Prima che Hitler giungesse al potere in Germania, attraverso democratiche elezioni nel 1933, Max Weber aveva studiato a fondo il fenomeno tanto politico quanto sociale del “potere“. Questa invenzione coscientemente tutta umana che ha finito per divenire insostituibile nella regolamentazione delle relazioni interpersonali, quindi tra singoli e piccoli gruppi di individui, così come nel rapporto più dinamico, in qualche modo “evolutivo” dei rapporti tra gli Stati, tra organizzazioni a cui il potere è stato dato e che, a loro volta, hanno finito per esserne i privilegiati detentori.
Si pensi al “potere assoluto“, alle monarchie prima dell’avvento della rivoluzione puritana di Cromwell in Inghilterra o della Rivoluzione francese: caratteristica di quel potere è la non facile sostituibilità del medesimo con altri. Deriva da dio, da nobili, antiche discendenze e quindi è una investitura duplice, perché è per volontà della nazione che il sovrano impera e non ha eguali. E’ proprio questo il punto dirimente della storia del potere assoluto: nessuno è al pari o al di sopra del re o dell’imperatore. Qualunque organismo deliberativo, qualunque magistratura, qualunque associazione di liberi cittadini deve sottostare alla volontà della corona.
Solitamente, come dimostra il marxismo, le lotte fra le classi rendono un po’ più frizzanti le pagine della storia e la vivacizzano quando stagna in pericolose crisi economiche che si trascinano biecamente, senza alcuna attenzione particolare da parte di corti regie e di apparati statali che le seguono nella noncuranza dei debiti cumulati, mentre oggi, nel bel mezzo di una pandemia la Germania di Angela Merkel sobbalza vedendo il proprio debito pubblico arrivare al 70% del Prodotto interno lordo.
La lezione della storia, si potrà dire, è servita: o forse, molto più semplicemente si sa che, secondo le regole moderne del liberismo capitalista, se un paese accumula troppo debito pubblico finisce per l’essere facilmente preda di altri paesi dominanti, meglio posizionati sulla bilancia economica mondiale e quindi pronti ad esercitare la loro funzione imperialista sul terreno squisitamente concorrenziale in materia di scambi: importazioni, esportazioni e relativa spartizione delle sfere di influenza nel mondo globalizzato, con una ripercussione pressoché immediata sulle condizioni interne tanto dell’imprenditoria privata quanto dei settori pubblici e, pertanto, della vita (o della sopravvivenza) di larga parte della popolazione.
Fatta questa considerazione sull’oggi, rituffiamoci ancora nel non troppo lontano passato che si ripresenta ciclicamente nelle fasi storiche. Il potere assoluto di un Carlo V o di un Luigi XIV è anche quello che Max Weber potrebbe definire come un “potere carismatico“, perché il sovrano è riconosciuto, si obbedisce ciecamente a tutto ciò che fa. Ma, se si osserva più da vicino il rapporto tra re e sudditi, se si circostanziano meglio le descrizioni particolareggiate dell’assolutismo in Europa (ma non meno diverse sono le cronache che arrivano dalla Cina dei Qing o dal Giappone degli Shogun Tokugawa), si scoprirà che il carisma non è legato alla discendenza del casato o alla investitura divina.
Il carisma è parte di quell’enigma del consenso che regala il potere a personaggi che non avrebbero avuto alcun rilievo nella storia del loro paese o del mondo intero, se una serie di congiunture non si fossero venute a creare favorendone l’ascesa. A volte lenta, altre volte più repentina: ma pur sempre sostenuta dalla struttura economica, dall’interesse che – al pari di quello politico del leader di turno che emergeva una spanna sopra gli altri – avevano le cosiddette elites industriali del mondo moderno.
Dunque, il concetto di “potere carismatico“, così come lo elabora Weber, si adatta perfettamente al fenomeno hitleriano, all’apparente, inspiegabile contraddizione di una Germania sconfitta nella Prima guerra mondiale, eppure ancora nazione evoluta, quella che Marx per primo aveva individuato come quella più avanzata sul piano economico, dove era probabile – anzi quasi certo – che il proletariato avrebbe avuto il terreno favorevole per rovesciare l’ordine esistente e iniziare a creare le basi per un nuovo ordine sociale, per superare il capitalismo.
Primo Levi ha ragione: è impossibile, umanamente parlando (almeno per quella parte di umanità che intende rimanere tale nell’essere umano stesso), comprendere lo sterminio pianificato e sostenuto da una dottrina razzista, omofoba, xenofoba, suprematista ariana che la modernità del pensiero liberale avrebbe dovuto fermare sul nascere, mentre proprio la disperazione popolare si allargava a macchia d’olio nella Germania dell’inflazione alle stelle e della disoccupazione in crescita esponenziale.
Ma le idee e i princìpi servono a ben poco se non si traducono in una dottrina che divenga l’ABC dell’organizzazione e che esca dalla mera elucubrazione e dalla semplicità inerte della mera critica, per assumere le fattezze della spinta ideologica: laddove per ideologia si propone una visione della società, dei rapporti di classe e del futuro dell’umanità che si contrapponga a quella dominante che, come si è potuto osservare nel corso del Novecento, non garantisce di essere un argine sicuro a fenomeni di autodistruzione dell’essere umano nei confronti dell’essere umano stesso.
Mentre il capitalismo, congenitamente, si esprime nello sfruttamento della maggioranza degli individui da parte di una minoranza che possiede i mezzi di produzione, e lo fa servendosi di ogni mezzo possibile atto a mantenere un livello di “pace sociale” che garantisca il massimo della “collaborazione” da parte di chi si potrebbe rivoltare contro le condizioni di subordinazione coatta (fatta apparire come necessità degli eventi, frutto della “normalità” del susseguirsi dell’evoluzione storica del cammino umano), un fenomeno sovrastrutturale come quello ideologico-politico si riverbera sulla società se trova spazio, quindi adesione, in una delle classi in lotta.
L’operazione politica riesce ancora meglio se questa penetrazione ottiene l’insperato beneficio del sostegno interclassista. Cosa che il nazismo riesce a realizzare – non senza qualche difficoltà nei primi anni di cancellierato di Hitler – quando, fallito il putch di Monaco, abbandonata la via rivoluzionaria violenta, decide di adoperare gli strumenti della decadente democrazia weimeriana per arrivare al potere e, come ebbe a dire chiaramente la dirigenza dell’NSDAP (Goebbels e Goering tra le figure più emergenti dell’emergente partito di massa e di governo), una volta ottenutolo liquidare il parlamentarismo e mantenere quella delega popolare per sempre.
E’ necessario qui riprendere il confronto tra “potere assoluto” e “potere carismatico“: l’assolutismo degli Stati moderni dell’Europa precedente la presa della Bastiglia lascia il posto, pur nell’affermarsi del costituzionalismo parlamentare e delle riforme liberali, a forme di radicalizzazione del potere che, non tanto nell”800 (secolo delle rivoluzioni nazionali), quanto nel ‘900 prendono corpo con la spinta colonialista: se ne rende conto con grande lungimiranza Rosa Luxemburg che non sottovaluta il tono spietatamente aggressivo delle politiche nazionali in questa corsa all’occupazione dei tanti “posti al sole” nella povera Africa ancora semi sconosciuta.
La fase imperialista degli Stati nazionali (di ogni parte del mondo) è fase di espansione economica che si esprime nell’occupazione di terre da sfruttare, di terre dove le popolazioni autoctone sono trattate come “inferiori“. Sempre. Il razzismo teutonico, da questo punto di vista, non è il solo a garantire sogni di sviluppo sociale: dal Sudafrica all’India, dal Congo belga all’impero italiano di Mussolini, dalla fine dell’Impero Ottomano alla spartizione del Medio Oriente, un po’ tutte le grandi potenze economiche gareggiano in questo dominio planetario.
Certo, la differenza ideologica esercita la sua parte in questo subbuglio novecentesco: il liberalismo aristocratico britannico è ben diverso dal nazionalsocialismo hitleriano; eppure il razzismo è un tratto distintivo del Novecento, eredità dello schiavismo latifondista tanto nel nord quanto nel sud dell’America, prosecuzione di una colonizzazione tanto delle terre quanto dei mari da parte dell’Impero britannico.
In Europa, proprio la congiuntura purtroppo perfetta di alcuni fattori che si vengono a sviluppare in un medesimo periodo, fa sì che salti la copertura liberal-democratica del capitalismo nella Germania post-bellica: il potere di Hindenburg, che non si può dire fosse carismatico al pari di Bismarck ma che, indubbiamente, aveva ancora il fascino dell’aristocratico prussiano al comando delle truppe che portavano il distintivo “Pickelhaube” (l’”elmo chiodato“), ma non era tuttavia sufficiente a rassicurare i tedeschi sulla ripresa economica di un Germania prostrata dai debiti di guerra, oltre che dalla guerra stessa.
Quando Primo Levi ammonisce sulla possibilità che le coscienze vengano nuovamente adombrate, oscurate dalla cattiveria gratuita, dall’odio come costante dei rapporti tra esseri dis-umani, non fa che ricordarci – seppure indirettamente – che quel potere politico, che arriva ad ispirare e dominare una società culturalmente e socialmente evoluta, può ripresentarsi se, a sua volta, ritornano in auge le condizioni economiche che l’hanno aiutato a crescere, radicarsi ed espandersi fino a diventare il nuovo rappresentante della classe dominante.
Osserva con grande acutezza Ian Kershaw che, proprio dal marxismo novecentesco, arriva una critica non campata in aria riguardo il rapporto tra “potere carismatico” e capitalismo. Semplificando un poco: come può uno studente d’arte fallito, perdigiorno e spiantato, divenuto caporale nell’esercito tedesco dopo aver disertato dall’arruolamento nelle fila patrie austriache, decorato per alcune azioni belliche peraltro non molto distintive, aver conquistato il posto che fu del Kaiser e di Bismarck, proclamandosi “Führer” del popolo tedesco?
