Le proteste del settore agricolo contro le nuove leggi sulle liberalizzazioni del mercato agricolo non si fermano. Attorno alle rivendicazioni si riarticola l’opposizione indiana al progetto di nazionalismo hindu perpetrato dal primo ministro Modi e dal suo partito BJP
Da due mesi lo spazio urbano ai confini di Delhi è cambiato radicalmente: da luogo di passaggio popolato da mercatini e viandanti a epicentro dello sciopero di lavoratrici e lavoratori del settore agricolo. Dalle immagini aeree si possono scrutare interminabili file di trattori popolate da decine di migliaia di persone, focalizzando lo sguardo si nota la molteplicità di luoghi costruiti nello spazio dello sciopero: rimorchi riadattati a biblioteche, cucine comuni e scuole animate da studenti e professori solidali con i manifestanti segnano uno scarto qualitativo su cosa sta producendo la mobilitazione.
La forza dello sciopero è riuscita a scuotere il subcontinente dando vita a quattro scioperi generali, forzando il Governo a confrontarsi con la controparte in undici tavoli di contrattazione e moltiplicando i luoghi dello sciopero.
Il quarto sciopero generale con al centro le rivendicazioni del settore agricolo, è partito alle prime luci del 26 gennaio – giorno della Festa della Repubblica – ed è andato avanti fino a notte inoltrata. L’obiettivo dei sindacati raccolti sotto il fronte del Samyukt Kisan Morcha – costituitasi dopo lo sciopero del 26 novembre grazie all’adesione delle sigle sindacali che sono in sciopero permanente ai confini di Delhi – è stato quello di rubare la scena alla parata militar-istituzionale organizzata dal Governo. Lo sciopero ha coinvolto tutti gli Stati del subcontinente – fatta eccezione per gli Stati del Nord-Est e Jammu & Kashmir – ma la vera protagonista della mobilitazione è stata la città di Delhi.
I cortei in partenza dai confini della capitale hanno preso il via in anticipo rispetto all’orario concordato, muovendosi per le autostrade della capitale con l’impazienza di chi è inascoltato da un Governo asserragliato nei propri palazzi. La situazione s’è fatta incandescente sui fronti dei cortei partiti dai confini di Tikri, Singhu e Ghazipur: i blocchi stradali fatti di transennamenti, bus e container sono stati tirati via dalle strade dai trattori.
I manifestanti partiti dal confine di Singhu si sono riversati sul Red Fort – monumento simbolo della vecchia Delhi – fronteggiando e cacciando dal sito l’ampio dispiegamento di forze di polizia e paramilitari. Alcuni manifestanti hanno issato la bandiera zafferano dei Sikh «Nishan Sabha» di fianco al tricolore indiano. I maggiori media filogovernativi indiani hanno proposto un’immagine mistificatoria dei manifestanti intenti a rimuovere la bandiera nazionale e a rimpiazzarla con quella del Khalistan – movimento separatista per l’annessione del Punjab al Pakistan – per delegittimare le proteste del settore agricolo.
Le supposizioni sono smentite dalle molteplici voci dei contadini scesi in piazza negli ultimi mesi: «Se la polizia alza contro di noi i bastoni, allora verremo picchiati. Ma non lasceremo che ciò accada al nostro tricolore»
Al termine degli scontri il Governo ha imposto lo shutdown della rete telefonica e internet nelle zone degli accampamenti dei manifestanti, al fine di evitare la diffusione di notizie false e per fini di pubblica sicurezza. Il Samyukt Kisan Morcha si è dissociato dalle violenze dei contadini. Gli hanno fatto eco le opposizioni parlamentari e il primo ministro Narendra Modi, il quale non ha esitato a bollare i manifestanti violenti come fomentatori di sentimenti antinazionali.
A fine giornata si registrano circa cinquecento feriti, più di centoventi indagati per le violenze e un morto, Navneet Singh, contadino dell’Uttar Pradesh.
