Massimo Amato

L’Europa è ancora frastornata, non sembra decisa a lasciarsi definitivamente alle spalle i vecchi errori, sostiene Francesco Saraceno nel suo ultimo libro “La Riconquista”. La storia dell’euro e le proposte per un federalismo realmente solidale.

Parlare della possibilità di un cambiamento, in positivo, per un’Europa attanagliata da una crisi di lontana provenienza, quando uno scossone letteralmente senza precedenti minaccia di scuoterne ancora più duramente le fondamenta, può sembrare un’impresa arrischiata. Tutto infatti rischia di cambiare da un momento all’altro e non necessariamente del senso che ci si attendeva.

Chi a marzo 2020 dava l’Europa per spacciata sotto il peso degli egoismi e della miopia degli “eurocrati” è stato smentito da una serie di mosse che in gennaio sarebbero parse fantascienza: il patto di Stabilità sospeso, la BCE lanciata in un piano di acquisti di titoli pubblici il (PEPP) che ha pressoché azzerato gli spread schiacciando verso lo zero i rendimenti dei titoli del debito pubblico, e soprattutto un “Fondo di ricostruzione” finanziato da titoli europei ed esplicitamente basato sulla mutualizzazione del debito.

Chi a giugno ha potuto parlare di “momento hamiltoniano” e di svolta definitiva verso gli Stati Uniti d’Europa, ha invece dovuto assistere ai mercanteggiamenti di luglio, e alle esitazioni successive, e ancora non sa se il passo di giugno sarà il primo o l’ultimo passo verso l’altra Europa, e quale sarà la “normalità” dopo l’emergenza.

E tuttavia, qualora lo scopo non sia di schierarsi pro o contro una realtà data per assodata, di fare previsioni e dare consigli tattici, ma di far emergere una possibilità ed elaborare un atteggiamento strategico, allora per parlare di Europa non c’è momento migliore di questo.

Soprattutto se teniamo conto del fatto che l’insieme di presupposti a partire cui si è voluta interpretare l’economia negli ultimi trent’anni inizia ad apparire per quello che è: un insieme non di evidenze, o di assiomi, ma di puri e semplici dogmi. Se c’è una cosa che traspare, dal libro di Saraceno (Francesco Saraceno, La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercelaLUISS UP, Roma 2020), rimandando in ciò al suo libro precedente (La scienza inutile), è, per usare un’espressione talvolta abusata, la sobria consapevolezza del fatto che la situazione attuale esige innanzitutto un altro modo di pensare.

Di pensare al passato: alla storia dell’euro, delle teorie e degli impianti dogmatici che l’hanno sorretta come se non ci fosse un’alternativa. Di pensare al presente, e alle opzioni che stanno riemergendo, nonostante la resistenza di posizioni oramai semplicemente pre-concette. Di pensare al futuro, posto che il libro non delinea un semplice rovesciamento di prospettive egemoni (statalismo contro “mercatismo”, per semplificare il livello del “dibattito” corrente), ma qualcosa di potenzialmente molto più libero. 

Il sottotitolo del libro lo dice bene: se alla perdita dell’Europa si deve rispondere con un perché, che deve essere elaborato con la storia dei fatti e delle teorie (a ricordare che in economia davvero non c’è l’una senza l’altra), per “riprendercela” dobbiamo stare attenti al come.

La prima riconquista a cui invita il libro infatti è la liberazione da un orientamento compulsivo alla polarizzazione che ha imperversato sempre più duramente con il procedere della crisi, e che Saraceno descrive bene a p.  34: “Il paradosso, che spiega anche le difficoltà incontrate da chi propone un’agenda riformista, è che prospettive così antitetiche in realtà prendono le mosse da uno stesso punto di vista, vale a dire che l’Europa, e l’euro, sono irriformabili. La moneta unica, in particolare, o è così o non è”.

Ma è proprio questo stolido aut aut, che frastorna non solo quelli di bocca buona, ma spesso anche “menti raffinate”, che passo a passo il libro prova a smontare.

Intanto non è affatto detto che una unione monetaria debba implicare una disciplina di mercato che porti a convergere meccanicamente a parametri fiscali fissati d’arbitrio. La teoria come ricorda Saraceno, è “agnostica”, e anzi, se proprio si vuole, “la letteratura dedicata all’argomento mostra in modo inequivocabile che la flessibilità di mercato non può da sola garantire l’assorbimento degli shock e la convergenza di economie che fanno parte di una zona monetaria” (p. 57).

Ciò che si è creduto di poter fare con l’euro, in ossequio alla riformulazione “dinamica” dei criteri della convergenza, è stato di poter affidare ai mercati finanziari il compito di realizzarla.