La risposta a questo “enigma del consenso” non è semplice, perché non è sintetizzabile in un concetto, ma origina appunto da quella pluralità di eventi che si sono incrociati nella Germania del primo dopoguerra e che hanno determinato una svolta autoritaria certamente non voluta dal popolo tedesco, almeno nelle forme che avrebbe preso immediatamente dopo la nomina di Hitler a cancelliere e, con la morte di Hindenburg, la sua definitiva consacrazione a “condottiero” unico della nazione tedesca.
Quando i marxisti del ‘900 si interrogano su come il capitalismo possa accettare il “potere carismatico” di un Hitler, lo fanno perché rispondono ad una logica tanto politica quanto economica: secondo la visione ormai paradigmatica dei rapporti di classe, il capitalista si associa ad altri e determina le condizioni di funzionamento di un regime politico. Non ne può subire i dicktat.
Ad una prima vista, potrebbe sembrare che Hitler avesse un diretto controllo su tutto ciò che riguardava la vita della Germania dal 1933 in avanti: in realtà, dopo aver esercitato il suo carisma nei comizi elettorali e aver raggiunto – anche grazie a ciò – il potere, il cancelliere nazista governa al pari degli altri suoi predecessori. Con alcune differenze sostanziali: un Reichstag praticamente privo di opposizione, la fine dell’autonomia dei Lander, la centralizzazione forzata di tutti gli uffici dello Stato a cui non c’è bisogno che arrivino ordini scritti per adeguarsi alle politiche del governo.
Basta una frase di Hitler, un suo discorso pubblico per dettare la linea all’intero Paese e fare sì che ognuno in Germania “lavori incontro al Führer“. Il clima di terrore e di repressione induce, ovviamente, a non deviare dalle direttive del cancelliere, del partito e anche dagli articoli del “Völkischer Beobachter” (“Osservatore popolare”, praticamente l’organo ufficiale dell’NSDAP): tutto si tiene perché i grandi capitalisti hanno la garanzia dal regime di un sostegno all’iniziativa privata in economia, mentre la statalizzazione arriva fino ai cancelli delle fabbriche ma non li oltrepassa mai. La direzione delle costruzioni infrastrutturali, dei servizi sociali e di ogni altro ambito che riguardi il rapporto tra potere politico e popolo è dettata dal regime: ai padroni rimane (se così si può dire…) la cogestione di una società di cui non devono preoccuparsi in quanto a scioperi, rivoluzioni o sovversioni.
Il nazismo garantisce agli imprenditori della Ruhr e di ogni altra zona industrializzata della Germania la piena collaborazione e il mutuo sostegno. Il “potere carismatico” non cessa per questo, però, di esistere: anche quando il regime è consolidato (negli anni dal ’35 in poi), il quadriumvirato che si muove attorno al dittatore (Himmler, Goebbels, Bormann, Goering) sa molto bene il culto della personalità non va alleggerito e che è una delle pietre angolari su cui si regge il Terzo Reich.
Praticamente il “potere assoluto” di un sovrano come Carlo V o come Luigi XIV, nella Germania nazista non ha ragione d’essere per via divina o per volontà della nazione, ma grazie alla predestinazione del destino: una sorta di religione laica, altrettanto imperscrutabile quanto quella dogmatica della tradizione, che regala al condottiero la missione di una vita cui sarebbe in qualche modo stato affidato. Il carisma va oltre la capacità di espressione, diventa costituzione morale per ogni nazista che voglia emergere, fare carriera nei meandri dello nuovo Stato. Ma è ben chiaro a tutti che nessun ordine può essere dato se va oltre la volontà del Führer.
Dalla Conferenza di Wansee fino alla costruzione dell’universo concentrazionario, dalla firma di Goering sull’ordine della “soluzione finale del problema ebraico” fino alla distruzione di tutte le infrastrutture ordinata a Speer per fare terra bruciata tanto ad oriente quanto ad occidente, durante l’avanzata sovietica ed alleata, non vi è volontà che prescinda da quella di Hitler. Tutto è fatto seguendo la sua visione politica, sociale ed economica.
Nessuno può prescindere dal “carisma” del tiranno nel contesto in cui lo vive e che deve necessariamente replicare. Ma nessuno può pensare che la tragedia del nazismo, dei fascismi e della Seconda guerra mondiale sia risolvibile nell’attribuirla alla sola megalomania del Führer. Perché dall’assolutismo seicentesco siamo passati al totalitarismo novecentesco, giustificato ed accettato dal capitalismo che ne ha sfruttato tutte le distruttive potenzialità. Un salto di squalificazione umana che va studiato sempre più a fondo per entrare in quell’enigma del consenso che portò un imbianchino austriaco al centro del più grande dramma della storia dell’umanità.
MARCO SFERINI