Chiara Bonaiuti

La regolamentazione delle esportazioni italiane di armi ha compiuto 30 anni, intersecandosi con la storia del movimento per la pace e l’economia. Oggi la percentuale di export bellico verso Paesi non liberi è tornata al 50%, un valore simile a prima della approvazione della legge n.185.

Introduzione

Sono passati 30 anni dall’approvazione della Legge n. 185/90 recante nuove regole sulle esportazioni, importazioni e transito di armamenti. Tale legislazione è stata considerata una delle più avanzate nel contesto europeo e internazionale e una delle più importanti conquiste della società civile, che è riuscita a porre limiti ad un commercio di armi a basso grado di responsabilità che aveva alimentato conflitti e dittatori.  Ma cosa è successo in questi trenta anni? 

Per comprenderlo, può essere utile articolare l’analisi in tre fasi principali che rispecchiano anche sistemi di valori differenti: la prima fase va dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, la seconda fase spazia dalla fine degli anni Ottanta a tutti gli anni Novanta e la terza fase copre gli anni Duemila (2019).

La prima fase. Armi come merci: l’export spregiudicato della fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso, il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e si respirava ancora il clima da guerra fredda basato sulla deterrenza nucleare. Anche il mercato degli armamenti era organizzato per blocchi con alcune eccezioni. In Italia l’esportazione di armamenti era regolata dalle disposizioni che concernevano in genere il commercio con l’estero. Le armi venivano da una parte considerate come ogni altra merce e non erano perciò sottoposte a vincoli né a controlli. D’altro canto, l’intera materia dell’acquisto e della vendita di armamenti era coperta dal segreto militare e non accessibile ai parlamentari. Non esisteva ancora una legge specifica, le regole erano frammentarie, mancava un quadro normativo di riferimento. Come conseguenza l’Italia aveva una politica esportativa spregiudicata: le armi italiane erano dirette prevalentemente a Paesi in conflitto, o Paesi i cui governi si caratterizzavano per gravi violazioni dei diritti umani.  

Dal 1980 al 1985, tra i clienti più abituali dell’Italia c’era la Libia (850 milioni di dollari), Iraq (490 milioni di dollari) e Iran (410 milioni di dollari), nonché Somalia, Sud Africa e Arabia Saudita. Nello stesso periodo, secondo gli indicatori sviluppati dalla Osservatorio italiano sul commercio delle armi, l’Italia aveva esportato il 49,8% dell’intero export ai Paesi caratterizzati da repressione sistematica dei diritti umani (Bonaiuti e Terreri 2004). Infine, i destinatari delle gli armamenti erano quasi tutti i Paesi del Sud del mondo, impegnati in processi difficili di ricostruzione, autodeterminazione e sviluppo (96,2% dal 1978-82, e 94,5% dal 1983-87). 

Nonostante l’intero settore fosse ancora avvolto dal segreto militare, a partire dalla metà Ottanta del secolo scorso cominciarono a emergere le prime informazioni, grazie al ruolo attivo e responsabile dei lavoratori dell’industria della difesa e di indagini finanziarie che permisero di fare luce sulla spregiudicatezza dell’export di armi italiane, sui meccanismi illegali che li sottendevano compresi casi di corruzione e collusione. Uno dei primi casi fu segnalato da un lavoratore di un’azienda della difesa, Elio Pagani, dipendente della società aeronautica italiana Aermacchi, che rese noto, documentandolo, che la sua azienda aveva fornito 70 aerei HB-326K all’Aeronautica militare sudafricana nel gennaio 1980, violando l’embargo ONU firmato dall’Italia nel 1977.

Ne seguì nel 1986 un famoso articolo scritto sulla rivista “Missione Oggi”, che denunciava le esportazioni di armi italiane verso il Sudafrica dell’apartheid, sulla base di quanto rivelato da Elio Pagani e dai lavoratori dell’azienda bellica Aermacchi. Dall’unione di quattro organizzazioni (ACLI, Missione Oggi, Mani tese, MLAL), nacque così la prima rete di ONG e associazioni che si occupava specificamente dell’esportazione responsabile di armi, che era stata denominata “Comitato contro i mercanti di morte” (Cipriani 2013). Il Comitato si allargò anche ad altre associazioni e poté contare su un terreno fertile caratterizzato da una tradizione di partecipazione della società civile e di movimenti per la pace, nonché sul coinvolgimento attivo di parlamentari di sinistra e cattolici.

