Cristina Quintavalla

Il coraggio del futuro. Italia 2030-2050 [i], il volume che Confindustria ha pubblicato in occasione della sua Assemblea annuale del 29 settembre, avrebbe la pretesa di ridisegnare il futuro del paese, come pomposamente ha scritto il Sole 24 ore.

In realtà si potrebbe liquidare in poche battute, come già è Stato fatto: non c’è visione di futuro, ripropone le stantie ricette di un liberismo dal fiato corto, punta ad arraffare quante più risorse pubbliche possibili.

Ma non è mai male ascoltare quella che, con un linguaggio ormai desueto, si chiamava “la voce del padrone”, se non altro perché snocciola, seppur rivestita da un involucro liberale, una visione del mondo imprenditoriale, che potremmo definire totalitaria, e che, come le sirene di Ulisse, ammalia tanti/e, incuneandosi nei loro schemi di pensiero come l’unico mondo possibile. 

Per altri versi sembra paradossalmente ricalcare la struttura sistematica della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino: l’ampia materia trattata è organizzata secondo un “ordo disciplinae”, un ordine espositivo, che dal divino ordine universale e necessario ricava l’ordo rerum, che ad esso deve conformarsi.

Ha infatti una ontologia: l’essere come valore[ii], come valorizzazione.

Ha una antropologia: l’homo faber, declinato come “imprenditore di se stesso”.

Ha una psicologia: le persone, come capitale umano[iii], che cooperano con l’impresa, competitive sul piano individuale, ma non antagoniste su quello sociale.

Ha una economia: la centralità dell’industria come primo motore- motore dello sviluppo- che deve attrarre a sé gli sforzi di istituzioni, società civile, finanza, istruzione, servizi.

Ha una politica: lo Stato e le istituzioni pubbliche  funzionali al sostegno e all’ampliamento della concorrenza.

Tale Weltanschauung, propria del “sistema Confindustria”, ripropone una sorta di religione del tutto immanente, i cui caratteri sono stati acutamente delineati da W. Benjamin in  Capitalismo come religione nel culto inesausto del profitto.

Leggiamo questo passo ispirato:

Tempi di vita e di lavoro che si confondono[iv]  e la linea che li separa abitualmente che tende a divenire sempre meno netta. Fuori dall’ambiente e, molto spesso, dall’orario di lavoro abbiamo avuto la possibilità di vedere il lavoro in “purezza”, cioè nella sua essenza ultima, nel suo risultato più puro. Questa esperienza ci ha mostrato anche una diversa prospettiva di vita e di lavoro, una prospettiva nuova, con luci e ombre, per molti versi interessante, certamente non per tutti, ma utile per capire che, soprattutto, l’antica partizione fra autonomia e subordinazione è destinata a diventare sempre meno netta” [v].

E ancora: “Tempi di vita e di lavoro coincideranno sempre più, generando così l’esigenza di decidere se avrà senso distinguere ancora tra ciò che è professionale e ciò che appartiene alla vita privata e sociale”[vi].

Molteplici sono i passi in cui si adombra questa visione totalitarial’identificazione tra gli interessi dell’industria e quelli della società tutta, tra il lavoro e la vita, tra sfera professionale e sfera privata. Questo “tutto” è chiamato nel testo il lavoro nella sua purezza, nella sua essenza ultima”, che altro non è se non produzione di valore. “Serve una regolamentazione che consenta, da un lato, di vedere il lavoro “in   purezza” come creatività, sempre più orientato al risultato, e, dall’altro, di remunerarlo per il contributo che porta all’impresa nel processo di creazione del valore” [vii].

Per raggiungere questo risultato “nella sua purezza”, occorre che i fattori della produzione e le forze produttive convergano come parti al tutto.

Come?

“Per raggiungere questo obiettivo occorre costruire in azienda, non solo attraverso le relazioni sindacali, condizioni che favoriscano il radicarsi di una cultura autenticamente partecipativa” [viii]

L’aspetto più interessante è costituito dal significato di partecipazione. Essa viene definita come “co-gestione, partecipazione alla governance”. Ma, proseguendo la lettura, emerge senza alcun dubbio che partecipare significa non essere antagonisti[ix], men che meno conflittuali.

