A pelle, così, d’impatto, sembra sempre più un governo impersonale ma non impolitico e tutt’altro che anti-tecnico. La fisionomia inesistente del Presidente del Consiglio che non si mostra alle televisioni, che non rilascia dichiarazioni se non per l’interposizione della segreteria di Palazzo Chigi, fa pensare ai ministri come a tanti Ichabod Crane costretti a raffrontarsi con quel cavaliere fantasma e senza testa, forse originario dell’Assia, che compariva proprio alla ricerca del capo staccatogli dal collo da un colpo di cannone.

La “Leggenda di Sleepy Hollow” di Washington Irving bene si attaglia, come metafora, alla percezione che si ha dell’attuale governo. Intendiamoci, soltanto per quanto riguarda l’invisibilità, la fantasmogoricità del cavaliere (e non stiamo parlando di un vecchio cavaliere nero di Arcore…) che sembra non mostrare mai il suo volto e mandare avanti i propri ministri in conferenze stampa dove, invece, eravamo abituati a vedere spiegate le norme dei DPCM dal Presidente del Consiglio stesso.

Anche l’ambientazione un po’ gotica e tenebrosa del racconto si avvicina ai tempi bui del biennio pandemico in cui viviamo: non si intravede al momento un’uscita dal caleidoscopio di tinte che dipinge le province d’Italia ora di questo, ora di quel colore. Le restrizioni stanno aumentando, ma Mario Draghi non intende – al momento – stabilire un contatto diretto con la popolazione e, come ormai sanno un poco tutti, vale per lui la frase emblematica, simbolo del suo agire politico da tecnico: «Lascia parlare i fatti».

Difficile poter contestare che i fatti non parlino. Anzi. La stretta sulla scuola, ad esempio, parla ed anche molto: ottiene le prime pagine di tutti i quotidiani e, se non fosse che le varianti del virus si diffondono veramente molto rapidamente (il caso dell’Emilia Romagna è negativamente eccellente in questo senso), parrebbe davvero eccessivo questo accanimento nei confronti del primo luogo di crescita di una cittadinanza (ci si augura) consapevole del proprio ruolo nella società: culturale, sociale, politico e morale.

Ma, se i fatti devono parlare, anche ai fatti che devono far parlare altri fatti stessi ci si deve per forza attenere: nomina sunt consequentia rerum, osservavano caparbiamente gli antichi nostri progenitori. La chiusura delle scuole è il nome che prende l’effetto dovuto ad una causa incontestabile, ammesso che non si voglia – come fanno ambienti negazionisti e riduzionisti del Covid-19 – negare che gli studi dell’Istituto Superiore di Sanità siano parte del complotto del Deep State satanista per eliminare una parte della popolazione mondiale.

Ci dicono questi studi accurati che, nell’ultimo mese (dall’8 febbraio ad oggi), proprio nella fascia d’età tra i 10 e 19 anni si registra il maggior numero di incidenza del virus, di aumento esponenziale dei casi. Tornando in Emilia Romagna, nello specifico a Bologna, l’aumento è – rispetto all’inizio dell’anno – del 70%. Si parlasse di salari, se ne potrebbe essere ultracontenti; invece si tratta di oltre 6.000 giovani che hanno preso il coronavirus a scuola e rischiano di trasmetterlo alle loro famiglie.

La nomina di un generale a commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 è un allontanamento ulteriore della politica da sé stessa, obbligata ad accettare il militare nell’ambito civile, la risoluzione imperativa e il decisionismo, dal tono muscolare, dentro una condizione drammatica, che viene così alzata di livello, elevata oltre la dialettica democratica. Non c’è tempo per discutere, bisogna agire… Ma il prezzo da pagare sembra sempre troppo alto. Tutto è giustificato dalla velocità con cui il virus si diffonde, dalla lunghezza dei tempi della pandemia, che si dilatano e includono il paradosso della virulenza del patogeno.

L’Unione Europea ha mantenuto il controllo economico della gestione delle risorse ma ha perso quello di gestione dell’acquisto e distribuzione dei vaccini. Le cosiddette “difficoltà di produzione” sono per lo più legate al motore della concorrenza che va a pieni giri: gli Stati europei si muovono unilateralmente e stabiliscono accordi con la Russia, con Israele per ottenere quelle dosi di vaccini che l’Ema non approva ancora. Ne va della stabilità politica degli esecutivi, del consenso elettorale del domani, sulla pelle di tanti altri popoli che non hanno le possibilità economiche di Austria, Germania, Danimarca, di potersi approvvigionare mediante canali privilegiati ricompensati anche mediante riconoscimenti diplomatici.

Il governo Draghi si muove in questo scenario di incertezze internazionali e si blinda attraverso l’impersonalità che gioca tra il politico e il tecnico, l’afasia comunicativa: poche parole per comunicare solo “i fatti“. Ogni altra domanda è vana… Una disciplina rigida cui i ministri si attengono: sono diminuite, infatti le presenze televisive, le comparsate accanto ai virologi e la parola sembra averla ripresa di più l’asse tra giornalismo di inchiesta e descrizione medica degli eventi. Almeno questo, da un certo punto di vista, potrebbe essere positivo: se non fosse che, nuovamente, è proprio la polemica politica a venire meno. Per quanto sconveniente possa sembrare parlare di “lotta” delle parole oggi, di incrocio dei pensieri e delle ipotesi, si tratta di un impoverimento cui non si può assistere acriticamente.