Nel frattempo un secondo grosso scandalo esplose nel 1987, evidenziando il coinvolgimento di una banca italiana, la Banca Nazionale del Lavoro (BNL) nelle esportazioni di armi italiane verso l’Iraq di Saddam Hussein. L’FBI, che indagava sulla filiale americana della BNL scopri una serie di frodi finanziarie che coinvolgevano export di armi e di know how verso il regime repressivo del dittatore iracheno (Palazzolo 2004; Mennella e Riva 1993). Da qui emersero informazioni circa clientelismo, casi di tangenti e corruzioni che alimentarono un dibattito molto acceso in Italia e portarono alla Costituzione di due commissioni parlamentari di inchiesta. 

La seconda fase. La primazia della politica e della Costituzione: l’approvazione della legge n. 185/90 e i primi anni di applicazione dalla metà degli anni Ottanta agli anni Novanta

A partire dalla metà degli anni Ottanta si avviò a livello internazionale un periodo di distensione. Furono firmati importanti accordi sul disarmo, come il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato dagli allora presidenti di Stati Uniti e Unione Sovietica l’8 dicembre 1987. La firma del trattato fu percepita come la fine di quaranta anni di contrapposizione tra i due blocchi e come l’inizio di una nuova era di convivenza pacifica. Crebbe pertanto in questo periodo la fiducia negli strumenti non bellici come la diplomazia e i trattati sul controllo degli armamenti per risolvere le tensioni internazionali e prevenire i conflitti e le guerre. Le spese militari diminuirono e si schiuse la speranza di poter utilizzare queste risorse come nuovo dividendo di pace. 

In questo contesto, la forte pressione esercitata dal  “Comitato contro i mercanti di morte” e da vasti settori della società civile che denunciavano le vendite di armi italiane a paesi belligeranti, quali l’Iran e l’Iraq, o comunque soggetti ad embargo internazionale, come il Sud Africa, indusse il governo ad adottare nel 1986 nuove misure per il controllo delle esportazioni e, dopo, oltre cinque anni di dibattito parlamentare venne infine promulgata, il 7 luglio 1990, la Legge n. 185 recante “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”.

Tre aspetti fondamentali caratterizzano lo spirito della Legge n. 185/90, ancor oggi in vigore. Il primo consiste nella primazia della politica sulle ragioni economiche. Le armi non sono merci come le altre e il loro commercio deve essere subordinato alla politica estera e di sicurezza dell’Italia, orientata alla pace, come sancito dall’articolo 11 della Costituzione. Il secondo è il ruolo centrale del Parlamento: con la Legge n. 185/90 il legislatore, assumendo il controllo e la direzione di una materia così delicata come il commercio di armi, detta i principi che devono essere seguiti dagli organi competenti nel processo decisionale sulle licenze, i loro successivi controlli e il livello di trasparenza, ponendo precisi limiti alla discrezionalità del potere esecutivo. Il terzo principio è quello della responsabilità; nell’export di armi vi è una catena di responsabilità che coinvolge tutti gli attori che vi concorrono: l’azienda e i suoi lavoratori, che partecipano alla mission dell’impresa, il governo che rilascia le autorizzazioni alle esportazioni, il Parlamento che controlla e indirizza il governo, le banche che finanziano le aziende fino ai singoli cittadini.  

Il testo della legge la legge si articola su tre pilastri fondamentali: i divieti, i controlli e la trasparenza.

Innanzitutto la legge fissa i principi generali entro i quali il commercio degli armamenti deve svolgersi. Il primo comma dell’art.1 afferma che il commercio degli armamenti deve essere conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia richiamando in particolare l’articolo 11 della Costituzione, secondo cui “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente in condizioni di parità con gli altri stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Ciò significa che, dovendo lo stato italiano condurre una politica estera tesa a portare la pace nell’ambito del contesto internazionale, anche il commercio di materiale bellico non potrà che essere in linea con tale indirizzo.

Il comma 6 dell’art. 1 introduce importanti divieti alle esportazioni di armi italiane, fra cui:

  • divieto di esportazione verso i paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’art.51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del consiglio dei ministri, da adottare previo parere (vincolante) favorevole delle Camere.
  • divieto di esportazione verso Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo;
  • divieto di esportazione verso Paesi che, ricevendo dall’Italia aiuti allo sviluppo destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del Paese.

