Sta facendo discutere la nuova serie SanPa su Netflix, dedicata alla complessa e controversa storia del centro di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano e del suo fondatore Vincenzo Muccioli.

La serie SanPa ha il merito di non limitarsi a riportare i fatti dell’epoca (cosa che sarebbe già di per sé lodevole), ma di raccontare le storie, con le voci e le facce di chi San Patrignano l’ha vissuta veramente. Vi sono ovviamente anche alcuni limiti non trascurabili, che proveremo qui a riassumere sinteticamente.

La docu-serie prodotta da Netflix ha acceso in questi giorni ferventi polemiche: appaiono spropositate le reazioni sdegnate dell’attuale direzione della comunità di San Patrignano, che l’accusa di essere “sommaria e parziale con una narrazione che si focalizza sulle testimonianze dei detrattori“.

Eppure, come giustamente evidenziato da Alexik su Carmilla Online, è “Vincenzo Muccioli il peggior detrattore di se stesso, con le sue esternazioni che finiscono per rendere poco credibili anche le difese d’ufficio dei suoi più convinti sostenitori. E non è certo colpa dei suoi detrattori se rivendica lui stesso, davanti alle telecamere, la giustezza della riduzione in catene dei fuggiaschi, l’uso della violenza fisica come metodo rieducativo, o la negazione del sostegno farmacologico durante le crisi di astinenza.”

In effetti la serie ha il pregio di apparire molto equilibrata, dando voce (e volto) ad esperienze e sensazioni molto diverse tra loro, lasciando che siano le parole dei protagonisti a ricostruire il complesso mosaico della vicenda.

Come affermato sulle colonne di Fuoriluogo da Susanna Ronconi, operatrice sociale che già negli anni ’90 giudò uno dei primi interventi di strada per il recupero dei tossicodipendenti nella città di Torino, “Il nodo e l’interesse di questo rinnovato dibattito non è San Patrignano, è il paradigma, come viene visto il consumo di sostanze, e lo stigma sociale gettato addosso a chi consuma droghe (illegali, che quelle legali sono, fortunatamente, accompagnate da una cultura sociale ben radicata che le assolve), il cui corpo è conteso tra giudizio morale (il consumatore è un deviante) e giudizio patologico (è malato), in una alleanza che è l’inferno di chi usa sostanze.”

La stessa Ronconi interviene poi sul concetto stesso di tossicodipendenza come malattia: “La questione del paradigma, appunto: quella malattia viene rappresentata allora da Muccioli, oggi ancora da troppi, come una molecola chimica che entra nel corpo di qualcuno che nulla può, lo domina, ne fa un altra persona, tanto da incapacitarlo. Un non-uomo, una non-donna, le citazioni di questo assunto nel film sono innumerevoli.”

Le cronache giudiziarie in cui viene coinvolta lo comunità di San Patrignano e lo stesso Minucci sono ben descritte nella docu-serie, e l’inesorabile emersione di pratiche coercitive violente trova, nei primi anni, una giustificazione prima etica e poi giuridica proprio nello stato di non-volontà a cui sarebbero ridotti i dipendenti da eroina, a cui non viene riconosciuta quindi una capacità di decidere e di poter disporre della propria vita.

Una delle maggiori argomentazioni usate a difesa della comunità di San Patrignano e di Muccioli, e qui arriviamo all’aspetto su cui la serie SanPa è forse carente, è quella che vuole quella comunità, con le sue contraddizioni ed i suoi difetti, come unico argine ad un fenomeno nascosto sotto al tappeto da tutta la società e volutamente ignorato dallo Stato che non sapeva come affrontarlo.

La scusante dell’unico argine in un mare di indifferenza tuttavia non tiene conto della storia di quegli anni, a partire dalla riflessione di carattere più generale alimentata già negli anni ’70 da Franco Basaglia sul concetto stesso di malattia e sulle istituzioni totali. Passando poi per la battaglia della legge sulle droghe, la n.685 del ’75, che investiva sui servizi del territorio e riconosceva il consumo problematico ed il bisogno di una risposta. Quella legge, osteggiata con determinazione dallo stesso Muccioli, veniva proprio in supporto di tutte le comunità terapeutiche che, a differenza di San Patrignano, le catene non le usavano.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 poi c’è stata una forte battaglia culturale contro la legge Jervolino (citata nella serie), che si incentrava su un approccio meramente punitivo anche nei confronti del consumatore. Una battaglia che forse ha visto il suo risultato più alto nella vittoria del referendum del ’93, che quanto meno andava a limare gli aspetti più aspramente punitivi nei confronti dei consumatori.

Una riflessione su San Patrignano andrebbe fatta su quello che è stato l’atteggiamento dell’opinione pubblica di quegli anni, pronta a santificare Muccioli ed a applaudire a quelle sospensioni dello stato di diritto per i tossicodipendenti, affidandoli ciecamente all’arbitrio di una comunità su cui lo Stato sembrava non avere alcun potere (o volontà) di supervisione, a cui sembra che si potesse perdonare qualche “sbavatura” perché le veniva riconosciuto il merito di levare i tossici dalla strada.

Un’opinione pubblica, quella messa in evidenza da SanPa, che del resto era lo specchio delle stesse istituzioni di quegli anni, con i tribunali di tutta Italia che continuavano a mandare tossicodipendenti a San Patrignano  per scontare la pena, nonostante i suoi sistemi fossero già noti dai primi procedimenti processuali.

A ben vedere, quel clima culturale altro non era che il clima generale degli anni ’80, gli anni delle sconfitte operaie e delle controriforme a cui corrispondeva, di conseguenza, una regressione generale sul piano dei diritti civili e sociali. Una società ansiosa di trovare nuovi eroi a cui appigliarsi, mentre le grandi ideologie cominciavano a mostrare le prime crepe, sperava così di aver trovato in Muccioli “l’uomo forte” in grado di affrontare un dramma, quello delle droghe, che colpiva trasversalmente i figli di tutte le classi sociali.

La stessa genuflessione della politica nei confronti di Muccioli (ad eccezion fatta del PCI e dei Radicali) raccontata in SanPa, ci offre del resto l’affresco della degenerazione della politica in quegli anni, ormai incapace di esprimere una qualsiasi progettualità, di indirizzare la società verso un modello di gestione della cosa pubblica e dei comportamenti sociali, e molto più indaffarata nella ricerca del consenso elettorale attraverso una disgraziata quanto affannosa rincorsa di una opinione pubblica che si trasformava in opinione emotiva.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: