Secondo Emmanuel Macron il 2021 sarà «il debutto di un rinascimento europeo» e, francamente, è difficile dire se il termine vada scritto con lettera maiuscola, che calcherebbe l’importanza epocale dell’anno appena iniziato, o se invece considerare l’espressione come una metafora moderna di attualizzazione di valori del passato che hanno superato il Medioevo, ma che non necessariamente lo hanno cancellato.
L’idea che un periodo presuntuosamente dipinto come “oscuro“, “monacale“, eredità di una antichità depressa sotto il peso di una mortificazione clericale del pensiero (che pure ha contribuito notevolmente alla trasmissione del sapere proprio in tutta l’Europa), possa essere sostituito da una quasi improvvisa conversione dei valori, da una loro affermazione del tutto contraddittoria – e quindi in un certo senso proprio “rivoluzionaria” – rispetto a lunghi secoli di edificazione di strutture economiche e sovrastrutture politiche ed ideali consolidate, è una idea che si può anche accettare ma che è molto opinabile.
Per diverse ragioni: anzitutto la continuità temporale e la progressiva trasformazione delle classi in lotta che non conoscono cesure così immediate, se non quelle che determinano cambiamenti profondi mediante processi di massa che rovesciano rapporti di forza economici e sistemi politici.
Quindi, la capacità di adattamento che gli esseri umani hanno nell’adeguarsi alle condizioni sociali che consentano loro di sopravvivere a discapito di altri, mettendo arbitrariamente in secondo piano presupposti ideali di grande spessore, enunciati umanisti che fin dall’epoca delle epoche sono il fregio dei predicatori religiosi e dei tribuni della plebe che si fanno paladini delle coscienze misere e delle tasche vuote di milioni di individui.
Macron adotta un’enfasi da capo di Stato, di una delle repubbliche più longeve della storia (se si considera ininterrotto il periodo 1871 – 2021, al momento…) e con una connotazione tale da potersi permettere frasi altisonanti. E’ indubbio che il 2020 sia stato un anno “storico“: lo è diventato nel momento in cui ha spiazzato il mondo intero con la comparsa di un nuovo Coronavirus che ha messo all’angolo un elenco davvero minuziosamente infinito di certezze che più o meno tutti avevamo.
Chi più, chi meno criticamente, pensavamo di trovarci in un’epoca moderna, fatta anche di pandemie ma non così globalizzanti: il che è molto diverso dal pensare ad una diffusione esclusivamente geografica di un virus. Molte altre epidemie si sono disperse sul pianeta, hanno viaggiato con i potenti mezzi veloci aerei e navali; non hanno fatto mancare la loro presenza in nessun continente ma, a differenza del Covid-19, sono rimaste localizzate in una anche vasta area ma senza diffondersi capillarmente, facendo strame di vittime ma non mettendo a durissima prova il sistema capitalistico liberista.
L’attacco alla globalizzazione delle ricchezze, dei mercati e del regime della concorrenza e del profitto è la grande novità della pandemia del 2020: ecco perché l’anno che ci è da poche ore alle spalle può dirsi “storico” e storicizzante tutto ciò che contiene. Tutti gli studi che verranno fatti sui numeri di questa “rivoluzione” non cercata, non sperata e nemmeno sostenuta da nessun movimento sociale e popolare, saranno elaborazioni di eventi riconducibili alla straordinarietà riscontrata solo dopo mesi dalla comparsa del Covid-19 a Wuhan.
Per la prima volta dopo molti anni, il capitalismo è stato perforato nelle sue più granitiche basi, mandando in frantumi non il sistema in quanto tale ma la sua riorganizzazione liberista e chiarendo che senza nessuna domanda non può esservi offerta: l’immane massa di merci prodotta ha stagnato nei magazzini quando si sono fermate intere filiere di consumo e ha prodotto una crisi così trasversale e interclassista da offuscare la tragica sorte dei salariati e dei precari, facendo quasi apparire il ceto medio (ristoratori, commercianti e piccoli imprenditori) come gli unici veri colpiti dalla pandemia.