I divieti sono stabiliti per legge primaria e non possono essere cambiati dal governo di turno. Al contrario, operano come guida e limite all’esecutivo. Sono assoluti nel senso che non si applicano solo ad alcuni tipi arma, o solo a certe funzioni delle stesse, ma riguardano le esportazioni dall’Italia di tutte le armi convenzionali contemplate dalla Legge 185/90 (cfr. Art. 2 e Art. 1.10 della legge).

Secondariamente la Legge n. 185/90 introduce un sistema di controllo prevedendo procedure di rilascio di autorizzazioni e di controlli, segnando così la fine della segretezza in materia di armamenti e tracciando una chiara distinzione tra mercato lecito e illecito. Esisteva, fino al 2003, un unico tipo di licenza per l’esportazione e un articolato sistema di controlli. La partecipazione di più soggetti ministeriali cui si chiedeva un elevato livello di collaborazione, limitava i pericoli di collusione e garantiva l’efficacia dei controlli previsti tramite un incrocio dei dati finanziari, fiscali, doganali ed economici.

Infine, la legge prevede un importante strumento di trasparenza: la relazione annuale che governo deve presentare al Parlamento entro il 31 marzo di ogni anno sulle esportazioni autorizzate e svolte l’anno precedente (art.5), nella quale devono essere riportati i dati per tipi, quantità, valori monetari, Paesi destinatari sulle esportazioni svolte l’anno precedente. La legge specifica la quantità e qualità dei dati che devono essere presentati e non fa un generico riferimento ad una rapporto annuale, nel quale il governo possa scegliere quali informazioni inserire. Tutti i ministeri che partecipano alla fase autorizzatoria e di controllo devono dare informazioni per quanto di loro competenza. La relazione è uno degli strumenti che consente al Parlamento di valutare l’azione governativa di politica estera e quindi di indirizzarla. Complessivamente nei primi dieci anni di applicazione della Legge, la percentuale di esportazioni italiane di armi a paesi non liberi è andata decrescendo per assestarsi attorno a valori inferiori al 10% (vedi graf. 1). 

In questi primi anni la legge non fu esente da critiche, mosse soprattutto dalle aziende che vedevano la loro competitività penalizzata dal rigore dei divieti e dall’eccessiva trasparenza. Tali critiche furono recepite in due disegni di legge redatti a metà degli anni Novanta, che non passarono per la forte opposizione di quelle associazioni e che avevano promosso l’approvazione della legge e dei parlamentari che l’avevano sostenuta. Tuttavia, il processo di globalizzazione e di europeizzazione, l’affermarsi della narrativa neoliberista, avrebbero cambiato i rapporti di forza e aperto la strada a modifiche della Legge n. 185/90.

La terza fase. La centralità del mercato: l’era delle modifiche alla Legge n.185/90 dai primi anni Duemila ai giorni nostri

La terza fase è quella in cui le dinamiche di globalizzazione e neoliberiste si affermano a livello europeo e internazionale e investono, anche se con declinazioni particolari, anche il campo degli armamenti. La retorica della mano libera del mercato, che aggiusta tutto se lasciato a sé stesso e porta crescita e ricchezza per tutti, della necessità di togliere lacci e laccioli, nasce in Gran Bretagna e progressivamente pervade tutta Europa, supportando quegli attori che sostenevano una nuova primazia dei valori del mercato e un ammorbidimento dei vincoli che ne impedivano il libero funzionamento. Il neoliberismo e il fondamentalismo del mercato lambiscono anche il mercato degli armamenti non tanto nella sostanza, ma soprattutto nella retorica che viene utilizzata, per provare ad ammorbidire i vincoli alle esportazioni e per allargare i mercati, bilanciando il calo delle spese militari europee.

Di fronte alla diminuzione della domanda di armamenti seguita al crollo del bipolarismo le imprese, prima americane e poi europee, si organizzarono seguendo tre imperativi: privatizzazione con l’entrata del capitale privato nelle aziende, concentrazione in poli nazionali e sviluppo delle coproduzioni anche transnazionali, joint ventures, vere e proprie fusioni a livello transnazionale. Nacquero così tre grandi poli attorno ai quali si organizzò l’industria europea della difesa, in particolare dell’aerospazio, costituiti dalla BAE System, dalla Thales, e EADS, cui si aggiungeva l’italiana Finmeccanica che aveva aggregato a sé circa il 70% della produzione militare italiana e sviluppato rapporti di collaborazione a livello europeo e con gli Usa. 

