tranne che figure come psicologi.

Purtroppo quelli che lavorano nel sistema sanitario pubblico sono un’esigua minoranza e non riescono a far fronte alla grande richiesta. Il risultato è sempre lo stesso: chi può va dai privati, chi non può resta scoperto.

Alcuni professionisti hanno però cercato di rimediare al caos provocato dalla pandemia. La dottoressa Flore, per esempio, insieme a due colleghe ha creato un servizio online. «Partendo dal fatto che a causa del lockdown molte persone improvvisamente si sono trovate chiuse in casa e impossibilitate ad accedere ad uno studio psicologico abbiamo creato il servizio telematico “Servizi Psicologici Online”. Oltre a non voler lasciare soli i pazienti che seguivamo da tempo, Abbiamo pensato tante altre persone si sarebbero potute trovare, anche in futuro, in difficoltà ad accedere allo studio di uno psicologo».

E aggiunge: «Purtroppo la pandemia per molti ha comportato o peggiorato difficoltà lavorative, io mi sono comportata come faccio di solito, ossia ho dedicato una parte del mio orario lavorativo alle consulenze e terapie a costi calmierati. Lo faccio volentieri se vedo che da parte della persona c’è una buona motivazione a intraprendere un percorso psicologico, e considerando che i servizi pubblici scarseggiano, mi sembra ingiusto escludere parte della popolazione dal diritto alle cure».

Dal basso, in diverse regioni, sono stati istituiti dei servizi gratuiti, che poggiano sul volontariato o sulla militanza. A partire dalla destituzione dei manicomi con la legge del 1978 e con l’esperienza di Basaglia si sarebbe dovuto procedere con una sorta di integrazione di servizi per la salute mentale all’interno delle unità sanitaria territoriale, ma questa articolazione territoriale non c’è mai stata, si tratta di un processo interrotto e mai ripreso, a maggior ragione con la pandemia da Covid-19. E le conseguenze si fanno sempre più visibili.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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