Se la voglia di libertà si riduce alle compere natalizie, ecco spiegata la vittoria del liberismo. Senza poi tanti affanni analitici, senza dover scomodare spiegazioni sociologiche o scrivere libri con nuove pagine di moderna antropologia. Sebbene non condivisibili, se interpretate come mera osservazione parzialmente assolutoria dei comportamenti sconsiderati dei cittadini, le parole del Sindaco di Milano sono brutalmente veritiere: «La gente fa ciò che le è permesso».
Fino ad ora l’atteggiamento istituzionale nei confronti dell’impatto tra la pandemia e la popolazione è stato paternalistico, teso a mostrare una volta il bastone e un’altra volta il dolcetto in premio per il bimbo buono che ubbidisce solamente se intravede un vantaggio per sé stesso. Sarebbe oltremodo ingiusto pensare e affermare che l’esecutivo si sia mosso esclusivamente con queste intenzioni: diciamo che, in qualche maniera, vi è anche stato tirato dentro, per la giacchetta, dalle circostanze, da tanti interessi di parte, di vera e propria bottega e di mercato.
Per cui, se le intenzioni sono state buone, il risultato che ne è venuto fuori è tutt’altro che corrispondente ad una serie di virtuosismi conseguenti. La frustrazione per le restrizioni, che sono limitazioni di movimento, quindi di vivibilità della quotidianità in ogni sua piacevole o spiacevole espressione, si sta facendo cosciente della durata della pandemia e quindi ogni apertura anche minima, ogni alleggerimento permesso assume le fattezze di un “liberi tutti” scritto a chiare lettere nella pur visibile distopia che si porta appresso, così come San Rocco con il suo cane.
Si dice che il santo di Montpellier girasse per l’Italia affrancando le pene dei malati di quella tremenda peste che si prese l’intera Europa nel ‘300 e ne fece sterminio. Se si incamminasse per le vie del Paese oggi e vedesse, nel corso di una nuova pestilenza, le città stracolme di persone, penserebbe che non esiste nessun virus, che la vita scorre normalmente; a parte le mascherine, qualche bottiglietta di Amuchina che spunta dalle borse e i gel sanificanti presenti in ogni negozio e ipermercato.
San Rocco non capirebbe e, del tutto sinceramente, è difficile pure per noi capire come mai la libertà non sia vissuta differentemente nella pandemia: uscire vuol dire poter acquistare dei beni di consumo. Uscire non significa prendere tante biciclette e fare un giro per le colline, le pianure e i tanti borghi della nostra bella Italia. Uscire dalla zona rossa e arancione equivale ad andare a fare la spesa non necessaria, i regali di Natale e di Capodanno, approfittare di sconti, del rimborso governativo e della lotteria degli scontrini.
Misure anche sensate per sostenere l’economia italiana, ma che spingono ad uscire anche ci non ne avrebbe bisogno per affollare le vie centrali delle grandi città, per riempire i luoghi delle movide, perché pare che sentirsi liberi voglia dire “fare l’aperitivo“, l’”happy hour“, strusciarsi avanti e indietro per via Montenapoleone a Milano, nelle gallerie, nelle piazze: tutti a fare compere, perché evidentemente questa è la vita.
Con buona pace dell’inquinamento atmosferico, sarebbe più salutare persino prendersi una moto o una macchina e andare fuori porta e poi fermarsi ai limiti di un bosco e vivere un po’ naturalmente qualche ora della giornata. La grande concentrazione di cemento invece imprigiona gli animi liberi, li rende succubi di una condivisione di comportamenti che sono considerati sociali solamente se si uniformano al clima delle feste che impone l’esasperante adozione della frenesia consumistica come etica quotidiana.
