Le disgrazie non vengono mai da sole. Del resto era prevedibile, ma non era affatto scontato che si formasse una santa alleanza nazionale per la spartizione dei meriti politici nella divisione delle quote del Recorey Fund da destinare a questo o a quel comparto privato che, a sua volta, è fonte di voti, di elettorato indotto. Sia quel che sia: gli eventi corrono, l’agenda di Draghi con loro.
I disturbi gastrointestinali di una parte delle segreterie di partito si possono curare, mentre il Paese aspetta che l’esercito della salvezza si metta in cammino e garantisca il tranquillo passaggio dei fondi europei per la pianificazione del recupero economico, sociale e la rimodulazione di una pace sociale che sia anche ristabilimento di una armonia con le istituzioni rappresentative.
L’operazione sta riuscendo meglio di quanto ci si potesse aspettare. E’ stato sufficiente nominare Draghi, fare il suo nome e affidargli l’incarico della formazione del nuovo governo, per eliminare le contrarietà, i veti e le pregiudiziali ideologiche che avrebbero fatto scommettere – almeno fino a settantadue ore fa – che Liberi e Uguali nemmeno avrebbe preso in considerazione un dialogo per far parte di un governo con a capo il banchiere dell’austerità e delle privatizzazioni (delle banche statali stesse…) insieme a Forza Italia. Invece il confine si è spostato: il partito del cavaliere di Arcore è accettabile. Sarebbe solo la Lega l’ostacolo. Tutto il resto forse è noia, forse invece coincide con i desiderata di chi vuole costruire una sinistra moderna, riformista e riformatrice.
Tra gli altri componenti della formazione inaugurata da Grasso, Fassina ragiona sull’estensione della maggioranza: senza confini è meglio dell’ipotesi “Ursula“. E’ la teoria di una indistinguibilità dei cromatismi politici, della somma, l’insieme che annulla le singolarità: tutto, si intende, per il bene del Paese.
Il primo giro di consultazioni era finalizzato alla ricezione delle intenzioni delle forze politiche e all’apprendimento degli umori delle parti sociali del lavoro e di quelle profittuali del padronato. Invece, davanti alla statura liberista di Draghi, alla impossibilità di immaginare qualcosa di più grande e performante per la salvezza d’Italia in tempo pandemico e di crisi economico-sociale, le intenzioni hanno lasciato il posto alle dichiarazioni di voto, prima ancora di trovarsi nelle due Camere ad esprimere la fiducia per l’esecutivo onnipotente plaudito oggi da Trichet in prima persona.
La Lega di Salvini fa una capriola, una giravolta e diventa europeista in meno di quarantotto ore. Almeno hanno il pregio di un lampo di sincerità nel buio del sovranismo neonazionalista: dal prato di Pontida, dalla secessione del Nord all’esaltazione dei sacri confini d’Italia ci sono voluti un po’ di anni. L’evoluzione è straordinaria, da studio scientifico, quasi antropologico. Non serve una analisi da laboratorio medico per capire quale trasformazione cellulare del corpo disumano degli ex padani si sia innescata per arrivare al plauso della figura di Mario Draghi, del ruolo dell’Europa monetaria. Bastano due parole già dette al principio: Recovery Fund. E’ sincero il capitano quando lo dichiara. Un partito come la Lega, con la sua storia, volete che resti fuori dall’influenzare le scelte politiche su miliardi e miliardi di euro?
Gli interessi economici sono soprattutto al Nord: i presidenti di Regione dell’ex Carroccio scalpitano. Draghi è garanzia per i mercati e i leghisti vogliono essere i numi tutelari di quella gestione dei fondi che saranno distribuiti secondo il Recovery Plan. Quel piano che, abbozzato dal Conte bis, non piaceva a Bruxelles, era esecrato da Confindustria e scontentava i mercati in generale. Ci ha pensato Renzi a mandare tutto a carte e quarantotto. Ora la palla è di nuovo al centro del campo.
La posizione più imbarazzante, comunque, rimane però quella di Italia Viva: nemmeno a discuterne. Nel senso che non c’è niente da dire: Draghi va bene a prescindere. Un ante litteram su tutta la linea; che non c’è, che non si conosce, perché è la linea di un governo ancora non formato, di un programma ancora non scritto. Italia Viva sembra un’eco amplificatrice della voce del Presidente del Consiglio incaricato: quel che dice lui, va bene. Persino una fotocopia ha più differenze con l’originale di quante Italia Viva non ne voglia avere con Draghi stesso.
