Un nuovo capitolo
Si è tenuto ieri, in una surreale Washington, l’insediamento di Joe Biden come 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Surreale perché tra le ombre della pandemia – che ha colpito forte negli USA, con circa 400mila morti – e l’inquietudine suscitata dall’assalto al Campidoglio andato in scena il giorno dell’Epifania, nessuno dall’altra parte dell’Atlantico ha avuto molta voglia di festeggiare.
Il rito dell’insediamento del nuovo commander in chief, il comandante in capo degli States, ovvero il presidente, è tradizionalmente un momento di festa e unità nazionale. Si tratta di una facciata naturalmente, di un passaggio di testimone tra due persone che molto spesso si maltollerano, quando proprio non si odiano e tutto vorrebbero fare meno che fissare negli occhi l’altra sorridendo, in quel preciso momento; eppure lo fanno. Tradizionalmente, si è scritto.
Ebbene questa usanza non sarà rispettata quest’anno, perché il presidente uscente, Donald Trump, era a Mar-a-lago, durante l’insediamento di Biden. Nella ridente località della Florida, il POTUS uscente ha una magione e un campo da golf di proprietà. Ora saranno la sua nuova casa dal momento che, come stanno facendo tanti uomini d’affari di Manhattan, anche il tycoon ha preso residenza nel Sunshine State, ove c’è un regime fiscale ben più tollerante di quello in vigore tra i grattacieli della Grande Mela.
L’addio di Trump – il quale ha lasciato un messaggio video di commiato, così come ha fatto sua moglie Melania, first lady uscente, oltre al tradizionale biglietto sulla scrivania dello Studio Ovale ma non è mai stato cordiale con il suo successore – somiglia a una scomparsa, dopo gli ultimi giorni passati a Washington come un fantasma. La scelta di disertare l’inauguration day non è un buon segno per la democrazia statunitense. Storicamente tutti i predecessori di Trump sono sempre stati presenti all’insediamento dei propri successori – se facciamo eccezione per Andrew Johnson a quello di Ulysses Grant, nel lontano 1869, parliamo però di due che non si potevano vedere, per usare un eufemismo – ed è ormai una vera e propria tradizione; ogni cerimonia in fondo ha i suoi riti e questo è quello che caratterizza una giornata così fortemente simbolica, negli USA.
Si apre un nuovo capitolo per la nazione che si dice essere guida e faro dell’Occidente. Si dice, appunto. Joe Biden e la sua vice Kamala Harris sono presto diventati i favoriti della stampa internazionale e sono già noti per essere il governo delle prime volte, dati i numerosi tabù che il 46esimo presidente ha infranto nel formare la sua squadra di governo, così ricca di esponenti appartenenti a minoranze etniche. Fa specie pensare a un governo di prime volte guidato da uno che ha 78 anni e annovera nel suo curriculum più gaffe senili che vittorie politiche, eppure uscendo da 4 anni di Trump c’è comunque un vasto ottimismo nei confronti della sua presidenza. Vedremo presto se sarà ben riposto. Il momento di Joe Biden, il Joe-mento per tradurre in italiano un eufemismo abusato dalla stampa d’oltreoceano, è arrivato.
Tutte le sfide di Joe Biden
Il discorso di insediamento del nuovo presidente è stato diametralmente opposto a quello di Trump del 2017. Biden ha posto l’accento sulla necessità di unire l’America blu e quella rossa, ovvero quella dei democratici e dei repubblicani. A dirlo ci vuole poco ma farlo davvero, in un Paese così polarizzato, sembra davvero essere la principale sfida della presidenza entrante. Biden dovrà rimboccarsi le maniche fin da subito – come ha promesso farà – muovendosi nell’eco delle immortali parole di Martin Luther King: “indipendentemente dai vascelli con cui siamo arrivati qui, ora ci troviamo tutti a bordo della stessa barca“. Che questo inauguration day possa davvero essere il momento di una pacificazione politica che l’America – così come di riflesso tutto il mondo – necessita.
Di fronte ai 25mila membri della Guardia Nazionale presenti nella capitale per ragioni di sicurezza, i membri del partito democratico di Biden si scoprono più forti che mai a causa dell’indebolimento causato dal trumpismo all’interno del Grand Old Party repubblicano. Eppure le divisioni sono tangibili anche nelle stanze dem, soprattutto in quelle ove si riuniscono gli esponenti più progressisti, i quali vedono poche differenze tra Trump e Biden, considerato che il presidente da un giorno è molto più collocato al centro che a sinistra. Anche queste lacerazioni dovranno essere sanate dal POTUS o, com’è più probabile, dalla sua vice, la quale secondo molti – compreso chi scrive – è già sulla rampa di lancio per la candidatura presidenziale del 2024, quando Biden avrà 82 anni e probabilmente poca voglia di continuare a svolgere il mestiere che era noto per essere il più ambito al mondo, mentre ora rischia di essere soltanto uno tra i più difficili.
E non finisce certo qui. L’agenda di Biden è ambiziosissima, probabilmente persino troppo, tanto da apparire irrealizzabile in molti dei suoi punti. In 100 giorni Sleepy Joe, come lo ha ribattezzato Trump, ha promesso di vaccinare un terzo della popolazione; di rientrare nell’accordo di Parigi sul clima; di riformare il sistema di accoglienza dei migranti e le leggi che lo regolano; di prorogare – e non cancellare, badiamo bene – le scadenze per la restituzione dei prestiti concessi agli studenti del college (nel modello anglosassone, l’istruzione di livello è così cara che occorre accendere un mutuo, letteralmente, per potersela permettere, a meno che non si sia ricchissimi naturalmente) nonché di premiare ogni americano rientrante in certi requisiti con 1.400 dollari di sussidio, in Italia diremmo ristoro, sul proprio conto corrente.
L’iter di reingresso nei trattati di Parigi dura circa un anno ed è probabilmente la più semplice tra le misure che Biden vuole mettere in atto in poco più di tre mesi. Qualora queste parole si rivelassero aria frittaecco che le contraddizioni, le inimicizie e i sospetti endemici interni alla più grande tra le potenze capitaliste, infervorati dalla dialettica politica trumpiana, finirebbero inevitabilmente per riesplodere con violenza – come un ordigno inesploso. Tanti auguri, presidente.
Il Day 1 di Joe Biden
Il titolo della cerimonia di insediamento di Joe Biden è stato American United. Suona bene, certo, ma è un concetto ben lontano dalla concreta realtà dei fatti. Lo stesso inauguration day si è tenuto nel timore, nella paura, nell’angoscia, nell’incertezza e sotto la soffocante ombra di una violenza così tangibile che si può tagliare con un coltello nell’umida bruma di Washington D.C. Come riporta la testata Politico, lo staff di Biden ritiene che la situazione che si troveranno tra le mani possa essere ben più complicata di quanto si aspettano, forse addirittura troppo grave per essere raddrizzata in soli 4 anni. Il caos che Trump si lascia alle spalle potrebbe rivelarsi troppo profondo per essere messo in ordine mentre imperversa una pandemia e il Paese è a pezzi, economicamente e socialmente. Nelle parole di un veterano del team del presidente: “soltanto la punta dell’iceberg è già emersa.”
Chi conosce la storia e la cultura americane avrà forse ricollegato immediatamente l’atmosfera di questo giuramento a quella che caratterizzò un altro insediamento, svoltosi similmente in condizioni così asfissianti. Era il 4 marzo 1861. In quell’occasione il testimone passò da James Buchanan ad Abramo Lincoln. Tutti sappiamo come si chiuse la sua presidenza.