|Niccolò Biondi

Dopo l’assalto dei sostenitori di Trump alle stanze di Capitol Hill è arrivata la censura da parte di Facebook, Google, Twitter ed altre piattaforme agli account dell’ormai ex Presidente degli Stati Uniti: un evento che segna un salto di qualità nella gestione politica dei social network e dello spazio virtuale, e che mostra apertamente una delle dinamiche profonde che stanno portando il sistema politico occidentale verso una forma di feudalesimo 2.0 in cui, a farla da padrone, sono dei colossi economici privati che non solo sono in grado di svincolarsi rispetto alla presa dei poteri pubblici nazionali, ma che – nel caso specifico dei social network – hanno il potere di regolare, controllare e gestire quello spazio virtuale che, nei fatti, ha oggi assunto le funzioni pubbliche e politiche che anticamente erano svolte dall’agorà. Sui social network, infatti, avviene oggi la gran parte del dibattito pubblico e si forma quindi l’opinione politica dei cittadini: chi ha il potere di decidere chi ha titolo legittimo a parlare, che cosa legittimamente si può affermare e il modo in cui si può farlo (quali parole sono ammesse, quali vengono censurate, et cetera) ha de facto un potere superiore a quello dei politici e delle istituzioni pubbliche, dato che i politici e le istituzioni pubbliche si trovano a dover operare in una realtà socio-culturale (dalla cui opinione diffusa dipende la propria legittimità) i cui tratti sono definiti dal dibattito che avviene sui social network e nella forma permessa dai loro proprietari.

La censura ai profili di Trump, dunque, solleva un tema politico che va ben oltre la pur condivisibile censura che ha colpito l’ex Presidente degli Stati Uniti (condivisibile, a parere di chi scrive, nel merito della questione: nessun politico, in un contesto democratico in cui la lotta politica si mantiene nella normalità e in cui non ci sono frodi elettorali conclamate, dovrebbe poter incitare a insurrezioni violente o ad attacchi armati alle istituzioni pubbliche). L’intenzione di questo articolo è quella di mettere in luce le due “anime” presenti nell’ideologia neoliberale, analizzando due punti di vista differenti sul fenomeno del “feudalesimo 2.0” (espressione con cui si intende il fatto che lo spazio virtuale è dominato e controllato da soggetti privati) e due possibili soluzioni al problema della censura virtuale; due anime che, nel dibattito ideologico e politico quotidiano, vengono spesso confuse e accomunate nello stesso calderone del “neoliberalismo”, sebbene muovano da riferimenti culturali e posizioni teoriche differenti e giungano a conclusioni, in termini di policy, molto diverse.

Una soluzione al problema del feudalesimo virtuale, di cui non si tratterà in questa sede, è quella della nazionalizzazione dei social network. Non sarebbe la prima volta, nella storia occidentale, che un’infrastruttura sorta a partire dall’intrapresa privata subisce la nazionalizzazione da parte dello Stato: la storia del Novecento è costellata da interventi di nazionalizzazione delle infrastrutture dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, sia in Europa che negli Stati Uniti. Si tratta di una soluzione che aprirebbe la via alla proprietà pubblica non solo delle piattaforme dei social network, ma anche delle società che detengono i dati derivanti dalla profilazione online. Si tratta quindi di una soluzione, che va oltre l’ipotesi dell’applicazione di politiche anti-trust che smembrino i colossi dell’industria tech, la cui principale problematica può essere ridotta ad una semplice questione: data la natura transnazionale dello spazio virtuale, quale Stato è legittimato a nazionalizzare i social network? Mancando una realtà statuale globale (una realtà che non esiste oggi, e che è utopistico scorgere nel prossimo futuro), la questione di chi sia legittimato a nazionalizzare i social network appare irrisolvibile, nonché foriera di ulteriori problemi circa l’imparzialità della gestione dello spazio virtuale.

