E’ impressionante la quantità di foto che circolano sui social, sui siti politici, di partito, di sindacato, di giornali e associazioni e che ritraggono Lidia Menapace con le comunità sociali e politiche di cui ha fatto parte: l’ANPI, il manifesto, Rifondazione Comunista, i collettivi femministi e le organizzazioni per la pace.
Un lungo elenco di impegni che hanno fatto della sua vita un capolavoro, un insieme omogeneo nel rispetto di tutte le differenze per fondare quella libertà a cui Lidia era arrivata tramite la lotta partigiana, l’antifascismo militante, il sostengo alle ragioni della giustizia sociale, per espellere la guerra dalla storia (come era solita dire), per la crescita dell’essere umano in un contesto sempre meno sprezzante per i valori universali della condivisione reciproca di tutto quanto ci circonda.
Lidia Menapace non ha bisogno di sforzi agiografici per essere ricordata: un po’ perché starebbero stretti ad una rivoluzionaria quale è stata, ad una senatrice che scandalizzò le istituzioni per la sua contrarietà e il suo biasimo pacifista nei confronti delle Frecce tricolori («…costano e inquinano…»), ad una donna che ha sostenuto i diritti di tutti e quindi le è toccato battersi per quelli dell’altra metà del cielo così oscurata dal patriarcalismo dominante nella storia con la esse maiuscola.
Ma chi vorrà farlo, ne scriva il cammino personale, politico, sempre resistente e per questo mai irregimentabile in qualche cliché, in banali classificazioni o con troppo semplici etichettamenti. La sua critica nei confronti della sinistra moderna «che ha fatto di tutto per essere dimenticata» è stata rivolta, fondamentalmente, a tutti coloro che per continuare a dirsi progressisti, magari persino antiliberisti, l’hanno fatto sposando sempre più visioni molto oltre il riformismo socialista di inizio Novecento, puntando direttamente alla finalizzazione governista e tradendo, in questo modo, il necessario ancoraggio di un partito alle istanze materiale vere e proprie, quelle incarnate da una moderna classe lavoratrice e di sfruttati, di salariati e di precari, di disoccupati e inoccupati.
A ragione, Lidia si riteneva fortunata d’essere vissuta in un secolo che le aveva permesso di vedere grandi cambiamenti, epocali ma sempre molto fragili: dalla caduta del regime di Mussolini alla Repubblica democratica, dal boom economico al biennio 1968-1969, dalla grande stagione delle conquiste proletarie al lento logorio del riscatto sociale, della lotta contro la strutturazione di una nuova espressione del capitalismo: quel fenomeno liberista che ha accentuato i caratteri estremi del sistema dello sfruttamento dell’essere umano su sé stesso, sugli animali e sulla natura.
Zaino in spalla, su e giù per l’Italia sui suoi amati treni, fin dagli anni ’70, forse anche prima Lidia ha macinato tante centinaia di migliaia di chilometri per essere sempre presente ad ogni evento che promuovesse quei valori per i quali aveva combattuto in gioventù e per i quali aveva anche messo in contro di morire. Raccontò una volta che una sera si trovò due mitra spianati davanti. Ne rimase ovviamente scossa, impaurita, terrorizzata. Senza guardare altro, cercò in poche frazioni di secondo di accampare qualche scusa ai tedeschi che la tenevano sotto il tiro delle loro armi. Poi, mentre cercava di pronunciare qualche frase, si accorse che quei due mitra altro non erano se non le traverse di un carro sul ciglio della strada.
Disse, a corollario di questo aneddoto di guerra: «Bisogna saper dominare la paura e superarla. Io in quel momento la provai e poi iniziai a tenerla sotto controllo per evitarla, per non esserne controllata».
Ricordando Lidia viene inevitabile il paragone con un’altra donna che nella sua vita ebbe la capacità di provare così tanta passione per gli altri, per i più poveri e derelitti del suo tempo e che seppe, allo stesso tempo, affrontare decine di pregiudizi: perché non era un uomo, perché faceva politica a viso aperto, perché amava la vita con tutte le sue contraddizioni e brutture causate dall’essere umano medesimo.
Rosa Luxemburg fu per Lidia Menapace quella espressione concreta di un comunismo libertario cui ha sempre teso e per la quale si è prodigata, sintetizzandolo con culture antidominanti, antimperialiste, antimilitariste, critiche del sovietismo (che permeò tutto il periodo de “il manifesto” e che fu la bussola di orientamento successivo negli anni della decadenza del comunismo italiano e della sconfitta operaia) e liberazione da ogni autoritarismo, imposizione e privazione conseguente dell’indipendenza personale, femminile, civile e sociale.
Nel convegno tenutosi nel 2009 a Milano, proprio sull’attualità di Rosa Luxemburg (gli atti sono disponibili nel testo “La Rosa d’inverno” edizioni Puntorosso), Lidia aveva colto tutta la complessità del tempo modernissimo, dopo la conclusione del “secolo breve“, distinguendo non le soggettività che si erano alimentate attraverso una esasperante motu proprio teso al carrierismo, ad un rinnovamento del principio egoistico esclusivamente fine a sé stesso.
