donna contadina al lavoro in India – credit to MAKAAM
La lunga protesta di milioni di contadini indiani è paradigma di una cattiva globalizzazione. Danni al clima, suicidi, fino allo spettro dell’agroindustria predatoria
Milioni di contadini stanno paralizzando l’India dall’ottobre scorso in uno scontro durissimo con il governo in carica. L’impatto economico e sociale del blocco di ferrovie, strade, autostrade e attività economiche è tale che la stessa Corte suprema indiana ha cercato una disperata via d’uscita istituzionale. Proponendo una mediazione (tramite un gruppo “neutro” con rappresentanti delle organizzazione contadine di tutto il Paese ed esponenti del governo). Ma i contadini non cedono. E sono tanti in una nazione da 1,4 miliardi di abitanti dove l’agricoltura, che è la principale fonte di sostentamento per circa il 58% della popolazione, rappresenta circa il 15% del Pil.
Le 3 leggi contestate
Le immagini dei presidi oceanici e colorati dai turbanti tradizionali sikh, delle carovane di trattori e delle cucine da campo smuovono la politica internazionale ad alto livello, in Canada come negli Usa. E, se da un lato il premier Narendra Modi cerca di blandire i manifestanti offrendo singole concessioni, dall’altro resiste alla richiesta di ritirare completamente tre nuove contestatissime leggi approvate a settembre dal Parlamento.
Una sul commercio dei prodotti agricoli, una sulla garanzia dei prezzi e sui servizi agricoli e l’ultima che modifica la precedente sulle materie prime considerate essenziali. Leggi che hanno acceso le polveri promettendo di cambiare le regole consolidate del mercato agricolo nazionale. E così martedì 29 dicembre si tiene il settimo round di colloqui tra i leader della protesta e il governo.
Ma come siamo arrivati qui?
Il contagio della protesta dei contadini
Le proteste di questi giorni sono partite dal Punjab e dall’Haryana, abitualmente definiti come il “granaio dell’India“, ma si sono estese rapidamente negli stati meridionali del Kerala e Karnataka, e in quello nord-orientale dell’Assam. Fino a coinvolgere anche i coltivatori di canna da zucchero nell’Uttar Pradesh. A testimoniare un diffuso e condiviso sentire tra gli agricoltori.
Non a caso l’Economic Survey Report 2020 attesta che in India negli ultimi 5-6 anni la crescita di agricoltura e settori affini è stata scarsa, quasi stagnante, intorno al 2,9%, e la dinamica dei redditi è stata conseguente. Un fattore di stress che si aggiunge ad altri di medio-lungo periodo.
Il clima che cambia l’agricoltura
A cominciare dalla crisi climatica incombente. Come certifica un recente studio scientifico secondo cui la produttività della terra in India diminuisce all’aumento della temperatura media annuale nella maggior parte di 15 colture osservate tra il 1967 e il 2016. I ricercatori specificano che «L’impatto negativo del cambiamento climatico sulla produzione agricola indica una minaccia per la sicurezza alimentare per le famiglie di agricoltori piccole e marginali influenzate negativamente a causa delle fluttuazioni climatiche».
Mentre la terra inaridisce, il sistema monsonico – un tempo scandito dalla regolarità delle precipitazioni – si sta trasformando in una serie di eventi meteorologici estremi, punteggiato da pesanti inondazioni. A ciò si associano timori sull’efficacia dei fertilizzanti e sulla disponibilità d’acqua se venisse impiegata ai ritmi attuali. Mentre la gran parte delle acque sotterranee viene estratta per l’irrigazione, si riscontra che in coltivazioni primarie come canna da zucchero e riso non c’è una corrispondenza adeguata tra produzione e quantità di risorsa idrica spesa.
Migliaia di suicidi tra i contadini. Per il clima…
Ma non è tutto, purtroppo. Un’analisi dei dati effettuata sui numerosissimi sucidi tra gli agricoltori avvenuti tra 2001 e 2018 nello stato del Maharashtra mette in relazione questi gesti estremi con “l’inefficacia dei monsoni, la scarsità d’acqua, la siccità, l’assenza di sicurezza sociale, di solidi meccanismi di approvvigionamento delle colture e l’aumento dei debiti“. Un’analisi confortata da numerosi altri studi, una ricerca del 2017 che citava numeri impressionanti e un’altra del 2016.