IL RUOLO DEI MASS-MEDIA NELLA SOLLEVAZIONE CONTADINA
La kermesse mediatica di questi mesi ha messo in atto uno schema narrativo atto a reificare le istanze poste da lavoratrici e lavoratori del settore agricolo. Se da un lato i maggiori media del paese, definiti dalle opposizioni del paese con l’appellativo Godi media, offrono una narrazione volta a delegittimare e azzittire gli animi popolari contro le opposizioni, dall’altra i media indipendenti hanno sempre meno spazio.
Lo schema dei Godi media si muove su di un livello di collusione politica con le forze di maggioranza. Il caso dei contatti da intervistare per i reportage sull’impatto delle nuove leggi sul mercato agricolo fornite dal ministro dell’informazione Prakash Javadekar al gruppo editoriale India Today o delle informazioni sull’attacco aereo di Bakalot fornite da funzionari di Governo ad Arnab Goswani – proprietario e conduttore di Republic Tv, l’emittente più popolare del subcontinente – sono emblematici.
Chi non tesse rapporti o non cura gli interessi della maggioranza è vessato da inchieste giudiziarie e sanzioni economiche.
È il caso di Mandeep Punia, giornalista della rivista indipendente “The Caravan”, arrestato mentre stava lavorando ad un servizio giornalistico al confine di Singhu nella notte del 30 gennaio e rilasciato nella giornata del 3 febbraio. Nella stessa giornata, centinaia di pagine Twitter, di giornalisti, reporter e movimenti vicini alle proteste, sono state oscurate dal Ministro degli Interni Amit Shah con l’accusa di aver diffuso informazioni false e di istigare alla violenza.
Con l’arrivo della solidarietà internazionale da parte di personaggi pubblici quali Rihanna, Greta Thunberg e Mia Khalifa si allarga la sfera dei nemici del Governo: il piano si sposta dal nemico interno a quello della cospirazione internazionale ai danni della nazione indiana e del primo ministro Modi. La risposta mediatica parte dalla difesa di Amit Shah «nessun tipo di propaganda potrà intaccare l’unità dell’India» e si estende a larga parte delle celebrità di Bollywood, capeggiati dall’attrice con posizioni filo-governative Kangana Renaut, sotto gli slogan #IndiaTogheter e #IndiaAgainstPropaganda.
Diversa sorte tocca a Greta Thunberg. La polizia di Delhi ha aperto un fascicolo d’indagine sul suo conto addossandole accuse di istigazione all’odio e cospirazione contro la nazione in seguito alla pubblicazione di un manuale di protesta non violenta allegato al suo tweet. La risposta dell’ecologista svedese è stata ferma: «resto ancora dalla parte degli agricoltori».
IL PRIMA E IL DOPO
Il 26 gennaio segna una data spartiacque nell’andamento delle proteste del settore agricolo. Lo sciopero ha continuato ad accumulare forza nei due mesi intercorsi dal primo sciopero generale del 26 novembre, continuando a muoversi con successo fra i confini della capitale e i villaggi rurali. C’è da chiedersi allora perché un movimento che s’è sempre voluto pacifico ha dato vita a una giornata di tafferugli e movimenti non concordati come quella dell’anniversario della Festa della Repubblica.
Un abbozzo di risposta è rinvenibile nella statica delle contrattazioni fra Governo e sindacati. Negli undici incontri avvenuti in questi mesi non si è mai giunti a un accordo. Arrivati all’ultimo incontro prima dello sciopero, i sindacalisti si sono sentiti oltraggiati dal ritardo di oltre tre ore e mezzo della delegazione ministeriale nel far pervenire la stessa risposta di voler sospendere le leggi per un anno e mezzo di modo che gli agricoltori si possano preparare al meglio alla definitiva apertura al libero mercato.
Il Governo ha cercato di tamponare gli effetti della mobilitazione delegando alla Corte Suprema la disposizione di un comitato di quattro esperti – due economisti e due contadini – incaricati di valutare l’impatto delle leggi. L’organo giurisdizionale, già noto per essere sensibile agli umori dell’attuale maggioranza, ha designato per l’organo quattro uomini vicini alle posizioni del Governo sulla questione, attirando su di sé le ire degli agricoltori. Negli stessi giorni il Presidente della Corte Suprema Indiana S.A. Bobde ha dichiarato: «Perché portate a manifestare le donne e gli anziani?». Ciò ha ulteriormente compattato le fila del fronte in sciopero.
