Sono fortunatamente sempre meno coloro che considerano gli Stati Uniti come un modello da imitare, secondo la retorica propagandistica che è solita descrivere quel Paese come “più grande democrazia del mondo” e “terra della libertà”. In realtà la facciata democratica non fa altro che nascondere l’imperialismo a stelle e strisce, mentre la presunta libertà riguarda solamente una piccola fetta della classe dominante, e sta a descrivere l’iperliberismo economico, causa di povertà e diseguaglianze ingiustificabili in un paese così opulento.

Che la presunta democrazia statunitense rappresenti solamente un’illusione a noi era già chiaro da tempo: coloro che si oppongono al sistema capitalista e alla democrazia borghese di stampo occidentale non hanno mai sostenuto il modello a stelle e strisce – e ci mancherebbe. La novità, semmai, sta nel fatto che oramai gli Stati Uniti stanno venendo meno anche ai criteri democratici fissati dagli stessi Stati borghesi occidentali; di conseguenza, anche coloro che non si riconoscono nell’anticapitalismo e nel marxismo-leninismo stanno cominciando ad aprire gli occhi circa la vera natura degli USA.

La democrazia statunitense, per intenderci, è ad esempio quella che ha permesso ad un individuo con chiari problemi mentali come Donald Trump di diventare presidente. Secondo i principi del modello in questione, del resto, le cariche politiche spettano a coloro che vincono le elezioni, e dunque Trump si sarebbe “guadagnato” il suo quadriennio presidenziale. La stessa democrazia statunitense è anche quella che non offre reali alternative se non tra due forme di capitalismo: una protezionista, populista ed intimamente razzista, rappresentata in questo caso da Trump; e l’altra mondialista, guerrafondaia e retoricamente politically correct, rappresentata dal Partito Democratico.

Gli eventi degli ultimi giorni, con l’invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump e le continue affermazioni dello stesso presidente volte a screditare l’elezione di Joe Biden alla presidenza, hanno definitivamente aperto gli occhi a coloro che pensavano che, nonostante qualche difetto, la democrazia statunitense fosse ad ogni modo il migliore dei modelli possibili. Questa volta, Trump e i suoi sostenitori hanno dimostrato di essere pronti a stracciare le regole della democrazia borghese, il che in pratica significherebbe stracciare anche la carta costituzionale degli Stati Uniti.

Naturalmente, tale atto non è stato portato alle estreme conseguenze, e, salvo ulteriori colpi di scena, il prossimo 20 gennaio l’avvicendamento tra Trump e Biden dovrebbe avvenire pacificamente, salvando momentaneamente la facciata democratica degli USA. Tuttavia, i recenti avvenimenti hanno confermato tutte le critiche che da tempo muoviamo al paese nordamericano, oggi in preda a settori popolari che esprimono a loro modo la propria rabbia, dopo decenni di impoverimento materiale e culturale che hanno posto definitivamente fine a quello che un tempo veniva descritto come il “sogno americano”, e che oggi si è rivelato essere un incubo. Donald Trump, i complottisti di QAnon e tutti gli altri gruppi di estrema destra che imperversano nelle strade e sul web non sono altro che il risultato di tutto ciò.

Naturalmente noi non facciamo parte di coloro che credono che il 20 gennaio tutti i problemi saranno risolti: sia perché quella data non segnerà la fine del “trumpismo”, al quale, dati elettorali alla mano, aderisce ancora quasi la metà della popolazione statunitense, sia perché, come abbiamo detto in precedenza, le amministrazioni democratiche non rappresentano altro che una variante del discorso dominante – anzi, rappresentano la parte dominante della classe dominante.

Dal punto di vista politico, l’amministrazione Biden sarà resa più semplice dalla duplice vittoria dei Dems in Georgia, storico Stato filorepubblicano. I democratici hanno infatti vinto entrambi i seggi del Senato del Peach State, con Rapahel Warnock e Jon Ossoff, garantendosi in questo modo la maggioranza assoluta nella camera alta (50 seggi più il voto della vicepresidente Kamala Harris). In entrambi i casi, i candidati democratici si sono imposti con margini molto ridotti sugli sfidanti repubblicani, rispettivamente Kelly Loeffler e David Perdue. Addirittura, quest’ultimo ha ottenuto al secondo turno meno voti di quanti non ne avesse conquistati al primo, numero che gli avrebbe consentito di vincere.

I margini così ridotti, naturalmente, sono stati sfruttati da Trump per mettere nuovamente in dubbio la trasparenza delle operazioni di voto. Dal nostro punto di vista, le accuse di Trump sono del tutto insensate, ma certamente i numerosi seggi che sono stati assegnati per poche migliaia di voti nelle ultime elezioni statunitensi rappresentano alla perfezione un paese fortemente polarizzato dal punto di vista politico e spaccato a metà tra due fazioni che, pur restando entrambe ancorate al sistema capitalista, sono sempre più in contrasto tra loro. L’impressione, dunque, è che l’invasione del Campidoglio possa non restare un evento isolato, e che la democrazia statunitense sia oramai giunta al capolinea come modello politico ed economico.

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Giulio Chinappi – World Politics Blog

Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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