Mentre la crisi di governo sembra si stia risolvendo con la via d’uscita “tecnico-politica” rappresentata da Draghi, i numeri che descrivono la realtà occupazionale del Paese, pur nella loro incompletezza, continuano a essere drammatici
Quando si commentano dei dati questi vanno anzitutto contestualizzati. In particolar modo se, come in questo caso, ci si riferisce a dati su base mensile diffusi ad appena trenta giorni di distanza, quindi inevitabilmente di carattere provvisorio. Ancora di più il discorso è valido se il dato provvisorio mostra una controtendenza rispetto al periodo precedente. Non farlo, come spesso si legge in articoli che offrono spiegazioni senza alcuna specifica di metodo a favore di un titolo sensazionalistico, rischia di produrre confusione davanti ad apparenti incoerenze tra quello che i dati ci dicono a distanza di pochi mesi e quindi di minare la credibilità della comunicazione statistica e dei dati tout court.
Il comunicato dell’Istat su occupati e disoccupati rilasciato il primo febbraio va quindi recepito tenendo conto che il campione riportato è parziale, ha un margine di errore – o più precisamente un intervallo di confidenza – ancora rilevante e che quindi indica una traccia più che una realtà consolidata.
Questo non significa che sia un dato inutile. Purtroppo tempestività e accuratezza sono caratteri antagonisti, quindi laddove si osserva l’una si finisce per non soddisfare l’altra.
Proprio per questo le indagini statistiche si basano su dati differenti che riescano a rispondere ad ambedue i criteri, nel caso specifico mensili, trimestrali e annuali: il dato tempestivo indica la traccia, che poi viene revisionata attraverso i dati più accurati.
A partire da queste considerazioni nel parlare, a esempio, di aumento della disoccupazione (+0,2%) andrebbe considerato che l’intervallo di confidenza si attesta sul ± 0,42 quindi ad un valore che è tra l’8,66% e il 9,5%. Un margine troppo ampio per poterne trarre delle conclusioni definitive e su cui occorrerà attendere quantomeno i dati trimestrali in uscita a fine mese. Un discorso simile, seppur con un margine di incertezza inferiore, si potrebbe fare rispetto al dato sugli occupati (-101mila).
Tuttavia ci sono due dati che spiccano tra gli altri in modo inequivocabile e che, al netto di successivi aggiustamenti, difficilmente potranno cambiare di segno.
Il primo è il netto squilibrio di genere sul calo dell’occupazione. Ben 99mila persone sulle 101mila che avrebbero perso il lavoro sono donne, la quasi totalità. Il secondo è la netta prevalenza del lavoro autonomo (79mila) rispetto a quello dipendente (23mila, di cui 7 mila a termine). Dato che risulta ancor più evidente se si prendono in considerazione le variazioni rispetto a dicembre 2019, che registrano in realtà un aumento tra i contratti a tempo indeterminato (+158mila) e una drastica diminuzione sia tra quelli a termine (393mila) sia tra gli autonomi (209mila).
Appare confermato quanto dicevamo a settembre: la crisi non ricade su tutti allo stesso modo e a pagare in modo particolare sono le donne, giovani, precarie, spesso inquadrate in forma autonoma unicamente su un piano formale, su cui viene scaricata per intero l’incertezza del ciclo economico presente: assunte come collaboratrici al momento del bisogno, scaricate non appena necessario. Non a caso è proprio in questo segmento che a livello di dati congiunturali cresce il tasso di inattività (ossia la rinuncia a cercare lavoro) mentre cala tra gli uomini.
Mentre Bonomi scalpita perché il Recovery Plan sia indirizzato a ridare impulso alla redditività d’impresa non c’è forza politica che ponga il problema dell’inadeguatezza dei “ristori” attuali di fronte ad un fenomeno di simile portata.
Sarà interessante approfondire il discorso il mese prossimo con l’uscita delle stime trimestrali che permetteranno, oltre ad una prima revisione dei dati appena usciti, anche una lettura su base geografica e la possibilità di distinguere tra i vari settori economici. Con la consapevolezza che la traccia emersa in questo inizio di febbraio segnala un acuirsi delle diseguaglianze e di un segmento sempre più ampio lasciato in balia della crisi senza alcun supporto adeguato.