Il 67° governo della Repubblica Italiana sarà un esecutivo guidato da un banchiere internazionalmente benvoluto in tutti gli ambienti dove si controllano le crisi del capitalismo globalizzato, affiancato da un esperto dei conti pubblici, il secondo in Banca d’Italia, Daniele Franco. Draghi potrà contare su supermanager come Colao, su esperti di diritto costituzionale come Cartabia e sulla fedeltà pressoché assoluta di tutte le forze che hanno deciso di sostenerlo, visto che la composizione del governo, per due quarti, è stata disegnata veramente facendo ricorso alla logica spartitoria del manuale di Cencelli: tre ministri a testa per Cinquestelle, PD, Lega e Forza Italia, uno rispettivamente per Italia Viva e LeU. L’eredità del Conte bis la si riscontra nelle presenze di Lamorgese agli interni, Speranza alla Salute e Di Maio agli esteri. Perfetta continuità di nomi e ruoli, in questi tre casi.
Per il resto, il governo che mercoledì e giovedì si presenterà alle Camere, è un comitato di gestione degli affari pubblici attraverso quello che non è improprio definire come il “punto di vista” (eufemisticamente parlando) di un banchiere liberista, ligio al protocollo istituzionale e costituzionale, certamente rispettoso delle libertà concesse dal mercato: quelle civili, quelle che non danno molto pensiero a chi deve gestire la mano invisibile del mercato in ogni settore della vita dello Stato e ogni intervento di questo nella tutela degli interessi privati, della media e grande impresa unitamente al ruolo della finanza continentale ben rappresentata dalla Banca Centrale Europea nella gestione dei fondi per la risoluzione della crisi pandemica.
Molto più facilmente rispetto ad altre volte, la natura di classe di questo governo supera l’evidenza perché è connaturata nella persona stessa di Mario Draghi che, oggettivamente, è uomo della stabilità dei mercati, della ricerca di soluzioni che, prima di tutto, cautelino gli interessi di quella ristrettissima parte di società che vive grazie al resto della popolazione, sfruttandola tramite la complicità di riforme politiche strutturali che, ispirate anche da Bruxelles e Francoforte, hanno fatto del mondo del lavoro una variabile sempre più dipendente dalle inconstanti oscillazioni di un capitalismo sempre più finanziarizzato, quindi liberista e planetario.
Se questo carattere di classe del governo Draghi è l’elemento primo che ne delinea oggettivamente la natura dell’intervento politico richiesto dalle esigenze padronali, l’altro aspetto non certo rassicurante è la quasi totale unanimità di consensi parlamentari che, almeno nei ricordi, riporta al governo di emergenza nazionale di Andreotti, il quarto del Divo Giulio, messo in piedi con una maggioranza che includeva anche il PCI nell’anno del rapimento Moro. I nemici ora sono il virus, la crisi economica e l’avanzata di una povertà che difficilmente le ricette liberiste di Draghi potranno mitigare.
In queste settimane si è trascurato molto il ruolo del Parlamento: potrebbe sembrare naturale, nel pieno svolgimento di una crisi di governo, guardare di più verso Palazzo Chigi, ma si rischia così di separare troppo il rapporto costituzionale tra i due poteri dello Stato, che non può essere alterato nemmeno lontanamente dalla pur impalpabile percezione di un nuovo Presidente del Consiglio “dall’alto profilo“, la cui statura è misurata col termometro dell’apprezzamento delle banche, della associazioni padronali (Bonomi ha plaudito fin da subito alla nomina di Draghi) e della repentina discesa dello spread.
La formazione dell’ampia maggioranza trasversale e multicolore che si va formando, non è qualcosa di cui andare fieri e compiacersi universalmente: i giornali d’Oltralpe, analizzando la composizione del nuovo esecutivo, lo descrivono come un governo formato da una aristocrazia industriale, bancaria e finanziaria legata a doppia mandata con le destre, a loro volta punto di aggancio di quel sovranismo convertitosi seduta stante in verginissimo europeismo.
Il ruolo delle forze progressiste moderate, come Liberi e Uguali, includendo anche settori impropriamente definiti “di sinistra” del PD, viene non solo marginalizzato, ma reso così ridicolo da essere unicamente assimilabile ad una stampella utilitaristica che non potrà portare in nessun modo alla presa in considerazione delle istanze dei ceti più fragili, deboli e impoveriti della società. Quell’esame di coscienza che la sinistra di alternativa di matrice governista (Sinistra Italiana in primis) avrebbe dovuto farsi già al tempo del Conte 2, oggi diventa ancora più importante se si pensa di non lasciare l’opposizione sociale e politica in mano alla destra di Fratelli d’Italia e a voci singole, da Sgarbi a Paragone.