Questo è il senso ultimo di tutto questo lungo testo: convergere nel perseguimento del valore, perseguito senza conflitti, men che meno di classe, essere orientati al risultato: “diventa decisivo il coinvolgimento motivazionale delle persone e il loro orientamento ai risultati.

Se non fosse chiaro, Confindustria ribadisce chenon è certamente foriero di risultati stabili pensare la partecipazione in termini di “avere” – cioè ottenere attraverso la contrattazione –se poi la mentalità di fondo è e rimane quella “antagonista”.[x] (325)

Confindustria si compiace in tal senso delle buoni relazioni che intercorrono con i sindacati confederali:

   “occorre riconoscere che si iniziano a vedere i risultati di quel lungo percorso di valorizzazione dell’approccio partecipativo e non conflittuale che ha visto impegnate tanto le parti sociali, quanto il legislatore. Percorso che, tuttavia, sembra deve considerarsi tutt’altro che concluso e che richiede ancora il pieno consolidamento di una diversa logica che rendal’andamento aziendale interesse comune e che coinvolga per il comune successo attività lavorativa ed attività imprenditoriale”.[xi]

Cosa hanno riguardato queste importanti intese? Ad esempio

“l’introduzione di alcuni principi di maggior rigore nella definizione dei premi di risultato – in primis la richiesta che i parametri di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione debbano essere “incrementali” rispetto ai risultati raggiunti precedentemente e, pertanto, misurabili e verificabili – ha spinto le parti negoziali a superare alcune pratiche del passato, poco virtuose, a favore della creazione di sistemi fondati su un vero meccanismo variabile ed incentivante. Questo ha favorito l’affermazione di una diversa dialettica negoziale tra le parti che ha prodotto risultati interessanti” [xii].

Non si è antagonisti in fabbrica se si accetta:

  • il lavoro agile oltre i limiti di spazio e tempo 
  • la logica del premio di risultato, variante del lavoro a cottimo, che lega l’incremento della produttività per unità di prodotto ai premi di risultato
  • la centralità del livello di contrattazione in azienda che assume un ruolo determinante nella definizione di quel modello di partecipazione
  • il ricorso allo smart working, “una dimensione lavorativa più evoluta” che occorre disciplinare, e non restare “rigidamente ancorati a tutte le caratteristiche del contratto di lavoro classico, connotato da uno spazio e da un tempo di lavoro”
  • riorganizzazione del lavoro sempre più orientato alla flessibilità di orario (permessi, banche ore, smart working) e del mercato del lavoro verso l’utilizzo dei contratti “flessibili”, contratto a termine e somministrazione a termine e maggiore libertà nell’utilizzo di tali contratti
  • in alternativa ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato, che garantisce “minori oneri indiretti in capo all’impresa”
  • passare dalla “occupazione alla occupabilità”, vale a dire che chi perde il posto di lavoro può ricollocarsi sul mercato attraverso riqualificazione o mobilità
  • risoluzione non traumatica né conflittuale dei rapporti di lavoro
  • attivazione di una procedura di risoluzione del contratto di lavoro, in modo consensuale e incentivato, davanti a commissioni di conciliazione costituite dalle parti datoriali e organizzazioni sindacali
  • superamento della vetusta etica dei diritti e dei doveri

Se il nuovo lavoro agile supera la soglia dello spazio e del tempo di lavoro tradizionale per generare una nuova forma di relazione professionale è evidente la necessità di superare la mera logica dello scambio rigidamente sinallagmatico tra diritti e doveri per inquadrare questa relazione dentro un rapporto di fiducia ma anche e soprattutto di rispetto reciproco (tempi di vita e di lavoro), che si ispira più al rapporto di lavoro che oggi si configura con il dirigente o con il lavoratore libero dall’osservanza di uno schema orario prefissatto, piuttosto che a quello con l’impiegato “classico”[xiii].