Per quasi tre miliardi di lavoratori e lavoratrici dipendenti, per altre centinaia di milioni di poveri e indigenti la rivoluzione del Covid-19 è stata raccontata da numerosi giornali e televisioni come un fenomeno che accresceva solamente un poco il disagio già presente; mentre l’impatto patologico del virus avrebbe avuto ripercussioni inedite per le categorie “evidenti” della società, quelle non rinchiuse nei capannoni a produrre per conto d’altri, bensì quelle che si incontrano ogni giorno e che sono il contatto diretto che abbiamo con la prossimità del mercato nelle nostre vite.
E’ vero in parte, ma è altrettanto veritiero il fatto che oggi nessuno può sentirsi più al riparo dal disastro economico: se prima del Covid-19 le categorie costantemente a rischio, prive di un futuro certo e di una stabilità di vita erano quelle del lavoro salariato, precario, interinale, delle partite IVA e degli imprenditori di sé stessi, la frattura che si è aperta nel sistema è su una faglia prima silente e quieta.
Non sono infatti i grandi padroni delle catene multinazionali di vendite online e di prodotti commercializzati globalmente a tremare, ma quella porzione grande di ceto medio, di moderna borghesia, che ha finto di essere progressista per contrastare la grande concorrenza e che è passata poi subito sul carro dei neo-nazionalismi sovranisti quando ha temuto la riorganizzazione sociale dei lavoratori dipendenti esasperati dal protrarsi della pandemia.
L’auspicio del Presidente della Repubblica Francese, quel “rinascimento europeo” che dovrebbe partire con la campagna di vaccinazioni, vista più che altro come un sostegno ad una economia traballante ma pur sempre concorrenziale col resto dei poli capitalistici mondiali, è una prospettiva bene augurale per banche, finanzieri e grandi possidenti. La riforma delle pensioni che proprio Macron si accinge a varare in Francia non si discosta dai canoni più rigidi di tutela dei privilegi liberisti delle classi agiate e, per questo, è stata ed è tutt’ora oggetto di feroci critiche da parte delle organizzazioni sindacali più radicate nel paese, come la CGT.
La politica europea conoscerà un anno di incertezze e anche di addii a storici leader che hanno segnato passaggi importanti per il consolidamento delle nuove reti interstatali di controllo degli assetti economico-sociali dell’Unione Europea: Angela Merkel, dopo quindici anni di cancellierato, ha annunciato che a settembre non si ricandiderà e le grandi manovra in Germania sono iniziate. La stanca alleanza tra CDU e SPD potrebbe lasciare il passo ad un ricambio con nuovi alleati per i centristi conservatori: oltre ai socialdemocratici sono i Verdi la forza che, tanto a Berlino quanto a Parigi, emerge come innovatrice. Non certo rivoluzionaria.
Ma, del resto, oggi nemmeno le ultime forze resistenti della sinistra comunista possono attribuirsi il merito di appellarsi in questo senso: la tesi secondo cui si dovrebbe tornare alla “normalità” pre-Covid è largamente diffusa e pare incasellare con precisione la speranza di divenire una sorta di “pensiero unico” post moderno.
Una unicità di una interpretazione sola di un mondo ipocritamente (non) rinnovato grazie alla frattura temporale del coronavirus e alla rivoluzione vera e propria che il capitalismo dovrà mettere in atto per restaurare le false garanzie sociali di appena un anno fa, riconnettendo le false speranze di grandi masse di salariati e precari con la mitologica molochiana presenza di un mistero impenetrabile: la scomparsa della contraddizione insita nel capitalismo, ossia la generazione di benessere per tutti e, al contempo, la stabilità dei profitti – come carattere fisiognomico dominante – e la dimostrazione impossibile (ma necessaria, quindi reale, per i padroni) di fare di questa società diseguale il migliore dei mondi.
Il rinascimento europeo è legato, dunque, alla geopolitica mondiale, ai sobbalzi delle borse e alle compatibilità dei mercati: Joe Biden negli Stati Uniti sarà il garante di questa riproposizione liberista, scalzante il pericolo sovranista rappresentato da Trump, in nessun caso rappresentante di una svolta sociale; semmai di un riequilibrio tutto democratico del potere che gioverà al piano dei diritti umani, di quelli civili. Non è poco, se si osserva la realtà da un punto di vista liberale e liberista. E’ decisamente pochissimo se si legano diritti civili a diritti sociali.
MARCO SFERINI