I fatti, dunque, sono questi. E Draghi, che li esibisce come traccia costituente della sua politica governativa, non può nemmeno sfuggirvi: per questo il ricorso al DPCM, piuttosto che ad un decreto del governo che segua l’iter parlamentare, è la via più veloce per stabilire le regole di base fino a dopo Pasqua. Misurare la discontinuità tra il Conte bis e il governo attuale sulla base dell’utilizzo della decretazione presidenziale emergenziale sarebbe ingeneroso. Soprattutto nei confronti di Giuseppe Conte, il cui ricorso ai DPCM è stato giustamente stigmatizzato più per il gran quantitativo di cambiamenti repentini e dell’ultim’ora che per l’utilizzo del mezzo stesso di intervento nella prima e seconda fase pandemica.

Mario Draghi sembra Augusto (con tutte le dovute e debite eccezioni temporali, statuarie e storico-attualistiche): mantiene le sembianze politiche di un governo che invece è molto tecnocratico e sfugge persino alla ritualità del confronto con la stampa, con i giornalisti. Le ultime parole che abbiamo ascoltato dalla sua voce risalgono alla presentazione del programma di governo al Senato, nemmeno replicato alla Camera dei Deputati.

Stile, si dirà. Tattica, si potrà dire. Strategia. Forse. Ma se ciò che conta davvero sono i fatti, Draghi non tarderà a farli, mantenendo la misura della praticamente inesistente esposizione mediatica come chiave di volta di un evitamento delle litigiosità interne (ed esternabilissime) ad una maggioranza tanto ampia quanto disomogenea sulle forme della rappresentanza dei grandi interessi economici, ma ben salda nel condividere i princìpi ispiratori del liberismo che unisce tutto il governo.

Lo ha ribadito molto alacremente Graziano Del Rio, nel corso di una intervista su Rai News 24, rivendicando con grande piacere la perfetta identità di vedute con Draghi e la assoluta sovrapponibilità di quanto programmaticamente chiedeva il PD da tempo e di quanto l’ex governatore della BCE si è impegnato a fare, consegnando al Parlamento le sue linee guida in politica tanto interna quanto estera. Nessuna forza politica della maggioranza ha motivo di lamentarsi: la spartizione dei ministeri prima e le designazioni dei sottosegretari poi, fanno capire che Draghi non ha intenzione di scontentare nessuno, che accetta consigli, ispirazioni, che vuole creare quel clima di collaborazione fattiva che gli sta a cuore per far approvare le misure economiche che saranno il cuore del suo mandato.

Un mandato internazionalmente apprezzato che, dunque, in patria deve elevare il suo indice di autorevolezza prima di tutto tra i partiti e i diretti loro rappresentanti di segreteria; in secondo luogo presso una popolazione esausta dalla pandemia, che inizia a titubare in merito alle virtù benefiche della cornucopia draghiana, fonte di ogni magnifica soluzione ai problemi del Paese e che, pertanto, è meglio abituare a dimenticare che la politica si fa con le dichiarazioni che non sono seguite poi dai fatti concreti.

Parlino i fatti. Qui la discontinuità con il Conte bis è pressoché totale: la polifonia incomprensibile dell’intreccio di dichiarazioni dei leader della vecchia maggioranza, sovente oscurante la linea unitaria del governo, vanificava aspetti importanti nell’applicazione delle norme emergenziali. Con il dirigismo impersonale di Draghi tutto questo resterà un ricordo del recente passato. Ma si tratta di piccoli aggiustamenti formali che, tuttavia, hanno la loro importanza perché pongono su uno scalino più alto il governante dal governato, il capo del governo dai suoi ministri e tutto il governo dal resto della popolazione.

Così governava Augusto: mantenendo la parvenza che a Roma nessuno potesse essere un re, ma divenendo lui, a poco a poco, qualcosa di ben più di un re etrusco vissuto cinque, sei secoli prima. Il “primus inter pares“, il “princeps“, una figura nuova nella politica dello Stato romano che andava assumendo le caratteristiche di un vera monarchia pur sembrando ancora formalmente, per tradizione scientemente conservata, una repubblica. Draghi non è Augusto, non è un fondatore di principati e non è nemmeno un “sovranista“, essendo il campione dell’europesimo più estremo in salsa bancaria e liberista.

Ma la novità rappresentata dal suo governo, a metà tra il tecnico e il politico, è un segno di indubbia discontinuità nel rapporto tra ragion di Stato e ragione economica, tra bene comune e privilegio bancario e finanziario. Europa e campo atlantico, interni sovranazionali ed esteri che guardano oltre oceano, al rapporto diretto con quella Washington restituita alla guida, rassicurante per i mercati, dei democratici a stelle e strisce.

La perfetta identità di vedute per i cosiddetti “progressisti” e moderati di casa nostra con quelli americani non fa, anche in questo caso, una grinza. Nel più totale, accondiscendente silenzio draghiano.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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