Nella lettura della differenza di classe, che produce sempre tutte le pregiudiziali misogine e ogni tipo di stereotipo nei confronti dei più deboli, delle minoranze e degli emarginati della società, la sua analisi si innesta su quel concetto che per Rosa Luxemburg era stato dirimente nel formulare la propria concezione della lotta politica e di partito: la massa. La grande massa dei lavoratori, dei proletari, di tutti coloro che erano e sono alla mercé del padrone e che dipendevano e anche oggi sempre più dipendono da quel misero salario che riescono ad avere, dopo aver regalato la propria forza-lavoro per l’accumulazione di ingenti profitti.
Scrive Lidia a proposito di ciò: « Rosa parlando di masse intendeva il proletariato, prevalentemente operaio, ma anche il proletariato agricolo ed anche i popoli oppressi. Aveva infatti un’idea di proletariato abbastanza ricca e complessa, non piatta. Tuttavia parlava sempre di masse e io credo che oggi questa parola sia quasi definitivamente migrata a destra. Oggi bisogna intendere non tanto un rapporto con le masse […] ma soprattutto un rapporto coi soggetti perché le masse oggi sono entità complesse al cui interno si organizzano delle soggettività, dei soggetti».
La massa erano però anche le menti critiche degli studenti e degli intellettuali: uomini e donne, senza distinzione alcuna se non quella che avrebbe portato ad una considerazione egualitaria tra i due sessi, cancellando ogni subordinazione – fisica e psicologica – da parte delle seconde nei confronti dei primi.
Vuole così bene a Rosa Luxemburg, Lidia, da criticarla per innovarla, per rimetterla sulle nuove barricate su cui avrebbe voluto essere, nel pieno fermento di una lotta sociale e politica che ha visto le comuniste e i comunisti privati del loro valore aggiunto, quello della “diversità” da tutte le altre formazioni politiche, quello della rappresentanza evidente di una alternativa di società, di una speranza di vita oltre questo capitalismo. Insomma, non l’esegesi delle parole ma il loro duro confrontarsi con la realtà ne fa emergere la grandezza, anche se apparentemente anacronistico può risultare il contesto dell’attualità, dell’odierno rispetto al passato.
Lidia ha vissuto così tutte le eresie del marxismo di cui si è volutamente paludare, facendone osceno sfoggio nei confronti di tutti quei parrucconi adoratori dell’iconografia classica di uno statalismo socialista privo di valore rivoluzionario; anzi, apertamente conservatore e replicante di modelli di regime ispirati dalla tentazione gerarchica, persino nazionalista. In poche parole: nello stalinismo.
Con Rina Gagliardi ha condiviso questa lotta libertaria tanto ne “il manifesto” quanto in Rifondazione Comunista. Nel nome di quel ritorno al comunismo scevro da ogni abbruttimento imperialista, fatto di parate militari, di ostentazione della forza nel contesto della Guerra fredda, nella bipolarizzazione di un mondo decrepito, ossessionato dall’unicità del pensiero istillato nelle masse attraverso la meravigliosa dimostrazione del benessere sociale espresso nella grande epopea tardo novecentesca del consumismo a tutto spiano.
Lidia Menapce ci mancherà fisicamente, per non poterla più abbracciare ogni volta che l’avremmo incontrata nei viaggi che ancora faceva per tutta Italia andando alle iniziative di Rifondazione Comunista e dell’ANPI, partecipando a convegni, commemorazioni, feste, cortei, manifestazioni. Ci mancherà la sua voce, la sua minuscola figura di donna che invece ha giganteggiato ovunque si è fermata a dire la sua, a scriverla dalle colonne de “il manifesto” e da quelle di “Liberazione“.
Non ci mancherà intellettivamente e intellettualmente, politicamente e praticamente: ciò che lascia è molto più importante del corpo che cede alla lotta contro il Covid-19. In questo senso, come scriveva Franco Fortini, «chi ha compagni non morirà». E non muore: rivive almeno finché continua a vivere un progetto di cambiamento senza se e senza ma di una società inaccettabile, da rivoluzionare, da capovolgere e da dimenticare.
Noi non possiamo dimenticare una società in cui siamo vissuti e viviamo, con meno impeto di Lidia, indubbiamente. Ma possiamo continuare a batterci perché un giorno esistano generazioni che del capitalismo, della guerra, del patriarcalismo e del fascismo abbiano solo il ricordo che si può avere di qualcosa che è veramente stato consegnato ai testi storici, all’insegnamento, all’impossibilità di un ritorno, di una coazione a ripetere.
Addio Lidia, la terra non ti sia lieve ma del tutto impercettibile. L’amore che tutti ti vogliamo, quello sì, tu possa sentirlo in qualche misterioso modo, come avresti saputo fare tu: rivoluzionando ciò che ti circondava e invitando tutti alla lotta, senza rassegnazione ma con un sempre rinnovato spirito di rivalsa, di riconquista, di sguardo rivolto avanti senza mai dimenticare la strada fatta con tanta fatica, con tanta, tanta passione.