L’ex leader del Labour ha lanciato il 17 gennaio un nuovo progetto, il “Peace and Justice Project”. In questa intervista Corbyn ci parla di quali sfide attendono il nostro mondo in crisi, di cosa farà il suo progetto, ma anche della sua leadership nel partito inglese dal 2015 al 2019. Lotta al cambiamento climatico, pacifismo, riforma dei media, sicurezza economica, giustizia globale sono i temi al centro del progetto corbynista. For the many not the few.
Negli ultimi anni movimenti e organizzazioni, come i movimenti femministi, Black Lives Matter, il movimento contro il cambiamento climatico hanno portato a importanti trasformazioni a livello globale. Come pensate di interagire con questi e altri movimenti?
Offriamo il nostro sostegno totale e vogliamo lavorare con questi movimenti, perché sono i movimenti a cambiare il mondo. Occorre tenere insieme movimenti e rivendicazioni perché sono intimamente connessi. Il cambiamento climatico è una questione di giustizia razziale, la giustizia razziale è una questione di classe, la classe è una questione femminista, e via dicendo. Dobbiamo quindi costruire un mondo per molti e non per pochi mettendo insieme persone che hanno diverse provenienze, battaglie da portare avanti e nazionalità perché sono le stesse cause di ingiustizia a presentarsi in diversi modi.
Quindi il “Peace and Justice Project” lavorerà con militanti, attivisti, pensatori e leader per condividere esperienze e generare idee su come risolvere i nostri problemi comuni, che siano i lavoratori della Rolls-Royce che difendono i posti di lavoro a Barnoldswick, o che si tratti delle grandi proteste di contadini in India dove un trentesimo della popolazione della Terra ha scioperato, bambini malnutriti qui in uno dei paesi più ricchi del mondo o i rifugiati in cerca di un posto sicuro.
(da commons.wikimedia.org)
La prima persona a prendere parola durante la presentazione del vostro progetto è stata Scarlett Westbrook, una studentessa che ha esplicitamente legato la crisi climatica «all’imprinting storico del colonialismo» e ha detto che per questo motivo la risposta alla crisi climatica deve essere internazionalista. La crisi climatica ha a che fare con i diritti umani, la disuguaglianza, il potere delle multinazionali, l’autodeterminazione e la democrazia. Puoi spiegarci meglio come questi temi siano al centro del vostro progetto?
La crisi climatica è al cuore di tutto. Le conseguenze le vediamo ovunque: persone sfollate a causa di alluvioni, siccità, conflitti generati dalla scarsità di risorse, comunità distrutte dall’inquinamento e dall’estrazione di carburanti fossili, bambini costretti a respirare aria tossica nelle nostre grandi città. Queste conseguenze sono determinate da come abbiamo agito in passato: le relazioni di potere e oppressione continuano a stabilire le modalità con cui chi ci guadagna dal cambiamento climatico lo fa a partire dallo sfruttamento del resto della popolazione. Il cambiamento climatico è una questione di classe, una questione di giustizia globale, e ha a che fare con i diritti umani.
Per questo la giustizia climatica è al cuore di tutto per noi. Alla COP 26, la conferenza delle Nazioni Unite che si terrà quest’anno a Glasgow, dobbiamo mettere sul tavolo le nostre richieste – dai popoli indigeni del bacino amazzonico fino ai movimenti anti-fracking inglesi. Dobbiamo lavorare con quanti stanno lottando per posti di lavoro decenti, verdi e sindacalizzati, per una transizione giusta per i lavoratori, per mettere fine all’estrazione di combustibili fossili, allo sfruttamento dei popoli e del mondo naturale, per un futuro sostenibile basato su un nuovo equilibrio tra ricchezza e potere.
Il movimento contro le guerre (in Afghanistan, in Iraq) di cui sei stato un importante esponente si è sviluppato su una dimensione a tutti gli effetti globale. La lotta contro i conflitti armati non sembra essere più la priorità nell’agenda dei movimenti, che in questa fase appaiono più concentrati su questioni interne. Perché il pacifismo è invece un elemento fondamentale della vostra piattaforma?
Ricorre quest’anno il ventesimo anniversario della guerra in Afghanistan e della cosiddetta “guerra al terrorismo”. Cosa abbiamo ottenuto? Ben poco oltre a distruzioni, morte, miseria. Milioni di civili in Afghanistan, in Iraq e in altri paesi sono morti, feriti in modo permanente, o sono sfollati – insieme a migliaia di militari. Se possiamo permetterci di portare avanti queste guerre, allora possiamo anche permetterci di risolvere la crisi che la nostra società sta attraversando.
(da commons.wikimedia.org)
Il Regno Unito e gli Stati Uniti spendono centinaia di miliardi per guerre e armi di distruzione di massa, eppure si sono trovati senza difese davanti a una pandemia che era prevedibile. Stiamo affrontando diverse crisi: disuguaglianza sociale ed economica, collasso ambientale, nuove tensioni geopolitiche e nuove forme di conflitto – gli armamenti nucleari non ci aiuteranno a risolvere nessuna di queste crisi. Il bisogno di lottare per la pace, per risolvere i problemi con la cooperazione internazionale, di investire per il bene comune, è oggi più forte che mai.
