I contenuti del «Piano Draghi» non sono noti al pubblico, così come la maggiore o minore discontinuità dalla versione del precedente governo. Sappiamo però che entrambi i programmi sono stati elaborati nel chiuso delle stanze ministeriali dai rispettivi referenti politici, attingendo a comitati di esperti, ascoltando le burocrazie centrali e, molto probabilmente, i corpi intermedi più «vicini».

La voce degli innovatori ai margini dei centri di potere e la progettualità delle organizzazioni di cittadinanza attiva, invece, sembra essere rimasta fuori dalla formulazione del più importante investimento che il paese sta facendo sul suo futuro.

In questo scenario, nella mattinata di sabato, la notizia del ricorso alla consulenza della McKinsey ha suscitato una serie di reazioni preoccupate. A poche ore di distanza, il ministero dell’economia ha reso noto che il contratto con la McKinsey è pari 25mila euro, una cifra irrisoria e che non prevede nessun intervento strutturale sui contenuti. La commessa riguarda un’analisi di benchmark sui piani degli altri paesi Ue e un supporto tecnico-operativo per il project management. In buona sostanza, un’occasione di stage per un paio di neo-laureati e poco più di qualche giornata di lavoro di un progettista senior. Non c’è da dubitarne, la posta in gioco è troppo grande: Draghi deve presidiare gli equilibri interni al suo governo e non può permettersi di appaltare le scelte sull’uso dei fondi europei a una società di consulenza.

Il ruolo della multinazionale riguarda la legittimazione esterna del piano verso gli attori del campo organizzativo. Allineare il linguaggio e la struttura del programma ai codici della Commissione europea, alle sue metriche e convenzioni di qualità. È quello che i sociologi definiscono isomorfismo: per acquisire legittimità devi adottare le pratiche invalse in quel campo. Le organizzazioni operano in contesti pregni di normative, logiche d’azione giuste e criteri di razionalità adatti ai quali devono adeguarsi per poter essere giudicate efficienti. Per semplificare, è un po’ come dire che se vuoi lavorare nell’alta finanza, allora devi frequentare «quelle» scuole di business e management. Nel caso del nostro paese, sotto i riflettori della Commissione, l’attenzione agli aspetti formali acquisisce un’importanza ancora più saliente. Il Piano ha bisogno di quel misto tra managerialismo e burocratese che formatta tutto in un piatto paesaggio senza rilievi.

L’isomorfismo è il risultato di diversi tipi di pressione in azione in un dato campo: si imitano i migliori, si aderisce alle norme, ci si adatta ai rapporti di potere, si usano le parole chiave degli stessi consulenti. Le pratiche adottate, in ogni caso, non riguardano l’efficacia o l’efficienza, ma la legittimazione politico-simbolica e l’accesso a reti e risorse. Sta qui il lavoro di una società di consulenza: omologare i contenuti nel linguaggio e nel metodo richiesto dalla Commissione europea. Vedremo slides colorate con infografiche accattivanti che descriveranno obiettivi, azioni e attività operative. Una presentazione che darà l’impressione di ordine e linearità, occultando i problemi attuativi e il ruolo che dovrà svolgere la pubblica amministrazione. Come anche il potenziale inespresso dei saperi non ascoltati, esautorati dal processo decisionale. Un’opera di de-politicizzazione del Next Generation Eu, quasi si trattasse solo di una grande operazione tecnica.

L’esatto contrario di quanto sarebbe invece cruciale e ci si attendeva dal nuovo governo: un dibattito politico, trasparente, diffuso e anche acceso. Se 25mila euro non giustificano più che un ruolo di formattazione, va anche detto che per McKinsey si tratta di un buon investimento. Anzitutto, si tratta di una decorazione da appendere nel palmares: un’altra medaglietta di un altro governo da appuntarsi nel corso della pandemia. Inoltre, questo ruolo permetterà alla multinazionale della consulenza di costruire capitale relazionale e acquisire informazioni, da mettere a frutto nella fase attuativa. Quando ci sarà da incassare cifre consistenti per il monitoraggio e la valutazione. E chi meglio del consulente che ha predisposto lo schema di riferimento potrà svolgere questo ruolo?

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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