Il nuovo Ministero per la Transizione Energetica nasce nel peggiore dei modi, Cingolani non è neppure lontanamente vicino a posizioni ambientalistiche, ma intanto i fondi UE sono in arrivo
La questione ambientale è entrata prepotentemente all’interno del dibattito pubblico relativo al governo Draghi già prima che il governo nascesse, anzi, è stata una tematica al centro delle trattative che hanno permesso la formazione del governo. Verrebbe da pensare che improvvisamente la sensibilità ecologica diffusa nel nostro paese abbia contagiato le alte sfere del potere istituzionale e magari pure dei poteri forti. Una lettura più distaccata, ora che il quadro di contorno è chiaro, ci suggerisce invece una realtà un po’ differente e molto meno ottimistica.
Un cambiamento noto è l’ormai “famoso” Ministero per la Transizione Ecologica, che ha suscitato entusiasmi tanto eccessivi quanto ingenui da parte delle grosse organizzazioni ambientaliste ricevute da Draghi durante le consultazioni.
L’Unione Europea ha decretato che entro il 2050 bisogna arrivare all’obiettivo emissioni zero di gas clima-alteranti (metano e Co2 in primis). La data è criticata dal fronte ambientalista che dichiara, sorretto da approfonditi studi scientifici, che è necessario che questo obiettivo si raggiunga almeno 10 anni prima, cioè nel 2040.
In molti, come Extinction Rebellion, chiedono le emissioni zero già al 2030. In ogni caso, affinché questa trasformazione dell’economia e della società abbia luogo, la Commissione ha invitato i paesi membri a dotarsi di ministeri che possano guidarla, visto che essa implica una rivoluzione copernicana dell’intero asse produttivo ma pure delle forme sociali e gestionali della vita pubblica.
Basti pensare a quanto la nostra vita quotidiana ancora oggi è strettamente vincolata alla combustione di fossili e alla produzione di gas clima-alteranti. Tra trent’anni, secondo la Ue, dovrebbe esserne completamente priva.
Francia e Spagna si sono già dotate da qualche anno di un ministero simile, quindi Draghi non ha fatto nulla di particolarmente rivoluzionario: ha semplicemente applicato una linea guida europea. Inoltre siamo tutte e tutti in trepidante attesa dei 222 miliardi di Recovery Fund in arrivo da Bruxelles e di questi 68.90 miliardi, cioè il 30%, deve essere speso per la transizione ecologica: era pertanto necessario e logicamente conseguente istituire questo ministero.
(foto di Moritz D. da Pixabay)
Nei giorni precedenti si è parlato varie volte della possibilità che questo fosse un super-ministero (così recitava anche il “quesito barzelletta” proposto sulla piattaforma Rousseau per imbonire i votanti), cioè che inglobasse le funzioni di Ministero Ambiente, Mise, Ministero Agricoltura e addirittura Ministero delle Infrastrutture.
La richiesta non era insensata in quanto per riuscire a cambiare l’assetto energetico del paese al fine di fermare l’emissione di gas serra, è necessario uno sforzo integrato con i ministeri che riguardano le attività produttive.
Così non è stato, il ministero ricalca le funzioni del solo ex Ministero dell’Ambiente e quindi neo-ministro Cingolani dovrà collaborare con i suoi colleghi, in particolar modo con Giorgetti, (titolare del Mise), sempre più rilevante negli equilibri della destra e probabilmente tra i ministri attuali più vicini a Confindustria. Ricordiamo che Giorgetti nel non lontano 2016 ha votato contro la ratifica degli accordi di Parigi ed è stato tra i firmatari di un emendamento alla Camera platealmente negazionista, che chiedeva di dirottare 25 milioni di euro allo studio di fantomatiche teorie relative al “raffreddamento climatico” determinato, a loro dire, dalle macchie solari.
Ma veniamo all’uomo scelto, Roberto Cingolani: si tratta di un fisico, relativamente giovane per la lunga carriera che può già vantare. L’ultimo incarico ricevuto dice molto sul suo conto, responsabile di innovazione tecnologica per Leonardo (ex Finmeccanica), la potente azienda partecipata dallo Stato, produttrice ed esportatrice di armi in tutto il mondo. Precedentemente Cingolani era stato chiamato da Renzi a collaborare all’Expo di Milano ed è nota la sua vicinanza con il leader di Italia Viva, cioè l’artefice materiale della frattura che ha portato al governo Draghi.
Cingolani è sicuramente uno scienziato, ma è altrettanto evidente che le sue conoscenze scientifiche non le ha mai messe a disposizione di lotte ambientali di alcun tipo, anzi.