Se la soluzione della nazionalizzazione è quella di riferimento se si muove da una posizione ideologica socialista, al netto della sua realizzabilità concreta, altre sono invece le possibili soluzioni interne al campo ideologico e politico neoliberale: da una parte si ha la politica anti-trust, dall’altra l’incremento della concorrenza attraverso la nascita sul mercato di nuove piattaforme social che aumentino la libertà di scelta dell’utente-consumatore che si trova, quindi, nelle condizioni di poter influire sull’operato delle piattaforme con lo strumento di una sorta di “sciopero virtuale” o di abbandono di un prodotto in vista di un altro.

Si tratta di due soluzioni interne al campo ideologico e politico neoliberale, dal momento che non mettono in discussione la proprietà privata delle piattaforme e delle società che le gestiscono, ma che sono profondamente differenti nelle misure tecnicamente adottate e nell’impostazione ideologica che hanno alle spalle: la politica anti-trust è infatti quella prediletta dall’orientamento “ordoliberale”, mentre l’incremento della concorrenza tra piattaforme social, senza alcun intervento politico di smantellamento dei colossi monopolistici o oligopolistici, è coerente con l’impostazione del neoliberalismo di stampo “austriaco” che è alla base di correnti ideologiche maggiormente diffuse nel mondo anglosassone, come ad esempio l’anarcocapitalismo.

Quello che solitamente viene considerato “neoliberalismo” è, in realtà, una costellazione di teorie e idee che sorge nella prima metà del Novecento, per poi affermarsi a livello politico nelle riforme attuate dai governi occidentali e nel senso comune a livello di immagine del mondo a partire dalla fine degli anni ’70. Si tratta di una costellazione di idee e teorie che può essere distinta in due grande linee di pensiero: la scuola “ordoliberale”, che fa riferimento a tutta una serie di giuristi, economisti e sociologi tedeschi (per citare solo i più importanti: Walter Eucken, Franz Böhm, Wilhelm Röpke, Alexander Rüstow, Alfred Müller-Armack) che elaborano le proprie teorie durante gli anni della crisi della Repubblica di Weimer e del regime nazista (alcuni di loro collaborano, più o meno entusiasticamente, con il regime hitleriano[1]), e la scuola “austriaca” i cui principali esponenti sono rappresentati da Ludwig von Mises e Friedrich August von Hayek e la cui influenza ideologica si è estesa perlopiù nel mondo anglosassone – mentre l’impostazione ordoliberale ha influito maggiormente sul contesto culturale europeo continentale, anche se più ci si avvicina alla fine del Novecento e più le differenze tra le due scuole appaiono sfumare[2] (nel 1962 Hayek viene nominato professore a Friburgo, sulla cattedra che fino al 1950 era stata di Eucken: un evento che, dal punto di vista dei rapporti tra le due scuole, come afferma Michel Foucault, “chiude un cerchio”[3]).

L’atto di nascita simbolico del neoliberalismo è il Colloquio Walter Lippmann, che si tiene a Parigi tra il 26 e il 30 agosto del 1938: in questa occasione si riuniscono vari intellettuali di tutta Europa, tra cui gli esponenti delle due scuole, per discutere del libro del giornalista statunitense Walter Lippmann, intitolato La giusta società, in cui veniva sollevata la questione della rifondazione della teoria liberale che era caduta sotto i colpi del socialismo e dell’interventismo statale di stampo keynesiano. In questa sede non è possibile ricostruire la dinamica di crisi del liberalismo classico nel corso della seconda metà dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, una parabola di crisi che è stata magistralmente ricostruita da Karl Polanyi ne La grande trasformazione, né i dettagli della discontinuità tra il liberalismo classico e il neoliberalismo: è sufficiente dire che i principali punti di rottura rispetto al liberalismo “classico” sono tre, ovvero la differente teoria del valore alla base della concezione sociale ed economica (dalla teoria del valore-lavoro e dei costi di produzione della teoria economica classica alla teoria del valore soggettivo dell’economia neoclassica), l’accento su aspetti differenti del mercato (dallo scambio, in termine contrattuali, nel liberalismo classico alla concorrenza tra attori economici che è il fulcro della teoria neoliberale), e infine – last but not least – la tesi che il mercato non è una realtà naturale, che “germoglia” spontaneamente nello spazio sociale lasciato libero di funzionare attraverso le politiche di laissez-farie dello Stato, bensì è un prodotto politico e sociale possibile all’interno di una ben determinata forma giuridica ed istituzionale.

