Ricordate l’appello per costruire nel paese un fronte democratico e antisovranista? Quante volte abbiamo sentito a destra ribadire che mai avrebbero accettato di allearsi con Pd e Movimento 5 Stelle? E che dire poi del Pd che oggi, per bocca del suo segretario, benedice il nuovo Esecutivo come argine ai due Mattei e alle destre?
E il Movimento 5 Stelle che benedice la transizione ecologica, rifilandola ai suoi militanti su Rousseau come merce buona al fine di estorcere il consenso al pasticcio del nuovo esecutivo, quando nei suoi anni di governo ha tradito le aspettative dei cittadini che chiedevano il blocco del Tap e la chiusura dell’Ilva di Taranto?
La politica italiana è un immondo teatrino all’insegna del trasformismo, lo era già all’indomani dell’Unità d’Italia con le continue e repentine giravolte dei parlamentari.
La politica è morta e sepolta, sopravvive invece un’ideologia che all’occorrenza resuscita qualche luogo comune per coprire, con la foglia di fico delle chiacchiere, scelte di governo a beneficio esclusivo del grande capitale economico e finanziario.
Il primo ministro Draghi ha un compito ben preciso: riportare l’arco parlamentare, da destra a sinistra, nell’alveo delle politiche compatibili con i dettami di Confindustria, Bce, Fmi nel “buon” nome della dittatura dello spread e in ossequio alle politiche liberiste.
Chi descrive Draghi come un neokeynesiano mente, perché questo governo si muoverà dentro le politiche di austerità, non sarà un esecutivo forte e autorevole con l’Europa, dalla quale riceveremo meno di 10 miliardi l’anno per sei anni (secondo i calcoli di Emiliano Brancaccio) quando la crisi ha distrutto, solo nel 2020, 160 miliardi di euro di Pil.
Siamo in presenza di una tecnocrazia che potrà indebolire il potere dei partiti in parlamento e ipotecare quanto resta della sovranità popolare (quella monetaria è morta con l’avvento dell’Euro). Un governo in perfetta continuità con quelli di Amato e Monti che dettero vita a feroci processi di liberalizzazioni e privatizzazioni, accrescendo le disuguaglianze sociali ed economiche, distruggendo le conquiste delle lotte operaie, come per esempio con l’innalzamento dell’età pensionabile, per conto e nel nome della dittatura dello spread.
Confindustria e grande capitale erano delusi del governo Conte 2, lo ritenevano ostaggio dei partiti e inaffidabile, incapace di assumere la guida del paese e di operare quelle controriforme indispensabili per la tenuta del capitalismo. A sostenere la fine della vecchia maggioranza anche i sindacati concertativi che non hanno imparato la lezione del passato quando, in nome della stabilità e degli interessi del paese (non certo dei lavoratori e delle lavoratrici), hanno taciuto davanti allo smantellamento della legislazione in materia di lavoro non muovendo un dito contro la perdita del potere di acquisto e di contrattazione o davanti l’innalzamento dell’età pensionabile.
Riscriveranno il Recovery, porteranno avanti quella distruzione creatrice del libero mercato che non determinerà alcuna rottura con le politiche liberiste, le adatterà piuttosto alla nuova fase pandemica e favorirà un’ulteriore centralizzazione dei capitali.
E la dittatura dello spread, la salvaguardia del pareggio di bilancio e della sostenibilità finanziaria continueranno a essere i principi guida dell’azione governativa, a smentire chi in questi giorni, con le solite bugie intellettuali costruite ad arte, presentava Mario Draghi come economista keynesiano fautore della crescita e dello sviluppo.
A crescere saranno invece le disuguaglianze economiche e sociali e a essere tutelate le istanze del grande capitale economico e finanziario con la benedizione da destra e da sinistra. È la fine della politica o un suo ritorno alla corte del grande capitale mandando in soffitta ideologie come il sovranismo che in questa fase potrebbero essere solo dannose per le istanze dei poteri che contano e che perciò anche la Lega ora ripudia.
Si guardi per esempio al neoministro dell’Economia, un supertecnico, già a capo della ragioneria dello Stato, una garanzia per rimettere mano al fisco, alle pensioni e vicino all’ex premier Enrico Letta che è tra gli oscuri facilitatori di questo nuovo esecutivo.
Il ministro Franco è tra i fautori del fiscal compact e del pareggio di bilancio in Costituzione, è stato nella cabina di regia della riforma previdenziale; non c’è che dire: l’uomo giusto al posto giusto (per il capitale).
Gli industriali del Nord hanno avuto ciò che chiedevano, un uomo di fiducia (Giorgetti della Lega) preposto al dialogo con le imprese che saranno accontentate nei loro desiderata.
E l’ex bocconiano Giorgetti dovrà decidere con il suo ministero sull’Ilva e le altre acciaierie in crisi e sull’Alitalia. Insomma nelle sue mani saranno le sorti di parti rilevanti dell’industria del paese per potenziare il sistema di agevolazioni fiscali all’impresa avviato con Transizione 4.0 e gli aiuti alle piccole imprese e alla loro riconversione “ecologica”.
E poi il codice degli appalti e le infrastrutture affidato all’ex ministro del Lavoro Giovannini, una carriera tra Ocse e Istat sullo sfondo della svendita del patrimonio immobiliare pubblico e la cosiddetta rigenerazione urbana che potrebbe ridisegnare l’assetto di tante città italiane a uso e consumo dei poteri forti.
Che dire inoltre di Brunetta? Se il capitale considera i costi della Pubblica Amministrazione un fardello insopportabile, Brunetta, già denigratore dei lavoratori pubblici, è al posto giusto non per farla funzionare meglio, come sarebbe necessario, ma per approfondire il processo della sua sostanziale privatizzazione. O di Franceschini, protagonista da molti anni di un pericoloso processo di mercificazione della cultura e dei beni culturali, che viene riconfermato in quel portafoglio?
La ciliegina sulla torta è il nuovo superministero della transizione ecologica che riunisce in sé notevoli competenze prima ripartite fra vari ministeri. Gestirà oltre un terzo dei soldi del Recovery Fund, circa 80 miliardi, e al suo vertice è stato posto Cingolani, un manager proveniente dall’industria bellica Leonardo, gran fautore del nucleare.
Insomma, è prevedibile un nuovo travaso di ricchezza dai lavoratori al grande capitale e una stagione di immensi sacrifici, magari rinviati a dopo l’emergenza, quando dovremo restituire il grosso dei 190 miliardi del Recovery Fund.
Di fronte a questo scenario rischiamo di pagare molto cara la divisione all’interno della sinistra di classe. Perciò è il momento di abbandonare le borie di partito e i reciproci veti e impegnarci tutti insieme nella costruzione di un fronte di opposizione di sinistra a questo governo. Se non ora quando?
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