Ed ecco fondersi nell’immaginario di Confindustria l’uomo nuovo,  artefice del suo destino – magari licenziato, precario a vita, costretto alla mobilità-  con la produzione di valore, al cui servizio si è posto con determinazione sino al sacrificio di sé. Ecco l’innovativa antropologia in uno dei suoi passi più pregnanti:  “Questo moderno homo faber deve sentirsi ed essere partecipe, artefice orgoglioso del processo di creazione del valore” [xiv]

L’homo  faber, ne Il coraggio del futuro, è il modello antropologico cui si ispirano gli industriali. Dà il  titolo ad una sezione del volume, perchè assume valore normativo.

E’ indicato come sinonimo dell’imprenditore di se stesso, di colui che sa costruire il proprio futuro, approfittare delle opportunità, non arrendersi, non vivere in modo parassitario, né attendere aiuti che lo esimano dalle sue responsabilità.

Non indulgerò ad una facile ironia. L’industria italiana è nata e vissuta sotto l’ala protettiva dello Stato dall’unità d’Italia ad oggi, che in suo sostegno ha dispensato commesse, incentivi, protezioni, dazi, esenzioni fiscali, contributi in conto capitale, risanamenti, mobilità, pre-pensionamenti e cassa integrazione per i dipendenti, persino garanzie presso le banche, fornite su beni di proprietà pubblica.

Eppure l’homo faber è assimilato all’eroico imprenditore, motore della crescita e dello sviluppo del paese.

L’homo faber, tuttavia, a cui gli imprenditori italiani assimilano loro stessi, non ha in realtà molto da condividere con il significato di “imprenditore di se stesso”,  e le sue fortunae non sono espressamente le pecuniae o le divitiae.

Il termine faber nel  latino tardo alludeva più propriamente all’operaio, più specificamente al fabbro. Nella civiltà umanistico-rinascimentale l’espressione, dall’Alberti a Pico della Mirandola, indicava l’immagine di un uomo libero e dinamico, protagonista di una ritrovata dimensione mondana, impegnato a costruire la propria fortuna senza doversi appoggiare né ad un ordine naturale, né ad una provvidenza divina. L’homo faber era colui che si realizzava attraverso il lavoro e l’impegno civile e che  poneva nella vita activa nel mondo la sua autentica virtù. Questa si fondava sul consapevole valore della propria dignità, colta nella sua costitutiva libertà di scelta, nonché nella centralità cosmica dell’uomo.

Ora l ‘uso improprio dell’espressione vuole ricondurre sic et simpliciter alla trionfalistica affermazione della mentalità imprenditoriale: quella secondo cui è il businnes ciò che rende uomini, è la monetizzazione di un’idea o di una azione capaci di produrre un risultato economico ciò che rende l’uomo faber fortunae suae, la spregiudicata abilità di mercificare la realtà. Ma ancor peggio: vuole indicare un paradigma normativo, secondo il quale chi non riesce a conformarsi ad esso è un perdente, unico responsabile -in toto -della sue disgrazie. E’ l’ingiunzione ad essere vincenti, da un lato, e la colpevolizzazione privata per chi non riesce a conformarsi al modello, dall’altra.

Nè può essere diversamente, perchè questa specie di divino ordine universale e necessario si fonda sull’essere come valoreL’essere deve diventare valore.  E’ immanente alla nozione di valore il suo implicito conatus alla massimizzazione. Esso si fonda sulla produzione artificiale di  un sovrappiù, un plus-valore non impliciti, né contenuti nelle cose stesse. Implica l’esercizio strenuo di una ragione numerante, che calcola opportunità, condizioni, persone, lavoro, ambiente, come mezzi della valorizzazione, e che esige  che nulla valga per quello che è, ma per quello che artificialmente, artatamente può essere ricavato.

Indica un raggiunto beneficio superiore ai costi. Di quanto superiore fa la differenza tra chi sa valorizzare il suo capitale e chi esce dal mercato, tra chi è un vincente nella vita e chi è un vinto.