Durante la tua leadership il Labour Party è diventato il più grande partito in Europa, in forte controtendenza rispetto ai partiti socialdemocratici del Vecchio Continente. Come siete riusciti a produrre una tale mobilitazione e (ri)politicizzazione di segmenti, spesso molto giovani, della società?
Si diceva che i giovani non erano interessati alla politica, ma in realtà era la politica che non era interessata a loro. C’è un’energia e una voglia enorme di cambiare il mondo, farlo funzionare per molti e non per pochi. Sono estremamente orgoglioso dell’impennata nel numero di iscritti sotto la nostra leadership e mi auguro che l’energia e l’entusiasmo di quel periodo continuino a rafforzare e a espandere il movimento socialista, perché nessuno cambierà il mondo per noi.
C’è quindi ancora spazio per idee che si pongano l’obiettivo di trasformare radicalmente la società, democratizzandola e ridistribuendo potere e ricchezza, come indicato dal Labour Manifesto del 2017 e del 2019?
Le proposte dei nostri manifesto erano popolari, adesso è il momento di realizzarle. Erano politiche che puntavano a dare alle persone quello che vogliono e di cui hanno bisogno, non quello che è concesso dai potenti. La pandemia ha reso evidente quanto vitali e attuali siano queste proposte. Sono sicuro che saranno realizzate, portando a uno spostamento drammatico di ricchezza, potere e opportunità dai pochi ai molti.
Molti dei temi cardine del “Peace and Justice Project” si pongono in forte continuità con le rivendicazioni elaborate nel contesto del Labour Party negli anni 2015-2019 che ha rappresentato uno straordinario laboratorio politico. Pensi sia possibile generare una simile attivazione sociale a partire da alcuni temi lavorando al di fuori di un partito politico, in un momento in cui alcuni argomenti sono del tutto marginali nel dibattito pubblico (almeno in Italia)? Che rapporto vi immaginate con i partiti?
Il nostro messaggio ha avuto risonanza presso chi ne aveva abbastanza della vecchia politica, dell’austerità, della guerra, del fatto di dover crescere in uno dei paesi più ricchi del mondo che ha allo stesso tempo un numero record di lavoratori sotto la soglia della povertà e dove milioni di persone vivono in condizioni di povertà. Abbiamo sostenuto che questo scenario non è inevitabile, è la conseguenza di un’economia basata sugli interessi dei pochi e non dei molti.
(da commons.wikimedia.org)
Se da una parte ciò non è bastato a sanare la spaccatura generata dalla Brexit e a vincere le elezioni del 2019, queste questioni non sono certo sparite. Molto delle idee di cui abbiamo bisogno per fare in modo che gli anni Venti siano meglio degli anni Dieci sono state sviluppate dentro e intorno al Labour negli ultimi anni da alcuni dei migliori intellettuali. Ma – e ciò è ancora più importante – sono state sviluppate a partire dalle rivendicazioni dei movimenti, a partire dalle capacità, le conoscenze e i bisogni delle comunità più colpite.
Costruiremo su queste politiche, facendole avanzare e adattandole al mondo post-pandemia affinché il nostro movimento possa smettere di focalizzarsi sui conflitti e le disuguaglianze, per concentrarsi sulla pace e la giustizia.
Nell’evento di lancio del progetto, particolare enfasi è stata posta sul ruolo dei media nel formare l’opinione pubblica. Come è possibile aggredire questo campo di contesa, cosa si propone di fare “Peace and Justice”?
Nel Regno Unito stiamo lavorando a una campagna per prevenire la creazione di un nuovo canale televisivo da parte del miliardario Rupert Murdoch. In generale stiamo lavorando con molti gruppi e organizzazioni che lottano per media più giusti, liberi e responsabili. Commissioneremo ricerche, sosterremo azioni dal basso e campagne per costruire un sistema mediatico al passo coi tempi, che stimoli il dibattito democratico invece di distorcerlo, che supporti e non limiti la libertà di stampa e, soprattutto, che dica la verità al potere e dia voce ai senza voce.
Un’ultima ma importante domanda. Come si può partecipare al vostro progetto, nel Regno Unito e al di fuori?
Al momento abbiamo quattro progetti chiave, alcuni più specifici per il Regno Unito e altri che hanno bisogno di sostegno da tutto il mondo.
(dalla pagina Facebook del progetto)
Il nostro progetto per la sicurezza economica si sta occupando di organizzare aiuti diretti per le comunità che nel Regno Unito sono più colpite dalla tripla crisi – l’austerità, la pandemia e l’attuale recessione. Il progetto per la giustizia globale si batte affinché il vaccino sia disponibile e accessibile per tutti. Il nostro progetto per una società democratica farà campagna per media più giusti, liberi e responsabili, sostenendo gli interessi pubblici del giornalismo e combattendo i monopoli dei grandi gruppi. Infine, il progetto per la giustizia climatica lotta per un Green New Deal nel Regno Unito e in tutto il mondo.
Ci si può registrare al sito The Corbyn Project.