Le aziende cominciarono a chiedere di alleggerire i vincoli nazionali alle esportazioni tra Paesi partner, per favorire il processo di ristrutturazione ed allargare i mercati, delegando ai Paesi partner la scelta di legittimità della destinazione finale del materiale coprodotto (applicando il principio del riconoscimento reciproco). Secondo l’EDIG (l’associazione delle industrie europee della difesa): “Il libero scambio di parti e componenti nel quadro di programmi di collaborazione è ostacolato dall’esistenza di diverse legislazioni nazionali con complessi sistemi di autorizzazione e di controllo. Ciò ha l’effetto di rallentare il processo produttivo e ha un effetto negativo sulla competitività delle industrie europee” (EDIG 1995:2). 

Risposero alle sollecitazioni delle imprese dapprima alcuni governi, arrivando nel 2000 alla firma del cosiddetto Accordo quadro per la ristrutturazione dell’industria europea degli armamenti tra i sei principali esportatori di armi europee (Italia, Francia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Germania, che da soli coprono il 90% dell’export europeo). Successivamente, nel contesto dell’Unione europea, fu soprattutto la Commissione che, muovendosi lungo tre linee direttrici fondamentali (il finanziamento alla ricerca sulla difesa, l’approvvigionamento e appunto la liberalizzazione degli scambi per la difesa), coinvolse i big four industriali in vari gruppi di esperti, che lavorarono alla predisposizione nel 2007 ad un “pacchetto difesa” che avrebbe portato all’approvazione della Direttiva 2009/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che semplifica le modalità e le condizioni dei trasferimenti all’interno delle Comunità di prodotti per la difesa.

L’Accordo quadro e la Direttiva erano atti simili nello spirito e negli obiettivi. Entrambi miravano a rafforzare la competitività del mercato della difesa europeo. Entrambi gli strumenti contemplavano procedure semplificate per l’esportazione di materiale di armamento. L’accordo introduceva le Licenze globali di progetto (LPG) per le esportazioni e gli scambi di materiali attinenti ad uno specifico programma di produzione comune, eliminando le singole autorizzazioni e definiva un meccanismo decisionale (consensus) per esportare materiali prodotti in comune, sulla base di una Lista bianca di Paesi destinatariLa Direttiva 2009/43 prevedeva due nuovi tipi di licenze attivabili per le coproduzioni in ambito comunitario: la licenza generale e la licenza globaleun sistema di certificazione delle imprese e una parziale sostituzione del sistema dei controlli da ex ante a controlli ex post, con una maggiore responsabilizzazione delle imprese. In entrambi i casi la loro ratifica/trasposizione a livello nazionale implicò inevitabili modifiche alla legge n. 185/90, aprendo quindi necessariamente un processo di revisione. In entrambi i casi le leggi di ratifica/trasposizione vennero usate come opportunità, “cavallo di Troia” per introdurre modifiche che erano state avanzate senza successo negli anni precedenti: Infatti, con le modifiche la ratifica dell’accordo quadro fu ridotto il campo di applicazione del divieto relativo al rispetto dei diritti umani nel paese importatore, con l’aggiunta dell’aggettivo “gravi” in riferimento alle “violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani” (Legge n. 148 del 17 giugno 2003). Con la trasposizione della Direttiva, invece, passò anche la modifica accentrava molti poteri per il rilascio dell’autorizzazione e l’effettuazione dei controlli, la raccolta della documentazione dei registri, in un’unica agenzia, che dipendeva dal ministero degli Esteri, l’Unità per le Autorizzazioni del Materiali di Armamento (Decreto legislativo, n. 105 del  22 giugno 2012).

Conclusioni

Al termine di questa ultima terza fase di riforme, anche se le modifiche formali furono limitate e intaccarono solo parzialmente i tre pilastri della legge, si affermarono comunque dei cambiamenti meno evidenti ma più profondi, quali ad esempio: (a) lo slittamento dell’equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo a favore di quest’ultimo, che ha riacquistato il potere (anche grazie alla delega con cui ha trasposto la direttiva), rispetto al Parlamento nella definizione di alcuni aspetti fondamentali della legge; (b) l’area regolata dalla legislazione primaria è diminuita a favore del diritto secondario o della discrezionalità dell’autorità esecutiva e amministrativa, in particolare per quanto riguarda le licenze generali e globali; (c) la responsabilità nazionale sulla destinazione finale dei beni coprodotti è stata attenuata a favore del principio della delega; (d) la collegialità nel processo decisionale è stata ridotta a favore di una nuova centralizzazione; (f) il potere dello Stato è diminuito a favore del potere delle imprese e della loro capacità di autoregolamentazione. (g) Infine, anche se formalmente la trasparenza e l’articolo 5 sono stati estesi anche ai nuovi tipi di licenze, di fatto, con i nuovi tipi di licenze, è stato più difficile capire la destinazione finale.  Le armi sono tornate ad essere considerate merci come le altre anche se da trattare con le dovute eccezioni.

Al termine di questa fase, si ravvisa un cambiamento culturale sulla funzione della legge, rispetto al mercato degli armamenti.

Emerge chiaramente come l’approccio e lo spirito dell’Accordo quadro e della Direttiva sia profondamente differente dallo spirito della 185/90. Mentre la legge italiana parte dalla Costituzione e dalle politica estera, la Direttiva muove dal mercato interno, dalle quattro libertà e dalla competitività. Nel primo caso il commercio di armi si può svolgere solo all’interno del quadro definito dalla Costituzione, dalla legge e dei divieti stabiliti dalla legge, nel secondo caso il principio è la libertà di mercato, mentre la sicurezza nazionale e i criteri come la tutela dei diritti umani diventano un’eccezione a tale principio. Cambia quindi, in questo periodo, anche il rapporto tra variabili economiche e politiche e la funzione stessa del diritto. Mentre secondo la Costituzione italiana la legge è un modo per intervenire e correggere le conseguenze disuguali e ingiuste di un mercato e di un sistema lasciato a se stesso, tutelando i più deboli, la Direttiva interviene per rimuovere le barriere legali interne e gli ostacoli alla libera circolazione delle merci per consentire alla “mano invisibile” di operare liberamente, ovviamente con le eccezioni dovute al tipo di merce.

Questo processo di “marketizzazione” o di convergenza verso un modello orientato all’export è stato identificato anche in altri Paesi europei, come la Svezia, la Francia, la Germania, la Spagna da vari studiosi dell’integrazione Europea (Britz 2010; Hoeffler 2012;Béraud-Sudreau 2014). Le legislazioni degli stati membri dell’UE sono cambiate seguendo tutte una traiettoria pro-market, ma sono rimaste allomorfiche. (Baccaro & Howell 2017). Si è quindi assistito ad un processo di liberalizzazione senza armonizzazione. Il modello di riferimento che ha esercitato una sorta di potere di attrazione nei confronti di quelli di molti paesi europei è quello britannico, caratterizzato da flessibilità, ampia discrezionalità dell’esecutivo, uso molto esteso di licenze aperte, che aveva ispirato il testo della direttiva in alcune sue parti fondamentali.

Il processo di “marketizzazione” si riflette anche sulla qualità delle esportazioni italiane e sul profilo degli importatori di armi italiane. Incrociando i dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) sulle esportazioni italiane i con i dati di Freedom House relativi alle violazioni dei diritti civili e politici nel mondo, il trend che ne emerge è chiaro: la percentuale di esportazioni italiane di armi a Paesi classificati come “non liberi” a causa delle violazioni dei diritti civili e delle libertà politiche, ha raggiunto percentuali superiori al 50% nel periodo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta (quando in Italia non c’era ancora la legge n. 185/90), ha poi cominciato a scendere per mantenersi sotto il 10% durante gli anni Novanta (con l’approvazione della Legge). Negli anni Duemila, la percentuale di esportazioni italiane di armi a Paesi non liberi ha cominciato a ricrescere fino a raggiungere, nel 2019, il 50%, ovvero un valore percentuale simile a quelli che caratterizzavano l’Italia prima della approvazione della legge n. 185/90, quando non c’era alcuna regolamentazione del commercio di armi (vedi Graf. 1). La legge c’è ma è come se non ci fosse.

Graf.1 Esportazioni italiane di armi e rispetto dei diritti umani: % dell’export italiano di armi a paesi “non liberi”

Fonte: SIPRI arms transfers database; Freedom House database.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: