L’ultimo libro di Emiliano Brancaccio illustra che la legge generale di riproduzione e tendenza del capitalismo lo rende una minaccia perfino per la democrazia liberale. L’alternativa è la pianificazione collettiva come propulsore della libera individualità sociale.
Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, a cura di Giacomo Russo Spena, ed. Meltemi, 2020.
È uscito a metà novembre un libro dell’economista Emiliano Brancaccio che dovrebbe essere letto e può essere letto agevolmente anche da chi non ha dimestichezza con l’economia, perché lascia fuori dal campo i tecnicismi per dirci l’essenziale di questa crisi e perché ci indica una risposta radicale necessaria per superare il capitalismo e non per salvarlo.
Brancaccio, docente di politica economica all’Università del Sannio, è considerato un economista eretico. È autore di numerosi saggi pubblicati da riviste internazionali e ha promosso il Monito degli economisti contro le politiche europee di austerity.
Il libro si compone di tre parti.
Nella prima vengono riproposti otto suoi articoli o interviste sulla crisi e sulle misure necessarie per affrontarla. Leggendoli si apprende quanto l’autore fosse stato preveggente a pronosticare – già l’anno precedente – la crisi del 2008 e poi a criticare gli indirizzi di politica economica vanamente seguiti per uscirne. Ma già in questi brevi articoli emergono alcune riflessione che Brancaccio svilupperà nel prosieguo del libro: sulla centralizzazione del capitale e la polarizzazione delle classi, sui ritardi della sinistra nel comprendere i cambiamenti del capitalismo, sull’insufficienza delle politiche keynesiane nell’attuale fase e sugli spazi che le politiche di austerità aprono alla destra reazionaria (Sostenere l’austerity e poi dichiararsi antifascisti? Un’ipocrisia). La serie si conclude con un’intervista pubblicata nel giugno scorso da “Jacobin” in cui si invoca un “comunismo scientifico”, cioè il superamento dei diritti e dei brevetti, che limitano la circolazione libera e l’utilizzo comune dei progressi scientifici, come sta avvenendo, per esempio, per i vaccini anti-Covid.
Nella seconda parte sono riportati i resoconti di dibattiti in cui l’autore si è confrontato con Olivier Blanchard, il quale, oltre a essere noto accademico e autore di un manuale universitario molto gettonato (e “smontato” da Brancaccio nel suo Anti-blanchard), è stato capo economista del Fondo Monetario Internazionale nel corso della crisi del 2008, con Lorenzo Bini Smaghi, del Consiglio direttivo della Bce, con Romano Prodi e con Mario Monti. In questa parte ci ha colpito come gli autorevoli interlocutori siano stati costretti, di fronte all’evidenza della crisi e forse anche agli argomenti solidi del’autore, a ripensare se non sconfessare le loro teorie e ricette del passato riconoscendo a denti stretti i guasti dell’austerity. Prodi, per esempio, ha dovuto convenire sulla necessità di istituire una disciplina dei movimenti di capitali; Blanchard sull’inutilità della deflazione per affrontare la crisi; Mario Monti sulla circostanza che “senza il pungolo della minaccia socialista” sarebbero state difficilmente immaginate le politiche keynesiane, giungendo perfino ad ammettere che il capitalismo “ha dato il peggio di sé” dopo la caduta del muro di Berlino.
La terza parte, infine, è un saggio sistematico, Catastrofe o rivoluzione, di cui una versione era già apparsa nella rivista “Il ponte” (6/2020) e di cui tratta la videointervista rilasciataci recentemente dall’autore.
Il saggio esordisce proponendo un collegamento fra la teoria della riproduzione e della crisi e quella delle leggi di tendenza del capitale. A noi pare che vi sia tanto Marx sia in questo approccio metodologico che nell’approdo dell’analisi. La “legge di riproduzione e tendenza” infatti mostra quanto sia andata avanti e proceda la centralizzazione del capitale già prevista dal Moro e oggi misurabile con notevole precisione.
Tale legge, afferma l’autore, “non si oppone ma nemmeno necessita della tesi di caduta tendenziale del saggio di profitto”. Prendendoci la licenza di una digressione, riteniamo che, se non si dà tale necessità, è altrettanto vero che la caduta del saggio del profitto costituisca un elemento di accelerazione della spinta alla centralizzazione dei capitali in quanto la penuria e la voracità di profitto determina senz’altro un rafforzamento della pulsione a sgombrare il campo dalla concorrenza dei piccoli capitalisti. La presa in considerazione di quest’altra legge di tendenza consentirebbe di leggere le crisi e le sue cause anche secondo una diversa e feconda angolatura, come pare ritenere lo stesso autore. nell’intervista a Vincenzo Macarrone pubblicata sul “Ponte” di marzo 2016, [1] e farebbe luce anche su uno dei motivi della messa in soffitta di Keynes. [2]
La legge di riproduzione e tendenza comporta inesorabilmente precise conseguenze.
Da un lato aumenta l’ingiustizia, visto che il tasso di rendimento del capitale, come aveva intuito anche Piketty, si mantiene al di sopra del tasso di crescita dell’economia e quindi erode i redditi del resto della società e del lavoro in particolare.
Altra conseguenza è la polarizzazione sociale. La lotta tra i capitali tende a provocare il fallimento dei più deboli o la loro acquisizione da parte dei più forti. Il ceto medio tende a scomparire. Questo fenomeno acquista maggiore rilevanza durante le crisi e sta accelerando intensamente nel corso dell’attuale crisi che la Covid-19 ha amplificato. Cioè, con la distruzione dei piccoli capitali molta piccola borghesia si proletarizza, le classi tendono a ridursi a due e quindi si estende il campo del lavoro. Un campo che il capitale tende a uniformare, livellando le differenze tra gli sfruttati. “Che si tratti di nativi o di immigrati, di donne, uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale.”
A questo proposito ci permettiamo di aprire un’altra parentesi per una puntualizzazione. Se indubbiamente si vanno e si andranno sempre di più avvicinando le condizioni tra un lavoratore cinese e uno italiano, se al capitale non frega niente se sei immigrato, transgender ecc., perché è interessato solo a sfruttarti, è altrettanto vero che non viene meno il suo interesse a dividere il fronte antagonista e quindi a differenziare i livelli di sfruttamento e di condizione sociale. Per esempio continuerà a coltivare di forme di schiavismo degli immigrati, meglio se clandestini. Prova ne sia che la legge Turco-Napolitano era oggettivamente a ciò funzionale e i loro promotori erano indubbiamente legati all’establishment del grande capitale. In questo modo si persegue un duplice obiettivo: una pressione sul mondo del lavoro “garantito” da parte di soggetti senza garanzie e ricattabili e la canalizzazione del malcontento in direzione di una guerra fra poveri. Altrettanto si potrebbe dire delle diversificazioni contrattuali di lavoratori che operano nella stessa catena produttiva.
Tornando alle conseguenze della legge di riproduzione e tendenza, la concentrazione del potere economico porta con sé, inevitabilmente, la concentrazione di quello politico. Brancaccio avverte che sarebbe fuorviante limitarsi a uno sguardo sulle “origini gloriose” del capitalismo, che ha abbattuto i privilegi aristocratici e portato una più equa distribuzione della ricchezza – per il semplice fatto che i capitalisti erano più numerosi dei nobili e dei proprietari terrieri –, una più equa distribuzione del potere politico e una espansione dei diritti. Oggi la situazione è esattamente capovolta. “Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalesimo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini.”
In ragione di ciò il capitalismo contemporaneo diviene sempre più incompatibile con le stesse istituzioni liberaldemocratiche, che esso tende a smantellare. E si comprendono quindi, aggiungiamo noi, i reiterati tentativi in tal senso anche nel nostro paese. La catastrofe prossima ventura del capitalismo, se la sinistra non si attrezzerà a contrastarla, non sarà solo una catastrofe economica ma anche democratica.
Questa lotta fra capitali e il panico dei settori capitalistici che rischiano l’estinzione determina anche una lotta di classe “tutta interna alla classe capitalista” e una reazione sovranista dei piccoli imprenditori. Per questo la rivendicazione di politiche keynesiane oggi può essere funzionale a questo tipo di reazione, alla difesa dei piccoli proprietari spaventati, e ingloba perfino tratti xenofobi. In questa lotta fra capitalisti è emarginato il punto di vista del lavoro e le rivendicazioni di keynesismo à la page non vanno al di là di richieste di protezioni assistenzialistiche, guardandosi bene, per esempio, dal prospettare un controllo dei movimenti di capitale, senza il quale nessuna politica socialmente equa è fattibile. Infatti la libertà della loro circolazione per tutto il globo alla ricerca del massimo rendimento, e quindi della massime opportunità di sfruttamento, anche travalicando il confine dei cosiddetti “diritti umani”, è un formidabile fattore di competitività al ribasso dei diritti, oltre che di instabilità economica e di conflitti armati. Pertanto “la lotta per il ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, è una proposta illuminata, più rilevante della mera scelta tra una moneta unica e più monete nazionali.”