Il fronte dei No-Euro si è schiantato davanti alla magnificenza bancaria, alla declinazione fintamente sociale e benecomunista del “pecunia non olet” di tante romane generazioni, ma del passato. Cosa resta della grande rivoluzione grillina, della rivolta anti-casta, dei partiti che sono tutti uguali tranne il Movimento? Che rimane del far urlare alle piazze l’ancestrale rabbia verso la politica di palazzo, verso il palazzo stesso, da aprire come una scatoletta di tonno, evocando persino processi popolari e sommari per chi aveva governato fino a poco tempo fa e che non è dissimile, per forma e sostanza, per nome e cognome, da chi andrà a fare il governo anche e soprattutto con i Cinquestelle?
Rimane Di Battista a fare la parte del cangaceiro, del ribelle a tutti i costi, magari insieme a Giorgia Meloni che, dalla genuflessione leghista alla generale volontà di salvezza della nazione, ha tutto da guadagnare in punti di sondaggio e in future prove elettorali. Se si andrà a votare alle amministrative della prossima primavere, lì si testerà un primo banco di prova tanto della santa alleanza draghiana quanto della tenuta dei partiti che intendono restarne fuori.
Il breve viaggio nella politica italiana di queste trepidanti giornate di composizioni e scomposizioni incredibili, è un Paese delle “immeraviglie“. C’è poco da stupirsi, in effetti, se ci si ferma un attimo a riflettere sedendosi sul primo sasso che si trova in riva al fiume. Passati i cadaveri delle ideologie e delle grandi visioni politiche e sociali, decomposti tanto dal berlusconismo prima quanto dai diversi “ismi” che si sono succeduti (tecnicismo, grillismo, renzismo, sovranismo…), che cosa rimane di una cultura sociale del e per il Paese? Poco e niente.
Il vero politico, in tutto questo caos organizzato, è proprio un banchiere dalla grande fama internazionale, la “riserva della Repubblica” lo hanno definito, l’ultima spes… Ciò che gli si presenta davanti è un panorama veramente desolante; un decadente e scomposto teatrino dei finti equivoci, con tante cene delle beffe, patti e contratti, soluzioni di continuità che lasciano l’amaro in bocca e non fanno presagire nulla di buono.
Una perifrastrica governativa attorno a cui gravitano parole vuote di significato, semplici ancelle di un discorso scritto dalla cruda realtà dei fatti: Draghi è funzionale alla fase di ristrutturazione dei rapporti economici tra Italia e resto d’Europa (e del mondo). Può pure concedere che si rifinanzi il reddito di cittadinanza o che si mettano più miliardi alla sanità: ciò che importerà sarà gestire il tutto esclusivamente dal punto di vista del capitale, della logica liberista che impone il privilegio e la tutela dei profitti a scapito dei salari, delle pensioni e della grande massa di persone che vive nell’indigenza.
Nelle piazze restano a protestare Rifondazione Comunista e Potere al Popolo. Qualcuno dirà che è ben poca cosa: indubbiamente lo è per numeri e per tentativo di convincere la gente a vedere oltre le cifre, a guardare nel doppiofondo dei giochi di mercato dentro le istituzioni, usate come protesi per la gestione politica della crisi economica nella drammatica evoluzione della pandemia. Per giustificare qualunque intervento antisociale con la geremiade della esclusiva tutela del benessere collettivo. E’ l’inizio di una nuova stagione di compromissioni tra struttura e sovrastruttura, marxianamente parlando: dettate rigorosamente dalla prima nei confronti della seconda. Mercato e Stato, e non viceversa.
Ma qualcuno che tenga aperta anche solo una ipotesi di costruzione di una opposizione sociale e politica a Draghi ed alla sua pressoché unanime corte politica, deve esserci e deve perseverare senza rassegnarsi alla “potenza” dei numeri, alla forza evocatrice dei nomi che dalle grandi sale della BCE arrivano fino a Roma.
Il trionfo della virtualità della verità è al suo apogeo. Le essenze lasciano il posto alle sembianze: ciò che vedremo, purtroppo, sarà più importante di ciò che saremo.
MARCO SFERINI
https://www.lasinistraquotidiana.it/una-quasi-unanime-riverenza-politica-alla-corte-di-draghi/