Semplificando la questione all’osso, si può affermare che i punti di contatto tra le due scuole si limitano a questi tre punti fondamentali – motivo per cui si può parlare dell’esistenza di una teoria “neo-liberale”: alla base delle due scuole, tuttavia, vi sono riferimenti culturali e concezioni teoriche molto diverse, se non apertamente opposte, che non a caso hanno portato a frequenti diatribe accademiche ed ideologiche, sia nello stesso Colloquio Walter Lippmann che nel corso delle discussioni successive (avvenute soprattutto nelle stanze della Mont Pellerin Society, fondata da Hayek nel 1947 nell’omonima cittadina svizzera). Le principali differenze tra le due scuole neoliberali sono tre[4]: innanzitutto, una differente opinione sulle cause della crisi del liberalismo (gli ordoliberali ne rintracciano la causa fondamentale negli errori insiti nell’ideologia del laissez-faire, mentre gli austriaci sostengono che è proprio la mancata adesione a tale ideologia ad aver provocato la fine dell’epoca liberale); in secondo luogo, una differente concezione della storia ideologica e politica dell’Occidente e una differente concezione dell’origine delle istituzioni (gli ordoliberali hanno una posizione costruttivistica, ritenendo che il diritto e le altre istituzioni sono il frutto di un’intenzionale creazione della ragione umana, mentre gli austriaci e soprattutto Hayek sostengono l’origine spontanea ed evoluzionistica delle istituzioni; da questa differenza derivano differenti valutazioni della storia del pensiero occidentale, ad esempio dell’illuminismo considerato dagli ordoliberali uno dei massimi momenti della storia anti-feudale europea e da Hayek, invece, come un prodromo razionalistico-costruttivistico dell’ideologia socialista e totalitaria); in terzo luogo, una differente concezione del mercato e della concorrenza, con gli ordoliberali che si mantengono nel solco della teoria neoclassica dell’equilibrio economico e pertanto ritengono che lo stato di equilibrio sia una realtà calcolabile su cui il governo può intervenire attivamente, mentre invece gli austriaci (a partire dalla riflessione hayekiana) rifiutano la teoria dell’equilibrio e concepiscono la concorrenza come un processo di esplorazione dell’ignoto e di scoperta di dati che non sono presenti all’inizio del processo economico, e il mercato dunque come quella forma istituzionale che permette tale processo di scoperta e l’emersione delle conoscenze disperse nella società (da questa posizione deriva l’impossibilità di calcolare ex-ante l’equilibrio concorrenziale, così come l’impossibilità di pianificare o fare interventi politici correttivi dei risultati dei processi di mercato).

Tali differenze teoriche non si sono limitate al mondo accademico, ma hanno influito profondamente sulla struttura dei sistemi politici ed economici europeo-continentale e anglosassone-statunitense, al punto che Michel Albert ne ha potuto parlare come di due modelli di capitalismo differenti e in contrapposizione[5]: sebbene, come già sottolineato, nel corso del tempo le differenze tra i due orientamenti sia andati sfumando – al punto che nel mondo accademico si afferma una scuola “neo-ordoliberale” che ripensa l’impianto teorico ordoliberale alla luce delle acquisizioni teoriche della scuola austriaca – la struttura istituzionale dell’Unione Europea, a partire dal Trattato di Maastricht, è stata modellata sulla base della dottrina ordoliberale (Banca Centrale indipendente, organi di regolazione tecnocratici, costruzione giuridica e politica della concorrenza, modello dell’economia sociale di mercato a partire dal Trattato di Lisbona, et cetera[6]), al punto che si è trovata a subire critiche non soltanto di stampo socialdemocratico che ne mettono in luce il carattere liberista ed anti-keynesiano, ma anche di provenienza “neo-ordiliberale” che ne sottolineano l’aspetto di eccessiva regolamentazione centralizzata che non lascia sufficiente spazio alla concorrenza istituzionale e ai conseguenti processi di evoluzione spontanea degli ordinamenti giuridici ed economici[7].