Leggendo i suoi articoli e interviste precedenti all’incarico si scopre ad esempio che è favorevole alle bioplastiche e alle New Breeding Techniques, cioè gli Ogm di seconda generazione che già la ministra Bellanova aveva cercato di introdurre a fine dicembre 2020. Si scopre poi che probabilmente non è in brutti rapporti dall’azienda maggiormente inquinante del paese, cioè Eni, che in questo articolo lo intervista. Il 5 febbraio 2020 Cingolani dichiara che «in questo momento il gas è uno dei mali minori: nel medio e lungo termine la risorsa più sostenibile».
(foto di Markus Distelrath da Pixabay)
Peccato che tutti i maggiori studi del movimento ecologista dimostrino esattamente il contrario, cioè che considerando il complesso delle emissioni, il gas possa considerarsi addirittura più inquinante di petrolio e carbone. Sarà forse una coincidenza, ma è proprio sul gas che verte la strategia energetica dei prossimi anni dell’azienda di San Donato Milanese. Nell’intervista Cingolani si esprime in modo pericoloso anche rispetto ad altri ambiti, si lamenta che sul nucleare «esistano molti veti» e si dimostra scettico rispetto allo sviluppo delle energie rinnovabili.
Queste sue uscite, circolate già la notte delle nomine, hanno lasciato interdetti i più.
Probabilmente anche per correggere il tiro, il 16 febbraio il neoministro ha scritto sei nuovi pezzi per “Repubblica“, in cui prova ad affrontare temi chiave del mondo ambientalista.
Gli articoli sono densi di retorica, farciti di buoni propositi e di fideistica speranza nello sviluppo tecnologico, ma sostanzialmente sono privi di un posizionamento. L’articolo sugli Accordi di Parigi, ad esempio, riesce a parlare della tematica senza nominare le parole “combustibili fossili” ma solo girando attorno al tema della riduzione dei gas serra, quasi che questa debba avvenire grazie al cambio dei venti o per qualche intervento salvifico. Inoltre, nello stesso articolo, riporta il pregiudizio coloniale secondo il quale il problema dei gas serra è determinato dai paesi emergenti che vogliono crescere.
Scrive infatti che «la lotta al riscaldamento globale rappresenta il più classico dei problemi di azione collettiva, in cui la volontà di sviluppo economico, soprattutto nei paesi emergenti, si scontra con la necessità di ridurre le emissioni inquinanti.» Anche qui decine di studi dimostrano che il problema non sono (soltanto) l’India o il Brasile, ma tutti gas clima-alteranti che dalla rivoluzione industriale a oggi i paesi sviluppati hanno immesso nell’atmosfera e che, prima di puntare il dito verso paesi impoveriti a causa nel nostro modello di sviluppo, dovremmo guardare a noi stessi.
Ovvio che però affermare quello che scrive Cingolani è deresponsabilizzante e liberatorio per chi mai si fosse preoccupato per i gas clima-alteranti che l’Italia produce.
È evidente che scegliere di mettere una figura di questo tipo in un ministero così potente risponde a una logica precisa e determina conseguenze nette. Per quanto la Commissione Europea voglia ammantare la transizione ecologica con parole smart quali “Green New Deal” o “Next Generation”, siamo di fronte alla necessità di un cambio strutturale per permettere la sopravvivenza sul pianeta a future generazioni. Questa trasformazione sistemica è incompatibile con l’economia capitalistica, per la quale sfruttare le risorse ambientali per aumentare il profitto speculando sul valore dei beni è un elemento imprescindibile.
(Immagine da archivio)
Quello che ci si può allora aspettare da una persona così interna rispetto all’ordine neoliberista sono una serie di posizioni opache, una sfilza di mediazioni al ribasso volte a tranquillizzare l’opinione pubblica e al tempo stesso tutelare profitti e interessi di una certa classe dominante. Per quest’ultima cambiare strutturalmente il sistema capitalistico implicherebbe la fine di privilegi e posizionamento sociale.
Il greenwashing sistemico che abbiamo evidenziato alla vigilia dell’ultimo sciopero globale per il Clima del 9 ottobre va esattamente in questa direzione.
Sta per uscire in questi giorni un libro sul cambiamento climatico di Bill Gates e tutto fa pensare, dalle anticipazioni, che suggerisca una serie di cambiamenti di facciata e soluzioni false volte a “salvare il pianeta” mantenendo intatto il “sistema”. Possiamo ragionevolmente supporre che il governo Draghi e Cingolani si attesteranno su questo genere di “cambiamento”.
La sfida per i movimenti ecologisti è allora ancor più urgente e radicale, denunciare l’urgenza del momento che attraversiamo, strappar via il vestito verde che il governo Draghi sta per indossare e contrastare il flusso incessante di aprioristica devozione che il suo governo sta ricevendo da media e parti sociali. Riuscire a farlo in un momento in cui è oggettivamente difficile scendere in piazza e costruire conflitto è un ulteriore ostacolo da superare.