Il valore si calcola, è misurabile, quantificabile, monetizzabile. Indica il prezzo delle cose e delle persone, del lavoro e delle risorse, su cui si investe capitale per ottenerne una valorizzazione. Riconosce all’egoistico istinto economico dei più abili e astuti la legittimità di appropriarsi di cose, persone, lavoro, risorse e di esercitare su essi forme di  dominio, che ne facciano strumenti funzionali alla massimizzazione del capitale investito.

Il valore è l’opposto del dono, della cura, della gratuità, della contemplazione.

Naturalmente se l’essere è valore, l’uomo è capitale umano. Eccolo qui: “L’investimento in capitale umano è strategico e complementare rispetto a quello in capitale fisico, per fare sì che l’impresa sia effettivamente in grado di trasformare la maggiore complessità richiesta dagli investimenti in opportunità di creazione di valore.” [xv]

Aveva tristemente ragione Hobbes:“Il valore di un uomo è come quello di tutte le cose, il suo prezzo, ciò che potrebbe essere pagato per l’uso delle sue facoltà: quindi non è assoluto, ma dipende dal bisogno o dal giudizio di un altro”[xvi]

Non deve sorprendere che dei liberisti convinti, che a parole rivendicano la libertà assoluta dell’iniziativa privata e la logica del libero mercato, pretendano un massiccio intervento dello Stato in funzione dei loro interessi.

Chiedono di tutto allo Stato. A memoria: che rinnovi gli  incentivi agli investimentil e che li stabilizzi; che finanzi i grandi progetti in partenariato pubblico-privato; che co-finanzi importanti progetti di interesse strategicico promossi da imprese; che supporti gli investimenti in tecnogie innovative, soprattutto per Industria4.0;  che indirizzi la spesa della PA verso beni e servizi innovativi; che funga da volano della ripresa economica; che favorisca la ripresa della domanda interna; che assicuri l’immediata fruibilità del credito d’imposta per le imprese, e sgravi fiscali su tutto; che semplifichi gli oneri burocratici; che abroghi l’ imposta sulle transazioni finanziarie; che  razionalizzi “le tipologie di illeciti e dell’assetto sanzionatorio”; che soprattutto garantisca la attribuzione e la fruizione delle risorse europee (Sure, Recovery Fund, Green Deal, Digital Europe per gli investimenti ed il rilancio della competitività). E ancora molto altro.

Un lungo capitolo potrebbe essere aperto sul ruolo della istruzione pubblica adombrato nel volume: lo Stato deve assicurare che scuole e università forniscano una formazione sempre più in connessione con le imprese. Dovrebbe essere istituita l’istruzione terziaria, professionalizzante, con la partecipazione del sistema produttivo alla didattica e alla governance; dovrebbero essere ripristinati i percorsi di alternanza scuola-lavoro; potenziata la formazione continua “lungo tutto l’arco della vita” (per la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori licenziati); istituite “Reti Scuola-impresa”, ”piattaforme collaborative di governance tra scuole e imprese”. Occorre farla finita con gli “Atenei generalisti e multilivello”[….]e sostenere “la specializzazione delle realtà universitarie di nicchia/territorio sulla base delle loro riconosciute vocazioni formative e produttive (ad es. collegamento coi distretti industriali)”. Naturalmente con adeguati incentivi ai progetti e ai docenti impiegati.

Sarebbe meglio dire che quello che Confindustria chiede è un diverso ruolo dello Stato, inteso come leva della concorrenza delle imprese. La mission della politica dovrebbe essere quella di “concentrarsi su strategie che promuovano la dinamica dei grandi mercati continentali”. Solo se sarà garantita la partecipazione di tutti i componenti del sistema economico e sociale, le imprese italiane saranno messe  in grado di “partecipare da protagoniste alle catene del valore strategiche europee e globali”[xvii]

La distinzione tra Stato e società civile, tra interesse pubblico e interesse privato, viene risucchiata all’interno di un “tutto” pubblico-privato, con una comune mission, sebbene con strumenti diversificati.

Si tratta di valorizzare il ruolo che l’industria già svolge e che non è limitato alla creazione di profitto e valore per gli azionisti. È un ruolo che va ben oltre i confini della fabbrica. È un motore di cambiamento che include innovazione, attenzione ambientale, solidarietà, crescita sociale,merito e competenze: valori vantaggiosi per l’intero sistema e che rendono l’impresa protagonista della crescita economica e dellosviluppo sociale[xviii].