Fatte queste necessarie premesse sulle differenze teoriche tra le due anime del neoliberalismo, è possibile comprendere meglio il fatto che si profilano, nel mondo politico-ideologico neoliberale, due possibili vie di soluzione al problema del feudalesimo 2.0: l’orientamento ordoliberale, maggiormente diffuso nell’Unione Europea, è favorevole a interventi pubblici e a politiche anti-trust che smantellino i grandi colossi della tecnologia e che portino ad una regolamentazione del loro operato – a riprova vi sono le dichiarazioni di Angela Merkel, oggi a capo dell’area politica più genuinamente ordoliberale del panorama europeo, che ha affermato che “è possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non da un management aziendale”; l’orientamento di ispirazione “austriaca”, invece, è ideologicamente ostile all’intervento pubblico (anche soltanto nella forma di una regolamentazione pubblica dell’operato dei privati) e sostiene che i monopoli e gli oligopoli nati spontaneamente come conseguenza del successo economico costituiscono una remunerazione del rischio imprenditoriale e una dimostrazione di successo nella soddisfazione delle esigenze dei consumatori al minor costo possibile, e che pertanto non devono essere toccati da politiche anti-trust: saranno eventualmente i meccanismi della concorrenza a smantellare “spontaneamente” i monopoli delle piattaforme social, con la nascita di nuove piattaforme capaci di fornire maggiore libertà di scelta per l’utente-consumatore che può quindi influire sulle scelte di policy dei proprietari (che sono, in questa impostazione, pienamente legittime e libere: “con la mia proprietà privata faccio ciò che voglio, se ciò che faccio non causa danni a terzi”) semplicemente cambiando piattaforma. Da una parte, dunque, politiche anti-trust e regolamentazione pubblica, dall’altra incentivo delle logiche della concorrenza per fornire al consumatore “sovrano” una maggiore libertà di scelta e quindi – per converso – un maggiore potere di incidere sulle scelte dei gestori delle piattaforme, necessitati a operare in un senso maggiormente sensibile ai desideri degli utenti di libertà di espressione.

Se l’impostazione ordoliberale è sensibile alla questione dell’intervento pubblico e della regolamentazione politica dell’attività privata (un intervento e una regolamentazione, comunque, da non confondere con le misure socialdemocratiche: di mira c’è la realizzazione della concorrenza, non la correzione degli esiti dei processi di mercato), e quindi ideologicamente ancora interna alla dimensione statuale della modernità politica, l’impostazione austriaca costituisce invece una linea di esplicita fuoriuscita dalla modernità politica, in funzione dell’approdo ad una realtà neofeudale in cui avviene lo svuotamento completo della dimensione democratica e si verifica una supremazia del privato sul pubblico e dell’economico sul politico.


[1] A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, DeriveApprodi srl, s.l., 2014

[2] Philip Mirowski, Dieter Plehwe (a cura di), The Road to Mont Pelerin. The Making of Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, London, 2009

[3] M. Foucault, Nascita della biopoliticaCorso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli Editore, Milano, 2005

[4] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi srl, s.l., 2013

[5] M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, Il Mulino, 1993

[6] A. Somma, Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur srl, s.l., 2017

[7] P.J. Cardwell, H. Snaith, ‘There’s a Brand New Talk, but it’s Not Very Clear’: Can the Contemporary EU Really BE Characterized as Ordoliberal, JCMS 2018, volume 56, n. 5

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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