Michele Paris
L’accoglienza in pompa magna riservata lunedì a Parigi al presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, è stata l’ennesima conferma dell’importanza che continua a rappresentare per la Francia il più popoloso dei paesi arabi. Le polemiche esplose attorno alla visita del dittatore sanguinario sono state solo lievemente attenuate dalla notizia della liberazione provvisoria di tre esponenti di una delle pochissime ONG rimaste attive in Egitto. La repressione continua tuttavia in modo feroce e riguarda ogni forma di dissenso, ma all’Eliseo, così come nelle altre cancellerie occidentali, le priorità nei rapporti con Il Cairo rimangono le vendite miliardarie di armi e la “partnership strategica” in un quadro regionale sempre più teso.
Come sempre accade, il governo francese ha spiegato anche in questa occasione che eventuali condanne esplicite dei metodi brutali del regime o iniziative di boicottaggio economico e militare rischiano di essere controproducenti. Meglio dunque riservare ai colloqui privati le possibili pressioni, da esercitare magari in relazione a situazioni specifiche, come sarebbe avvenuto per i tre detenuti appartenenti all’Iniziativa Egiziana per i Diritti Personali (EIPR), di cui fa parte anche il ricercatore dell’Università di Bologna, Patrick Zaki.
I tre attivisti sono stati rilasciati in attesa di processo e l’Eliseo ha espresso il proprio apprezzamento per la decisione egiziana, lasciando intendere che su di essa avrebbe influito l’insistenza francese alla vigilia dell’arrivo di Sisi a Parigi. Nel concreto, l’approccio alle dittature che, come quella egiziana, svolgono una funzione cruciale per l’Occidente consiste piuttosto nel chiudere entrambi gli occhi di fronte alle violenze di stato, facendo passare tutt’al più qualche richiesta di moderare la repressione per limitare le critiche sul fronte domestico.
Non c’è dubbio che Sisi interpreti l’atteggiamento di Parigi come un via libera al soffocamento di qualsiasi forma di opposizione, tanto che gli stessi tre membri dell’EIPR, rilasciati giovedì scorso ma sempre accusati di terrorismo, si sono visti congelare tutti i beni in seguito a una decisione presa domenica dal tribunale egiziano che presiede al loro caso. Il provvedimento, secondo la stessa organizzazione, è stato imposto nel corso di un’udienza sommaria nella quale non è stata ascoltata nessuna testimonianza né è stato permesso ai legali degli imputati di leggere l’ordine che ha congelato i loro beni. Lunedì, poi, un tribunale de Il Cairo ha vergognosamente rinnovato per altri 45 giorni la custodia cautelare di Patrick Zaki.
Il senso del rapporto tra Francia ed Egitto è stato riassunto senza troppi scrupoli da un portavoce dell’Eliseo durante una conferenza stampa prima degli incontri previsti con Sisi. In cima a tutto c’è in definitiva la “partnership [franco-egiziana] che favorisce la stabilità della regione” nordafricana e mediorientale. Al centro dei colloqui non ci sarà dunque la questione dei diritti umani, quanto le dinamiche in atto nel Mediterraneo orientale.
Dalla crisi in Libia alle contese per il gas, Parigi e Il Cairo hanno registrato una crescente convergenza strategica, rafforzatasi dalla rivalità sempre più marcata di entrambi con la Turchia di Erdogan. I media di tutti i paesi hanno poi ricordato come l’Egitto sia considerato dalla Francia, e non solo, un pilastro di stabilità contro il terrorismo fondamentalista. Il prezzo da pagare per questa lotta, anche se fosse tale, resta tuttavia altissimo e, in ogni caso, essa si traduce in larga misura in una guerra spietata contro l’islamismo politico, cioè contro gli ambienti della Fratellanza Musulmana, a cui si ispira anche il partito attualmente al potere ad Ankara.
Sisi, com’è noto, aveva conquistato il potere nel 2013 attraverso un durissimo golpe militare ai danni del presidente democraticamente eletto Mohammed Mursi, anch’egli affiliato ai Fratelli Musulmani e deceduto nel giugno del 2019 in stato di detenzione. I militari avevano sfruttato le oceaniche manifestazioni di protesta contro la deriva anti-democratica del governo Mursi, operando una contro-rivoluzione costata migliaia di morti e un numero ancora più alto di detenuti e giustiziati, per istituire alla fine un regime molto più feroce e sanguinario di quello di Mubarak, rovesciato dal popolo egiziano nel 2011.
La Libia è senza dubbio uno degli argomenti più caldi del vertice in corso a Parigi. Nel paese che fu di Gheddafi, la Francia e l’Egitto appoggiano il governo parallelo di Tobruk e le milizie del generale Haftar, contro il governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU (Governo di Accordo Nazionale) e, tra gli altri, da Turchia, Qatar e Italia. Gli interessi di Parigi e Il Cairo sono puntati sul controllo del petrolio libico e sulla necessità di evitare a tutti i costi il consolidamento di un regime basato su forze islamiste e filo-turco oltre il confine egiziano.
Francia ed Egitto, assieme agli Emirati Arabi Uniti e all’Arabia Saudita, avevano puntato sull’offensiva di Haftar nei mesi scorsi, ma la sua avanzata verso Tripoli era stata fermata soprattutto grazie al sostegno finanziario e militare della Turchia al Governo di Accordo Nazionale. La controffensiva di quest’ultimo, anzi, aveva minacciato un clamoroso tracollo per Haftar e i suoi sponsor. L’Egitto aveva allora agitato l’ipotesi di un intervento militare in Libia che avrebbe potuto portare anche a uno scontro diretto con la Turchia. Alle porte di Sirte si sono infine fermate le milizie fedeli al governo di Tripoli e oggi i sostenitori di Haftar hanno sposato, almeno per il momento, i colloqui di pace in corso con la mediazione dell’ONU.
Per quanto riguarda la Francia, la partnership con l’Egitto ha un rilievo tale da influenzare tutta la politica mediorientale di Parigi. Come ha spiegato al quotidiano Libération l’esperta di studi arabi del CAREP di Parigi, Claire Talon, si tratta in particolare di “una relazione triangolare tra Francia, Egitto ed Emirati Arabi”, rafforzata dal “confronto con la Turchia”. Il collante di questa alleanza, almeno a livello ufficiale, è appunto l’opposizione all’islam politico rappresentato da Erdogan e dai Fratelli Musulmani, che trova terreno comune con la battaglia contro l’estremismo fondamentalista rilanciata recentemente da Macron con la legge anti-democratica destinata a combattere il cosiddetto “separatismo” islamico.
Va ricordato inoltre che la macchina della repressione egiziana e la necessità per Il Cairo di equipaggiarsi per far fronte alle sfide provenienti dall’esterno richiedono un’imponente corsa agli armamenti che viene soddisfatta in buona parte proprio dalla Francia. In questo ambito, Parigi è in buona compagnia, a cominciare da quella italiana. Il nostro paese e, in particolare colossi come Fincantieri e Leonardo, ha visto moltiplicare le commesse militari e i profitti grazie all’Egitto, con buona pace di coloro che chiedono giustizia per il brutale assassinio di Giulio Regeni e la liberazione di Patrick Zaki.
Secondo alcune stime, i detenuti politici in Egitto sarebbero oggi circa 60 mila. Le condanne a morte, spesso emesse al termine di processi di massa, sono state migliaia dal 2013 a oggi, mentre il regime ha progressivamente implementato nuove leggi che hanno ristretto in maniera drastica gli spazi di manovra delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e ampliato i poteri di censura, di controllo e repressione del dissenso. Una guerra, quella condotta internamente da Sisi, che non riguarda più solo la “minaccia” islamista o gli oppositori politici, ma che si rivolge sempre più a tutti gli aspetti della società civile, a testimonianza di una crisi estrema e di una debolezza di fondo del regime stesso.
Lo spettacolo degradante dell’incontro tra Macron e Sisi assume infine anche un altro significato alla luce degli eventi di queste ultime settimane in Francia. A ben vedere, al di là delle ragioni strategiche che sostengono la partnership franco-egiziana, Parigi non sembra da tempo avere più alcuna legittimità per impartire lezioni di democrazia a una dittatura come quella egiziana. La crisi economica, politica e sociale a cui ha presieduto Macron si è concretizzata in una serie di leggi anti-democratiche e in un imbarbarimento dei metodi delle forze di sicurezza.
Poco prima di ricevere il macellaio de Il Cairo, la Francia è stata sconvolta da svariati episodi di violenza per mano della polizia, mentre Macron è stato costretto a ritirare un disegno di legge che garantiva di fatto l’impunità per le violenze della polizia contro i partecipanti alle manifestazioni di protesta. In precedenza, un recente episodio di terrorismo aveva innescato una brutale e indiscriminata repressione contro la comunità islamica francese.
Questa campagna è culminata nella chiusura forzata di moschee e organizzazioni caritatevoli e di assistenza legale senza nessun collegamento dimostrato a quegli ambienti del terrorismo islamista con i quali, invece, settori dello stato francese hanno avuto come minimo rapporti ambigui nella promozione degli interessi di Parigi sullo scacchiere mediorientale
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