A Brancaccio quindi, pur essendo egli estremamente critico verso le istituzioni europee e non escludendo neppure la possibilità di un’uscita da queste istituzioni, preme distinguersi con nettezza da tali posizioni reazionarie, cosa che non fanno le formazioni “rossobrune” o di sinistra pericolosamente a esse adiacenti, e pone al centro una diversa alternativa, che poi ci pare costituisca il piatto forte di questo libro: la pianificazione collettiva come propulsore della libera individualità sociale.
Già su questo giornale abbiamo evidenziato che proprio questa crisi rende evidente la necessità della pianificazione. Questa parola è vista da molti, e vi “insistono gli apparati ideologici”, come un “sinonimo di stalinizzazione” e di distruzione delle libertà individuali che invece il capitalismo tutelerebbe. Brancaccio avverte che “in realtà le cose stanno diversamente […] Non solo le sanguinarie dittature capitaliste della storia passata, ma anche le prospettive future delineate dalla legge di movimento, indicano che nei fatti la libertà del capitale costituisce una potenziale minaccia per tutte le altre libertà e per lo stesso liberalismo democratico”. E a proposito della pianificazione avverte che “la storia della pianificazione va molto al di là del naufragio sovietico e lambisce persino un tempio del libero mercato come gli Stati Uniti (Leontief 1974). La verità è che la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare”. Ma intanto abbiamo la riflessione marxiana in cui “il controllo collettivo della totalità delle forze produttive è condizione per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali”. Solo attraverso la “repressione della libertà finanziaria del capitale e il comunismo pianificatore della tecnica” è possibile tale sviluppo, in merito al quale Brancaccio aggiunge una notazione importante. Tale “totalità del capacità individuali attiene alla totalità delle azioni, delle percezioni sensoriali, dell’immaginazione e della creatività in ogni attività umana: dunque non richiama solo la potenza produttiva del lavoro o l’illimitatezza delle possibilità di consumo, ma coinvolge anche lo sviluppo dell’esercizio pedagogico, del gioco, della cura, della sessualità, degli affetti, di quella che con Engels e Kollontaj si potrebbe definire la produzione sociale dell’amore. Anticipando i più recenti sviluppi delle neuroscienze sociali, Marx scrive che i cinque sensi e la sensibilità umana in generale sono vincolate dal rapporto proprietario privato, e possono trovare condizioni di espansione nel suo superamento”. Perciò, avverte ancora l’autore, occorre iniziare a esplorare questo terreno. Diversamente “gli stessi movimenti di emancipazione civile contro il razzismo e le discriminazioni sessuali saranno travolti dalla crisi del liberalismo democratico, che al momento costituisce il loro unico, angusto orizzonte ideologico”.
Così come pure la questione ambientale non deve essere assunta a prescindere dalle questioni di classe e della necessità del governo collettivo dell’economia. Infatti “lo schema di riproduzione e tendenza mostra che le crisi ecologiche impattano sui prezzi relativi del sistema in un modo che pressoché inesorabilmente, al giorno d’oggi, colpisce in misura preponderante le classi subalterne”. Inoltre “gli effetti prevalenti del cambiamento climatico non vengono catturati dai prezzi capitalistici […] Il monopolio capitalistico della politica impedisce di visualizzare questi problemi. Con il risultato che oggi, come è stato detto, si riesce a concepire persino la fine della vita sulla terra ma non la fine del capitalismo”.
È in ragione di queste sue convinzioni, che condividiamo appieno, che Brancaccio auspica una riunione di “tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza intorno a questo concetto straordinariamente fecondo”, cioè intorno alla “cornice logica del piano”. Per questo scopo “un’intelligenza collettiva rivoluzionaria è tutta da costruire”. Ma questo, aggiungiamo noi, sarebbe compito anche di un partito comunista degno di questo nome, che purtroppo ci manca ma per la cui realizzazione è doveroso impegnarci.
Note:
[1] Pubblicata anche nel libro di Brancaccio oggetto della presente recensione. Vi si afferma, correttamente, che il Capitale non avvalora una spiegazione univoca della crisi e che anche la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto e il movimento contraddittorio fra legge e controtendenze giocano un ruolo importante (cfr. p. 31).
[2] Su questo argomento ci permettiamo di segnalare questo nostro contributo.