È dietro e sotto questa scelta che si storicamente si annidano le prime contorsioni. Innanzitutto il tema ideologico dei mercati finanziari “efficienti”, ossia sempre in grado di allocare i finanziamenti in relazione a fondamentali attesi. In seconda battuta il cinismo imbellettato di realismo con cui spesso si procede in rebus Europaeis: l’idea cioè che proprio l’incompletezza delle soluzioni messa in campo spinga di per sé a potenziare il processo di integrazione: “La moneta unica era considerata una tappa fondamentale sia dai sostenitori del progetto federalista, sia dai fautori di un’«Europa dei mercati»; per i primi essa avrebbe spinto verso un’unione compiutamente politica; per i secondi, avrebbe reso le riforme ineluttabili. Per entrambi, la sua non ottimalità era un’opportunità e non una ragione per frenare. La «gabbia dell’euro», insomma, avrebbe contribuito a creare le condizioni per rendere ottimale ex post quella zona valutaria che, tutti erano d’accordo, era ben lungi dall’esserlo ex ante” (p. 67).

Non procedo oltre nell’esposizione del libro, sia per motivi di spazio sia per non togliere al lettore il piacere della scoperta della finezza dell’analisi, e mi concentro sulle sue poste in gioco, politiche, politico- economiche e teoriche.

Partiamo dalla teoria: si tratta davvero di depurarla il più possibile dall’elemento ideologico che ha viziato e vizia il dibattito. Da questo punto di vista il tema più rilevante, che ritorna spesso nel libro, è quello del riconoscimento della non-onnipotenza degli attori economici, per grandi che siano, che sono chiamati a giocare un ruolo nella “riconquista”, ossia nella costruzione di un’Europa che non sia più preda dei suoi difetti di costruzione, inconfessati o semplicemente rimossi: Stati, banca centrale e mercati. 

È così che infatti si esce dalle polarizzazioni: Stato contro Mercato, austerità contro espansione fiscale senza vincoli, banca centrale contro mercati finanziari, mercati globali contro Stati nazionali. Il tema è toccato in più punti (cito solo le pagine 49, 150 e 155), ma ha a che fare in profondità con un’altra importante istanza del libro, su cui vale la pena spendere qualche parola.

La formulo così, anche se non è così che forse la direbbe Saraceno: Nessuna meccanica economica può da sola fondare una comunità politica. Fino al punto che anche la decisione storica di fondare l’Europa su un meccanismo presentato dalla dogmatica neoliberale come “inesorabile” si rivela ora come una decisione politica basata tanto su delle teorie parziali quanto su una loro ancora più parziale interpretazione ideologica.

Se, come sostiene con vigore il libro, è ormai tempo di uscire definitivamente dalla gabbia mentale di un euro retto solo dalle dinamiche dei mercati efficienti, e se, simmetricamente, non è ancora tempo di fondare un’Europa compiutamente federale, allora il tema del policy-mix da adottare e degli attori, pubblici e privati, individuali e collettivi, chiamati a implementarlo, appare come un tema tanto economico quanto politico e teorico.

Economico, perché davvero si tratta di uscire dall’unilateralismo che potuto pensare che centralizzare la politica monetaria lasciando i governi responsabili delle politiche fiscali avrebbe portato a una struttura capace di assorbire ogni shock. Non solo con efficienza, ma anche con giustizia, perché in grado di evitare ogni forma di moral hazard.

Politico, perché il vero rischio che non possiamo non correre, se vogliamo che la parola “politica” abbia un senso, consiste nel costruire una comunità che sia capace di coniugare davvero efficienza (potenza nell’assorbimento degli shock) e giustizia (condivisione dell’onere degli aggiustamenti, cfr. p. es. p. 128).

Teorico, perché una gestione accurata di aggiustamenti bilanciati e simmetrici richiede una rappresentazione del sistema economico che non sia viziata da un pregiudizio di efficienza meccanica, e che dunque lavori a gestire con esprit de finesse i trade-off che caratterizzano ogni vero problema economico che non sia un puro caso di scuola.

Quali sono quindi le prospettive che La riconquista apre? Qual è il quadro realistico in cui è possibile giocarsi la possibilità di un “altro euro”?

Innanzitutto quello in cui non ci si fanno illusioni sulla possibilità di evitare il tema positivo della mutualizzazione del rischio senza glissare sul contro-lato negativo del moral hazard. Qui si può lasciare la parola a Saraceno: “In linea di principio riduzione e condivisione del rischio non sarebbero incompatibili. Al contrario, un sistema di istituzioni che puntino ad aumentare la resilienza dei singoli Paesi e allo stesso tempo garantiscano la stabilità macroeconomica dell’Unione attraverso meccanismi di stabilizzazione condivisi sembrerebbe essere l’unico cammino percorribile” (p. 151).

È ovvio che questo connubio sarebbe facilmente gestibile nel quadro di un’Europa federale. Vale la pena ricordare ai detrattori delle unioni monetarie che ce n’è una che funziona benissimo, e che non ha bisogno di minacciare la cacciata di nessuno stato membro in squilibrio macroeconomico strutturale: sono gli USA.

E tuttavia il realismo vuole che proprio questa ipotesi non possa essere presa in considerazione. Il realismo dice: gestisci la situazione in cui sei, posto che la politica (l’arte del possibile, nel senso di Weber, non necessariamente in quello di Bismarck: a dimostrazione del fatto che anche “i tedeschi” non sono un’entità omogenea) sorge proprio nel riconoscimento del “fatto bruto” che la situazione non si sceglie.

E la situazione in cui siamo è quella della duplice impossibilità di un back to normal (e il libro fa bene, nel capitolo 9, a rimarcare che la situazione attuale è caratterizzata proprio dal fatto che anche la Germania egemone sembra aver capito che in questa crisi deve prendersi qualche onere di aggiustamento) e di un approdo in tempi brevi a una struttura federale compiuta.

Cosa resta allora? Il capitolo 8 parla dei “tre pilastri di un federalismo surrogato”. Anche qui possiamo citare (p.  155): “Il primo e più importante asse consisterebbe nel dotare la zona euro di strumenti più o meno automatici di condivisione del rischio, o in altri termini di una capacità di bilancio […]. Il secondo asse dovrebbe rinforzare la capacità dei mercati di assorbire gli shock asimmetrici, anche regolandoli in modo più efficace. Infine, il terzo cantiere dovrebbe metter mano a una revisione delle regole di bilancio per consentire ai Paesi membri, che sono privati di una politica monetaria autonoma, di poter almeno usare la politica di bilancio nazionale per contrastare le fluttuazioni economiche e sostenere la crescita nel lungo periodo”.

Con questa griglia è possibile valutare con precisione pro e contro, punti di forza e di debolezza delle soluzioni che la crisi Covid ha “forzato” a mettere in campo in tempi brevi e concitati. Ed è questo che il libro egregiamente fa.

Su un punto voglio concentrarmi per concludere. Commentando i tre pilastri Saraceno aggiunge: “Si tratta insomma di affiancare l’unica istituzione «federale» dell’Unione, la BCE, con delle rinnovate politiche di bilancio, nazionali e comunitarie, sollevandola da parte del peso che finora ha dovuto portare da sola”.

Sia detto per quelli che scommettono sulla capacità di una banca centrale di far tutto con la stessa unilateralità con cui altri hanno scommesso su un’analoga capacità dei mercati: ciò che fa la forza dell’unica unione monetaria di successo esistente è proprio un circuito adeguato fra banca centrale, Tesoro federale e mercati, incentrato sulla gestione dei rendimenti dei bond federali. Che non a caso sono gli unici safe asset riconosciuti come tali dai mercati.

Se vogliamo che i passi fatti in situazione di crisi verso una gestione né stolidamente competitiva né ingenuamente solidaristica, ma realmente solidale dell’Unione non si risolvano una fiammata effimera, dobbiamo lavorare per rendere possibile qualcosa che si avvicini al massimo a un Tesoro federale, in grado di emettere degli Eurobond che siano visti e apprezzati dai mercati come safe asset, come titoli sicuri, dal rendimento atteso stabile, capaci di stabilizzare i mercati finanziari e i portafogli dei investitori istituzionali.

Saraceno ricorda provvidamente che “negli ultimi anni molti economisti hanno fatto proposte che andavano nella direzione delineata in questo volume”. Mi iscrivo volentieri nel novero (permettendomi di citare il mio lavoro del 2012 con Luca Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo), e soprattutto inscrivo volentieri fra quelle che sono compatibili con il quadro strategico che Saraceno ha sapientemente delineato nel suo libro, la mia recente proposta di una Agenzia Europea del Debito, che si rifornisca sui mercati emettendo obbligazioni comuni per poi finanziare gli Stati con prestiti perpetui, rendendo possibile un approccio non più competitivo, ma realmente comune alla gestione dei debito dell’eurozona. 

Quello di Saraceno è un libro che si tratta innanzitutto di leggere, per poi provare, salendo sulla scala che ci offre, a costruire al di là di quello che di già importante esso ci apporta.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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