Il piano della grandeur della nazione indiana traghettata verso il progresso dal primo ministro Modi e dal BJP perde di legittimità andando a colpire il settore che impiega più persone nel subcontinente.
Al giorno d’oggi il 47% dei contadini indiani ha contratto debiti privati con tassi annuali superiori al 20% per poter continuare la propria attività, acquistare mezzi per i nuovi raccolti e sostenere la famiglia. Con l’introduzione delle nuove leggi, denominate dai contadini black laws, aumentano le preoccupazioni di lavoratrici e lavoratori del settore, intimoriti dalla possibilità di dover vendere le proprie terre a grandi aziende del settore. In quest’ultimo caso è ampia la consapevolezza dei lavoratori del settore di chi guadagnerà da queste riforme: i gruppi economici Adani e Reliance Industries in primis. La Reliance Industries limited del multimiliardario Mukesh Ambani è stata l’obiettivo di molteplici azioni di sabotaggio delle torri di trasmissione telefonica e di boicottaggio di negozi e utenze telefoniche.
D’altro canto, la data del 26 gennaio segna uno scarto in quanto a urgenza di mobilitazione dello Stato contro la sollevazione contadina. La carta giocata dal Governo è quella del pugno duro. Nella nottata del 28 gennaio il Governo dell’Uttar Pradesh, guidato dal governatore Yogi Adityanath esponente della destra del BJP, ha ordinato lo sgombero con tutti i mezzi necessari dell’accampamento al confine di Ghazipur. All’arrivo della notizia, centinaia di contadini hanno accolto l’appello del sindacalista Rakesh Tikait a convergere per resistere allo sgombero.
Il giorno dopo, circa duecento persone vicine alla destra ultra-hindu hanno tentato l’assalto all’accampamento contadino del confine di Singhu.
Nonostante la composizione eterogenea dei partecipanti allo sciopero, il fronte si fa a ogni attacco più compatto. Il sindacalista Sarwan Singh Parwer ha sottolineato l’eterogeneità sociale dei partecipanti allo sciopero ed i capisaldi della protesta: «Ci sono litigi anche all’interno delle famiglie, le cose non sempre vanno bene. Ma ciò non significa che non ci siano soluzioni. Combatteremo contro il Governo per l’abrogazione delle tre leggi sul mercato agricolo».
La forza dello sciopero sta nella molteplicità e complementarità delle azioni messe in atto. Lo slogan “nessun agricoltore, niente cibo” restituisce parte dei motivi per cui la protesta eccede il settore. La marcia dei cittadini del 3 febbraio ha raccolto associazioni della società civile e collettivi studenteschi in marcia per le strade della capitale.
La molecolarità dello sciopero ad oltranza si è mostrata con tutta la sua forza nella giornata del 6 febbraio con il Chakka Jam – blocchi stradali diffusi – convocato dal Samyukt Kisan Morcha per ribadire la centralità delle rivendicazioni del settore agricolo. Mentre il traffico delle arterie del subcontinente è stato bloccato per tre ore, si sono tenute assemblee oceaniche nei villaggi del subcontinente.
Le proteste a trazione agricola hanno mostrato con pienezza l’autoreferenzialità del Governo e il fallimento materiale della retorica di prosperità del discorso della destra nazionalista hindu. Il piano dell’azione istituzionale è chiuso dal subdolo gioco della maggioranza in supporto al Governo Modi, intenta a far man bassa di poteri terzi e della costituzione stessa in nome del progetto dell’hindu rashtra – nazione per soli hindu – e dall’incapacità delle opposizioni di catalizzare le proteste in consensi elettorali.
Il termine democrazia è svuotato di senso dai continui attacchi del Governo verso le minoranze e dalla compravendita di parlamentari nelle assemblee legislative statali in cui il BJP è in minoranza.
La geografia dello sciopero mostra un’opposizione capace di farsi allo stesso tempo molecolare e molare, intessendo relazioni ostili al progetto liberal-autoritario della destra nazionalista hindu e producendo forme di conflitto atte a logorare l’impianto su cui si regge il consenso delle forze di Governo.