Siccome le proposte più risolutive, riguardo problematiche non di non poco conto come l’attuale pandemia, sono anche quelle più difficili da concretizzare nella realtà dei fatti, ne consegue che ci si debba affidare alla complicazione e aumentare i disagi dei cittadini per obbedire alla incontro perpendicolarmente necessario tra economia di mercato e politica rappresentante questo regime di rapporti anche (anti)sociali.

Proviamo a spiegarci: AstraZeneca annuncia un dimezzamento delle dosi dei vaccini da consegnare ai paesi dell’Unione Europea, non rispettando così i contratti sottoscritti sia con la Commissione di Ursula von der Leyen sia con i governi nazionali. Per l’Italia significa passare da oltre 22 milioni di vaccini nel periodo primaverile ad appena 11 milioni. Tradotto in altri termini, per 5 milioni di italiani si allunga l’attesa di avere la protezione dal Covid-19 di almeno una stagione. Se ne riparlerà in estate, dunque.

Ma le regole del mercato vorrebbero che, se una azienda non rispetta i patti, quindi i contratti, debba pagare delle penalizzazioni in merito, oppure riequilibrare il danno con una compensazione adeguata anche materiale. Sarà fatto, forse sì, forse no. Spetterà al governo seguire la vicenda e cercare di difendere al meglio la salute della popolazione, ma intanto il virus detta l’agenda quotidiana delle nostre vite, le spinge oltre ogni ragionevole dubbio, illusione e speranza di poter concludere entro quest’anno il biennio pandemico.

Troppe categorie sociali sono in pericolo, allo stremo delle forze, prive di qualunque garanzia che permetta loro di traguardarsi ancora per mesi e mesi confidando nell’arrivo di quei ristori economici che non sono solo un problema italiano, visto anche in Germania, emblema di efficienza, puntualità, rigore e precisione, sia i lavoratori dipendenti sia le categorie di esercenti più colpite e molti altri settori sociali di non certo secondaria importanza, la grande domanda di aiuti ha mandato in tilt gli ingranaggi burocratici prussiani e rallentato molto le sovvenzioni e i sostegni statali.

Dunque, non si tratta – come del resto ci eravamo già accorti lo scorso anno – di un problema esclusivamente italiano, visto che la pandemia, in quanto tale, è globale e non risparmia nessun paese al mondo: può espandersi per onde concentriche e caratterizzare prima alcune aree del pianeta, alcuni paesi europei rispetto ad altri, ma dalla diffusione del coronavirus alla comparsa delle varianti inglese, sudafricana e brasiliana, ogni fenomeno nuovo non può dirsi inconoscibile da parte di qualche Stato, di qualche regione, di qualche singolo dipartimento, contea, provincia o comune.

Le soluzioni semplici, si diceva, vi sarebbero ma per metterle in pratica servirebbe rompere l’incontro delle vie perpendicolari tra profitto e politica, rovesciando veramente rivoluzionariamente alcuni dogmi del mercato capitalistico e del liberismo: ciò che salva la vita, a prescindere dall’evento che riguarda l’umanità intera, dovrebbe essere patrimonio comune, bene comune, quindi escluso dalla possibilità di essere fonte di guadagno, di accumulazione di capitali, di generazione della concorrenza e di attivazione del meccanismo di accaparramento che gli Stati più ricchi possono permettersi, mentre quelli poveri devono attendere come al solito le briciole. Per ultimi.

Se poi a tutto questo si aggiungo anche ragioni (geo)politiche di lungo corso, ecco che gli israeliani sono praticamente tutti vaccinati mentre ai palestinesi viene impedito in qualunque modo di avere lo stesso diritto alla cura e alla salute.

La Russia ha inviato alcune migliaia di dosi dello “Sputnik V” in Cisgiordania e a Gaza: un soccorso strategico-politico, una guerra di posizione che si fa anche tramite fiale, siringhe ed antidoti contro il Covid-19, a favore e contro una popolazione stremata dalla prigionia a cielo aperto, dai muri che la circondano, dalle colonizzazioni che avanzano e tolgono sempre più terra a chi ne ha diritto. Israele è per la comunità internazionale un “paese occupante” e dovrebbe farsi carico dell’assistenza sanitaria agli oltre 5 milioni di palestinesi che sottomette alla sua sovranità. Invece accade l’esatto contrario. Il vaccino diviene un’arma politica oltre che economica, mentre dovrebbe essere soltanto un presidio medico, una cura preventiva.