Il fenomeno dei suicidi – di quelli tra i contadini in particolare – non può quindi essere assente dalle ragioni di tensione che spingono le rivendicazioni, benché il governo Modi abbia deciso nel 2015 di interrompere la pubblicazione di dati ufficiali in proposito. E lo sa bene chi opera sul campo dei diritti umani in certe regioni. Ad esempio la ong Makaam, che dei suicidi sottolinea l’incidenza ancora elevata e la relazione con l’indebitamento personale di uomini e donne che vivono di agricoltura.
…e per i debiti. Tra usura e microfinanza predatoria
«La crisi del debito che ha portato al suicidio degli agricoltori – spiegano da Makaam – è certamente un fattore costitutivo importante della crisi agraria dell’India, che a sua volta ha alimentato le proteste degli agricoltori. In India, il Punjab è sempre stato visto come uno stato prospero con ricchi agricoltori. Tuttavia, il fenomeno dei suicidi dei contadini, che in precedenza era limitato a stati come Maharashtra, Telangana, Andhra Pradesh, ora ha attanagliato anche stati come il Punjab». E una delle cause è l’indebitamento contratto per sostenere la difficoltosa attività dei campi, per affrontare malattie e infortuni, ma anche per ripagare i debiti precedenti.
Uno studio del 2018 della Banca nazionale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (NABARD) ha mostrato che il 52,5% di tutte le famiglie di agricoltori era indebitato mediamente per 1.470 dollari. A fronte di un Pil pro-capite nel Paese intorno ai 2mila dollari, il peso della restituzione di questi debiti è gravoso, particolarmente sulle donne contadine. Queste ultime, spesso prive di proprietà a loro nome e persino di documenti, «trovano difficile accedere a fonti istituzionalizzate di credito come le banche». In tali situazioni, si rivolgono perciò «a prestatori privati o istituzioni di microfinanza, che sono entrambi incredibilmente predatori e applicano tassi di interesse esorbitanti».
Meno garanzie e più mercato nelle nuove leggi
Su questo scenario è piombata la strage del covid-19 coi suoi costi sociali, sanitari ed economici e, infine, il casus belli rappresentato dalle tre leggi regolatorie del sistema agricolo approvate senza consultare gli operatori del settore. Tra i temi controversi c’è innanzitutto quello di una sostanziale liberalizzazione del mercato agricolo. I contadini potranno infatti vendere a chi fa il prezzo più alto, ma viene messo in discussione un sistema pluridecennale basato sui prezzi minimi di sostegno (MSP) garantiti dallo Stato. Una sorta di rete di sicurezza pubblica dei redditi per alcune colture, in assenza della quale i contadini si vedono in svantaggio rispetto agli acquirenti – multinazionali comprese – privati.
E, considerando che tra gli altri motivi di scontro ci sono il mancato diritto di appellarsi ai tribunali civili per la risoluzione delle controversie e i dubbi sul regime di gratuità dell’accesso all’elettricità per l’irrigazione, gli agricoltori sono molto preoccupati. Chiedono quindi la cancellazione delle riforme, mentre Modi contratta emendamenti con qualche garanzia in più messa per iscritto. Perché né il governo ha più grande interesse ad acquistare scorte alimentari (tant’è che restringe anche i casi in cui si impegna a farlo), né intende estendere il costoso sistema MSP.
Il mix tossico di un modello di sviluppo alle corde
Ed eccoci alle proteste. Una polveriera che si alimenta anche del fumo delle stoppie che i contadini bruciano a cielo aperto. Loro sostengono di non avere risorse per adottare alternative e di continuare a farlo proprio per ribellarsi alle leggi recenti che sanzionano questa pratica. E così, paradossalmente, diffondono emissioni climalteranti che avvelenano l’aria e acuiscono indirettamente i loro debiti. E gettano la benzina delle polveri sottili sul fuoco della pandemia che flagella il Paese, alzando ulteriormente la tensione.
Al di là dell’esito che potrà avere, a questa contrapposizione -per ora sostanzialmente pacifica – concorre un mix dei principali ingredienti dell’attuale modello di sviluppo da riformare. Surriscaldamento globale, povertà e ingiustizia sociale. Una “globalizzazione distorta” che collettivizza i costi – sociali e ambientali, innanzitutto – e tutela gli interessi di pochi auto-selezionati soggetti tramite regole da essi stessi definite. Intanto il sistema consuma le risorse comuni e impone pressioni insostenibili sui più poveri del Pianeta. Come gli agricoltori del Punjab, che rischiano di doversi litigare anche le briciole.