Confindustria deve attrezzarsi per sostenere le sfide che l’attendono [xix] Ha bisogno dello Stato.

Questo ruolo che Confindustria vorrebbe attribuire allo Stato è quanto mai evidente nella sua proposta di revisione del welfare.  Dietro lo slogan “Preservare il welfare state e proteggere con il welfare” intende sottolineare la necessità di istituire un sistema duale e complementare di  protezione sociale,  che sia sostenuto sempre meno dalla fiscalità generale e sempre più dalle contribuzioni private dei cittadini o lavoratori, risucchiate dalle fauci voraci di compagnie di assicurazione, banche, fondi.

Già il welfare contrattuale ha aperto una enorme falla, da cui fuoriesce inarrestabile l’obbligatorietà dell’intervento pubblico nella tutela dei diritti sociali.

La contrattazione, dunque, si svolgerà sempre più su tematiche che non atteranno puramente e semplicemente alla determinazione dei valori salariali da corrispondere tempo per tempo ai lavoratori ma si articolerà sugli interventi, anche e soprattutto, di welfare aziendale, che costituiranno, in prospettiva, forme di “copertura” sempre più ampia per i lavoratori: dalla sanità alla previdenza integrativa, già diffuse nella contrattazione, alla garanzie relative alla non autosufficienza, al concorso alle spese per l’istruzione e la formazione, per il lavoratore e il suo nucleo familiare, fino ai servizi alla persona in senso lato. Tutte iniziative che peraltro sollevano l’organizzazione statale dal dover rispondere direttamente a bisogni essenziali dei lavoratori, lasciando una maggior quota delle risorse pubbliche a favore di …..[xx]

Serve uno sforzo di fantasia per capire “a favore” di chi? Manco a dirlo: “lo sviluppo del secondo pilastro va perseguito mediante l’estensione degli incentivi fiscali alle imprese e a tutti i cittadini” [xxi]

Oltre 5 milioni di lavoratori sono attualmente assistiti da fondi privati, per il tramite della contrattazione aziendale o di categoria.

Questa la giustificazione di Confindustria. “Solo se sostenibile il nostro welfare state può essere funzionale alla crescita economica ed allo sviluppo della società e, soprattutto, coerente con l’esigenza di tutela delle diversificate situazioni di bisogno nell’arco di tutta la vita dei cittadini “[xxii]

Ma non è sostenibile. Dunque:  “serve costruire un buon sistema di protezione sociale sui pilastri della previdenza e della sanità nelle loro dimensioni pubbliche e private. Dobbiamo difendere la complementarità del modello di welfare italiano correggendone alcuni difetti.” [xxiii]

Il piatto è ghiottissimo. Basti pensare  che solo per la sanità la posta in gioca ruotava prima della pandemia su cifre che sfioravano i 150 mld di euro.

La complementarità del modello di welfare,proposto da Confindustria,  peraltro già ampiamente attuato nel nostro paese, riguarda anche l’istituzione di una previdenza integrativa.

La previdenza complementare, sulla scorta dei più recenti provvedimenti normativi, garantisce anche la copertura di un bisogno crescente di protezione sociale in caso di discontinuità occupazionale o di uscita anticipata dal mercato del lavoro, di non facile soluzione nell’attuale contesto di finanza pubblica[xxiv]

Pensa proprio a tutto Confindustria, anche alla nostra “discontinuità occupazionale”!. In tal modo il povero disgraziato che viene licenziato rivendicherà con orgoglio di aver pagato doppi contributi, allo Stato e all’assicurazione /banca/fondi interprofessionali, per raggiungere il confortante risultato di doversi pagare da sé pure il licenziamento!

Tanta sollecitudine in verità è ammirevole. Che altro attendersi d’altro canto da un’organizzazione imprenditoriale che confida nella persona, nella  creatività, nella coscienza dell’essere umano?