Stati Uniti, Regno Unito, alcuni paesi europei, Russia, Cina e Israele si sono autogestiti sul piano vaccinale in questa crisi globale, garantendosi una tutela dal Covid-19 così più che sufficiente da replicare il grafico della “coppa di champagne“, che simboleggia l’enorme differenza tra ricchi e poveri nell’intero globo terracqueo. Siccome l’Italia è tra i sette grandi paesi del mondo, è nel G20 e fa parte di tutti i più grandi consessi di potere economico, politico e militare (la NATO, tanto per non dimenticarcelo…), è evidente che ha sviluppato industrie capaci di produrre sul piano farmaceutico vaccini e medicine al pari delle nazioni appena citate.

Perché allora Pfizer, AstraZeneca ed altre industrie come Johnson&Johnson non rilasciano le licenze al nostro Paese per poter far produrre da stabilimenti italiani gli stessi vaccini? Non si tratta dell’ignominiosa, orrorifica e tremenda proposta di fare dei vaccini quel bene comune dell’umanità e abolirne la commercializzazione, ma, molto più moderatamente e riformisticamente, di permettere anche al Bel Paese di gestirne parte della produzione e magari metterla a disposizione, qualora eccedesse nel soddisfacimento della domanda, anche di altri Stati e popoli di qualunque continente.

Cuba, stretta nella morsa dell’embargo “Helms – Burton“, ha sviluppato da sola il proprio vaccino “Soberana” e per sostenere la propria economia, fondata prevalentemente sul turismo, lo distribuirà gratuitamente anche a chi arriverà nell’Isla rebelde, oltre ovviamente a tutta la popolazione. Un “vaccino del popolo“, considerato per l’appunto una proprietà sociale e non una merce da scambiare sulla pelle di milioni di persone, mettendo avanti alla preservazione della salute l’aumento dei dividendi di qualche multinazionale, come accade nel “civile” Occidente capitalistico.

L’Italia non è Cuba, purtroppo, e quindi ciò cui si può realisticamente (e impietosamente) aspirare è l’avvio di un processo di produzione dei vaccini delocalizzato in ogni Stato che abbia la possibilità di sostenerlo, così da incentivare al massimo le campagne di immunizzazione (parziale e non permanente) dal virus e intanto ridare fiato ad una economia continentale che farà anche ricorso al Recovery Fund, ma che si ritroverà indebitata per generazioni con le banche internazionali, prima fra tutte la BCE, per cui spetteranno anche all’Italia anni e anni di restituzione dei debiti fatte con i consueti tagli alla spesa sociale.

Questa disastrosa economia liberista non è in grado di garantire nulla: né la sicurezza sociale né tanto meno la salute dei cittadini. Il suo sguardo è soltanto rivolto all’eccellenza scientifica piegata alla brutale necessità dell’accumulazione capitalistica. Una ricerca medica mortificata, come ogni altro settore che riguarda lo sviluppo locale e globale, che non può liberarsi come vorrebbe, avere le risorse di cui necessiterebbe per salvare sempre più vite ed essere veramente pienamente aderente alla sua essenza, alla sua missione.

Le risposte semplici ci sono: dalla patrimoniale alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; dal ritorno ad una sanità completamente pubblica e gestita direttamente dallo Stato senza le differenziazioni regionaliste basate sul censo dei territori all’abolizione della brevettabilità di tanti medicinali. Ma per fare questo ci vorrebbero al governo almeno dei socialisti veri, una coscienza popolare che li sostenga e un mondo del lavoro che abbia la consapevolezza del proprio sfruttamento.

In mancanza di tutto ciò, Mario Draghi e le grandi multinazionali della farmaceutica sapranno come fare per garantire al meglio la stabilità dei mercati e di sé stesse. E se qualcuno morirà perché i vaccini saranno arrivati troppo tardi… beh… è la logica del mercato, la “modernità“. Mica vorrete essere così vetero da contestarla.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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