Ancora una volta la Storia insegna ma non ha scolari: non sono state sufficienti le esperienze di governo di questi ultimi decenni per mostrare alla sinistra moderata il semplice assioma sui rapporti di forza tanto parlamentari quanto, soprattutto, sociale che ne sono derivati? Forse da questo progressivo allontanamento degli equilibri tra rappresentanti e rappresentati si poteva imparare, abbandonare ogni velleità governista e iniziare a ricomporre la diaspora del mondo del lavoro finito nei tanti rivoli politici del sovranismo, utilizzatore del disagio sociale attraverso i timori (legittimi) di impoverimento crescente, di mancanza di sicurezza, di abbandono al caos degli eventi.
Divisa tra parlamentarismo ed extraparlamentarismo (per alcuni subito, per altri scelto volutamente come linea politica), la sinistra antiliberista e anticapitalista è rimasta pressoché impotente davanti al mutamento dei pesi sulla bilancia del cambiamento e nemmeno davanti alla pandemia ha avuto un sussulto di orgoglio, di recupero di una critica sociale unitaria o, quanto meno, volta a cercare una visione di insieme comune per sviluppare rivendicazioni all’altezza dei tempi. Sinistra Italiana sceglierà domani (domenica 14 febbraio, San Valentino) se seguire il resto di LeU nella maggioranza draghiana o se collocarsi all’opposizione. Magari con una astensione che tenga ancora in piedi il tripartito con PD e Cinquestelle. Sarebbe una magra consolazione, ma lascerebbe almeno a sinistra un diritto di tribuna al dissenso verso il muro di gomma da responsabilità nazionale, interpretato magistralmente dal consociativo unanimismo di un Parlamento che rischia di essere un servo sciocco del governo.
Ma se anche Sinistra Italiana votasse contro, ipotesi che meriterebbe un brindisi in mezzo a questo nauseabondo clima di necessità del “salvatore della patria“, deve poter essere visibile il grande lavoro da fare per costruire una vera opposizione sociale, politica e culturale al governo Draghi che è molto di più di un semplice governo della Repubblica: è un vero e proprio cambiamento antropoligico-politico di una società smarrita, in cerca di un approdo sicuro cui aggrapparsi e pronta a svendere qualunque libertà e valore per non affogare nell’emergenza sanitaria che è emergenza economica (e viceversa). Draghi e i suoi ministri sono esponenti di primo piano di una intellighenzia apparentemente disomogenea, ma invece molto unita nel proporsi come modello di superamento delle difficoltà politiche del recente passato.
Promettono stabilità tanto all’interno del nostro Paese quanto all’esterno, ad una Europa che vuole tutte le garanzie necessarie affinché i soldi del Recovery Fund vadano a finanziare il mondo delle imprese e non la sofferenza di milioni e milioni di lavoratori: questa, semmai, sarà una conseguenza. Prima vengono i padroni che “danno il lavoro” e poi coloro che il lavoro, pur dandolo veramente, lo subiscono. Senza il rinnovo del blocco dei licenziamenti in tutti i settori produttivi e terziari, consentendo alle imprese più in salute di liberarsi di un certo numero di dipendenti, proprio per seguire la logica liberista secondo cui l’azienda forte sostiene il resto dell’economia nazionale, si faranno incalcolabili danni sociali e si porterà il Paese nelle braccia di un futuro governo di destra molto più agguerrito dei precedenti. Magari anche “rispettabile“, ma pur sempre sovranista nella sua endemicità.
Poiché il governo Draghi non potrà realizzare nessuna riforma sociale, aumenteranno le diseguaglianze e senza una sinistra di alternativa, antiliberista e anticapitalista, capace di intercettare queste problematiche, altro non avranno fatto i cantori delle lodi dei banchieri di oggi se non spianare la strada alla fortuna delle destre di domani.
Per questo la sinistra vera, comunista o meno che sia, deve impegnarsi in un serio lavoro di ricerca, di analisi, di inchiesta sociale: per ammodernare i suoi strumenti interpretativi e non lasciare i lavoratori e le lavoratrici, i precari e i disoccupati preda acritica di un liberismo a tutto tondo ora, priva di un qualunque futuro immediatamente dopo.
MARCO SFERINI