Tocchiamo in questo passo il vertice del pensiero  confindustriale:

Nell’epoca in cui trasferiamo intelligenza artificiale alle macchine e le scopriamo sempre più potenti, il focus si sposta dalla collettività all’individuo e la parola cruciale è, quindi, “coscienza, perché la consapevolezza del contesto e la capacità di interpretare i fenomeni non siamo ancora in grado di trasferirle alle macchine.  [xxv]

Le macchine non hanno coscienza; solo l’essere umano ce l’ha, dunque:

In un’epoca in cui si parla di robotica e digitalizzazione e si ragiona sulle implicazioni che la quarta rivoluzione industriale produrrà sul lavoro, l’unica azione che appare sensata è, come si accennava innanzi, quella di concentrarsi sulla persona quale punto di coscienza ed elemento vitale di ogni realtà imprenditoriale[xxvi].

Ma tocchiamo anche il vertice del lirismo: facendo proprio il pensiero di John Naisbitt, che si è a lungo occupato di megatrends e delle tecnologie del futuro, Confindustria si compiace di prevedere il futuro.  “La svolta più importante del ventunesimo secolo non avverrà grazie alla tecnologia ma in seguito a un’estensione di ciò che intendiamo per esseri umani”.[xxvii]

Un corpo umano incorporato dentro un robot, o un robot incorporato in un corpo umano?


[i] Confindustria, Il Coraggio del futuroIlCoraggiodelFuturo_Italia2030-2050.pdf, 2020.

[ii] Il termine ricompare nelle sue derivazioni in ben 91 pagine.

[iii] Il termine è utilizzato in 13 pagine.

[iv] Il grassetto qui e altrove è sempre nostro-ndr

[v] Confindustria, Il Coraggio del futuro, cit., p.326.

[vi] Ibidem, p.353.

[vii] Ibidem, p.329.

[viii] Ibidem, p.324.

[ix] Ibidem, p.342, “la cultura della partecipazione è solida e per nulla improntata alle logiche del mero antagonismo”.

[x] Ibidem, cit., p.325.

[xi]Ibidem, p.329.

[xii]Ibidem, p. 328. Poco dopo viene precisato:“Il pregio dell’accordo (esteso anche alle aziende in cui non ci sono rappresentanze sindacali) è anche quello di non aver adottato una soluzione standard (impossibile da adattare alle specifiche e diverse esigenze delle imprese), bensì di aver favorito l’adozione di soluzioni diversificate, a livello di singola impresa, in grado di valorizzare i modi e la misura in cui le mansioni svolte dai singoli lavoratori concorrono a determinare gli obiettivi dell’impresa e i risultati economici conseguenti.

[xiii]Ibidem, p. 331.

[xiv]Ibidem, p. 326.

[xv]Ibidem, p.126.

[xvi]T. Hobbes, Il Leviatano, § 10.

[xvii]Confindustria, Il coraggio del futuro, cit., p. 134: “le sfide globali non si giocano sul piano delle singole imprese né su quello dei singoli paesi, ma su quello delle piattaforme continentali in competizione tra loro per la leadership tecnologica del prossimo futuro”.

[xviii]Ibidem, p.106.

[xix] Ibidem, pp.150-151: “Da queste considerazioni emerge con chiarezza la portata del cambiamento e le dimensioni della sfida che le imprese devono affrontare: non è solo l’acquisto di nuovi macchinari e tecnologie,ma una completa revisione dei processi produttivi con l’evidente necessità di affrontare una riorganizzazione di tutta la fabbrica, inclusa l’organizzazione del lavoro. L’impresa deve quindi essere non solo consapevole delle potenzialità offerte dalle tecnologie digitali, ma deve anche avere una visione strategica per delineare gli obiettivi che intende raggiungere e il percorso di innovazione da intraprendere”.

[xx]Ibidem, p.340.

[xxi]Ibidem, p.352.

[xxii]Ibidem, pp.345-346.

[xxiii]Ibidem, p.348.

[xxiv]Ibidem, p.350.

[xxv]Ibidem, p.324

[xxvi]Ibidem, p.343

[xxvii]Ivi.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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