Non è Natale se non si comperano regali, se non si fa “girare l’economia“, se non ci si perde in nevrotiche corse all’acquisto, alla ricerca di qualunque cosa possa mettere la nostra coscienza in pace davanti alla lista di nomi di parenti ed amici cui sentiamo di dovere qualcosa e lo esprimiamo con un dono. Legittimo, comprensibile, addirittura “naturale” in un tipo di società come quella data. Ma ci si attendeva che la pandemia avesse fatto mettere un po’ di giudizio in merito, evitando torme di persone distante l’una dall’altra pochi centimetri per la densità che si crea, in barba alle tre più elementari raccomandazioni – ormai entrate di diritto nella storia della convivenza con il Covid-19 – e tra queste proprio il distanziamento personale.
Non si tratta di sostenere maggiormente il commercio su Internet piuttosto che quello di prossimità, del negozio vicino a casa nostra che non può certo sostenere la concorrenza con grandi gruppi di distribuzione di ogni tipo di mercanzia. Si tratta, semmai, di biasimare un effetto contrario rispetto alla causa: se lo scopo dei DPCM è frenare la diffusione del virus, è del tutto evidente che incentivando gli acquisti si mette in moto il meccanismo di aperta contrapposizione tra salute ed economia.
Non è possibile riaprire negozi, ristoranti, mercati e ipermercati decretando, e in parte raccomandando, che ci si comporti perbene: pare di sentire Geppetto dire a Pinocchio di andare dritto dritto a scuola invece di perdersi col teatro dei burattini di Mangiafoco. Fare appello alla coscienza singola per il bene collettivo sarebbe utile se si vivesse in una società dove la singolarità sentisse il dovere che ha nei confronti della massa, del popolo. Ma in un mondo dove l’individualismo è la premessa per potersi affermare in tutto e per tutto, contro tante altre individualità concorrenti, ogni appello all’interesse sociale e comune finisce per cadere nel vuoto.
Siamo sempre nel luogo comune dello scarica barile, del pensarsi non esposti a certi pericoli e quindi slegati dal vincolo della promessa di comportarsi bene e di contribuire così ad una resistenza necessariamente complice contro il virus. E’ molto difficile esprimersi in questi modi, perché per un libertario può aprirsi il varco del dubbio su quanto ci si avvicini inconsciamente al punto di non ritorno di una tendenza autoritaria e quanto ci si allontani, parimenti, da un senso di responsabilità che ci riporta all’etica sociale, alla tutela del benessere comune.
Arrovellarsi su come si debba e si possa criticare la separazione ampia che esiste tra legislatore e popolo, tra norma e dovere, tra raccomandazione e diritto, è anche crearsi degli scrupoli necessari per non perdere la propria di coscienza, per non sacrificare i propri ideali sull’altare di un eccessivo pragmatismo pronto ad essere richiamato sempre da chi crede che la libertà sia l’essere privi di vincoli, anche quelli che sono sacrosanti quando in ballo c’è la salute, la vita e la morte di tante persone deboli, fragili e pure di chi si ritiene immune dall’attacco del Covid.
Il problema va ridotto all’osso: se ci si ammala e se si fa ammalare qualcuno per comportamenti sbagliati, non ci si può estraniare né dalla società e nemmeno dalla colpa. Non esiste un’isola deserta su cui scontare quarantena e colpa. Il cosiddetto “villaggio globale“, lo si voglia o no, esiste e ci include tutte e tutti; per questo non possiamo chiamarci fuori dalle responsabilità che abbiamo, pur vivendo nel capitalismo, nella società antisociale delle merci e del profitto, del consumismo più sfrenato.
Il liberismo vince e si è applica molto bene da sé stesso come antietica: sorge con ipocrita pacatezza, come principio antisociale che si riversa sull’incoscienza individuale e spinge a primeggiare su tutto e tutti. L’interpretazione molto libera delle norme e il menefreghismo che ne consegue sono all’origine di questa manifestazione di massa consumistica. Scambiata per libertà e per riappropriazione debita della vita, del vivere consapevolmente.
Il sentirsi vivi è snaturato, tolto proprio dalla natura, privato della fantasia dei pensieri che non conoscono nessuna restrizione, nemmeno quella del carcere. Ma il materiale prevale sull’immateriale: l’oggetto interpreta i sentimenti a tutti i costi. Anche economici.
MARCO SFERINI
Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay