L’ispirazione ordinovista del partito come parte della classe operaia e non sovrapposto a essa e di un partito e uno Stato non dominanti sopra la società bensì fondati sui poteri dal basso della base e del sociale, che continuerà a operare nel profondo in Gramsci e con Togliatti, Longo e Berlinguer.
Bisogna essere stato anzitutto operaio e soltanto poi, solo dopo aver studiato – la storia, l’economia politica e il diritto dal ’600 ai giorni nostri (che Reggiolini comunista coltissimo e segretario Cgil ci faceva studiare in fabbrica), e anche dopo aver assimilato la critica marxiana all’economia e allo Stato capitalistici, letto Marx, Engels, Lenin e Gramsci, cioè dopo aver potuto unire la teoria e la prassi propria dell’operaio, cioè del lavoro entro la specificità dell’organizzazione capitalistica del lavoro ed essere, dunque, forse diventato anche “intellettuale organico” della classe operaia, – si può allora comprendere a fondo l’effetto che fa sulla propria pelle, leggere, su “L’Ordine Nuovo”, le parole di Gramsci che descrivono esattamente quello che anch’io, come altri, facevo da operaio quindicenne. “L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il partito, per il sindacato, per la cooperativa è, dal punto vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo e dell’artigiano” che vivevano nelle catacombe ed erano disposti anche a sfidare il pericolo di farsi sbranare dai leoni “per recarsi al convegno clandestino della preghiera” (A. Gramsci, Il partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre 1920, in Scritti politici, Ed. Riuniti).
Iscritti soltanto alla Cgil, eravamo di fatto già comunisti, ma prima ancora di iscriverci al Pci e di compiere i sedici anni, ero stato candidato ed eletto nella Commissione interna della grande fabbrica di oltre 3.000 operai: risultammo eletti in tre della Cgil, uno della Uil e uno della Cisl che essendo della mia stessa officina era dedito e incaricato a spiare tutto ciò che facevo e a riferire alla direzione, che, abusando di ciò, prima mi demansionò (il demansionamento non era codificato come lo è oggi ma esisteva di fatto) e successivamente tentò di licenziarmi, senza riuscirci solo perché la Cgil e gli operai fecero muro in mia difesa.
L’iscrizione al partito, che non era ancora stata avvertita come un’esigenza, divenne una aspirazione e un bisogno di lì a poco, quando alcuni attivisti del Pci, vennero a distribuire ai cancelli – come facevano quasi ogni giorno – un pezzo di propaganda, un vero e proprio giornale di sedici pagine, con la centro un disegno di Fernand Léger titolato “I costruttori” (dal significato opposto al banderuolismo che Balzac descrive in I piccoli borghesi, ma che oggi lo si mistifica chiamando “costruttori” i voltagabanna). Tale giornale “I costruttori” era adornato con due manchette, e con le scritte, una sopra e l’altro in fondo, “cammina con i tempi”, “vieni con noi” e “diventa comunista”. Ci fecero capire l’importanza di essere comunisti “iscritti” al Pci, le testimonianze di alcuni semplici militanti; uno scritto di Giuseppe Di Vittorio: “Non sarei nulla senza il movimento operaio e il partito comunista”, i dati sul contributo dei comunisti alla Resistenza. Ma soprattutto la poesia sul partito di Bertolt Brecht, posta in lungo, dall’alto in basso su tutta l’ultima pagina di copertina, dove tra l’altro in un rigo diceva “dove tu sei stato attaccato / la esso (il partito) combatte”, e io ero sotto attacco da parte di capi, capetti e padrone…
Da operai a sindacalisti comunisti, a militanti e intellettuali organici del Pci, dunque. Era anche o soprattutto così che ci si iscriveva e si diventava comunista e del Pci: come per sentirci parte della storia, dell’Italia e dei comunisti, per parteciparvi nel farla … stando assieme, fianco a fianco di chi già l’aveva fatta nei decenni precedenti, nei ’60, ’50 e ’40 anni; nella fase costituente della Repubblica e della Costituzione, nella clandestinità, negli anni della formazione del Partito comunista e del gruppo dirigente, dalla fondazione di Livorno al Congresso di Lione, sempre nel fuoco delle vicende e delle lotte reali, civili, politiche ed economiche, negli anni in cui il fascismo organizza la sua dittatura, e fino soprattutto a Torino, negli anni de “L’Ordine Nuovo” di Gramsci, Togliatti, Terracini…
In ogni operaio iscritto al Pci, io credo, c’è sempre stato questo senso di appartenenza alla storia, di essere dalla parte della storia, portando a vedere e ad analizzare i fatti sempre nell’ottica dell’analisi della storia precedente e in quella della prospettiva storica futura. Un senso di appartenenza alla storia che – senza generalizzare né dare giudizi morali – forse o probabilmente, non era e non è mai stata di chi viveva, visse in altri partiti o da comunisti esterni al Pci o comunque non nella misura in cui la vivevano (e la vivono ancora oggi che non c’è più il partito) chi era parte integrante e “costitutiva” del Pci. Per capire il Pci bisogna saper leggere le storie dei militanti, come le abbiamo composte a Varese in: Racconti di militanti del Pci – Testimonianze dirette di un vissuto di vita collettiva. Leggendo e presentando questo libro, d’Albergo ha osservato: “Per capire l’oggi occorre partire dalla rilettura dei processi reali come quelle che ci permette di fare questo libro … non è facile cambiare posizione e riscrivere la storia come oggi capita spesso, se si leggono retroattivamente le cose … in tutte le provincie dovrebbero rendere la storia del Pci con testimonianze dei militanti … non solo dei dirigenti … noto che nessuno ha mai fatto faccia riferimento all’Unione Sovietica, anzi non campare nemmeno il nome nelle 800 pagine del libro … mi ha colpito molto la sottolineatura da parte di tutti di essere “persone impegnate a ’tempo pieno’”, che è la vera qualifica per individuare come il “partito nuovo”, potesse avviare un tipo di processo assolutamente inedito della storia italiana sociale e politica. Tenuto conto che si trattava di aprire una storia che non era riuscita ad affermarsi negli anni ’19-’22: non dimentichiamo questo”. (S. d’Albergo).
Dunque: senso di appartenenza alla storia e di essere comunista in Italia, di questo dovrebbero tenere conto tutti coloro che non hanno vissuto la militanza operaia e interna al Pci.
Sicché, per es., nella conferma pratica del parallelo – sopra citato – tracciato da Gramsci in Il partito comunista, tra “i militanti per la Città di Dio e i militanti per la Città dell’Uomo”, trovava altresì fondamento ai miei occhi l’altra tesi di Gramsci, secondo cui “i popolari “(la Dc di allora) “rappresentavano una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo” (“L’Ordine Nuovo”, 1 novembre 1919), che di certo non sta a giustificare alcuna forma di fusione con essi, ma bensì di comprendere sempre nella propria visione e strategia comunista l’importanza fondamentale della classe operaia e anche della masse cattoliche…
Questo mi sovviene dopo aver letto quanto scritto dall’ex amico ed ex compagno, Paolo Franchi, col quale, per due anni, nel 1971 e ’72, fummo insieme nella Segreteria Nazionale della Fgci, che sul Corriere della Sera, pur di certo sapendo essere una mistificazione, ha asserito che Berlinguer non avrebbe fatto altro che “seguire le orme del riformista Turati”, che nel 1924 aveva proposto un’alleanza al Partito Popolare. Forse però l’ex amico e ex compagno Franchi, in carriera ormai da decenni nella stampa borghese, avrebbe dovuto ricordare che Turati andava proponendo alleanze a destra e a manca, tanto che propose un patto di pacificazione persino a Mussolini. Le mezze verità esulano dalla realtà, diceva un certo Hegel.
A questo però il Franchi ha saputo aggiungere che, però, essendo fallita la strada riformista del 1973 indicata da Turati, allora Berlinguer nel ’79 “è stato pronto a invocare la combattività delle masse”, così che “si ritrovò a seguire la strada del vecchio massimalismo”, cioè di Serrati. Questo l’esemplare modo di fare storia comune a tutti gli ex-post-anti-comunisti.
Dunque, si può forse dire che è anche in forza della perdita del senso della storia, del non saper più collocare i fatti nella giusta prospettiva storica, appiattendo il tutto su un passato remoto, che, abbandonando la via della democrazia progressiva, gli ex comunisti, la “sinistra” postcomunista e tutti i partiti sono tornati a somigliare a quelli del prefascismo riportando il paese e la politica a una similfase prefascista: quando cioè, come oggi, tanta parte del corpo elettorale non votava o partecipava alla politica solo al momento del voto, era frantumato in un ventaglio di clientele e disponeva di debolissimi strumenti per controllare ciò che facevano i partiti e i “notabili” locali, fossero essi conservatori, o liberali o liberaldemocratici, riformisti o massimalisti. Quando imperava il parlamentarismo e il trasformismo come norma di partiti non di massa ma solo parlamentari e di notabilato politico e lo stesso metodo elettorale non era proporzionale (salvo, da ultimo, una brevissima e ridotta applicazione). E anche i movimenti che avevano una base più estesa – quello socialisti e quello cattolico – apparivano come forze minoritarie e prive di una presenza omogenea su tutto il territorio del paese.
Del resto, cosa c’è di meglio per borghesi, intellettuali, giornalisti politicanti e a seguire gli ex-post-anti-comunisti o gli ex extraparlamentari anti-Pci, che celebrare i 100 anni dalla fondazione del Pci, cancellando l’intera storia e la storia dei comunisti, vale a dire appiattendo l’intera storia, compresa quella degli anni ’70 e del Pci di Berlinguer, sulla storia degli anni ’20 e dei socialisti prefascisti che, guarda caso, essendo divisi in riformisti e massimalisti, si prestano come modello che permette di appiattire Berlinguer su entrambe le vetero versioni del vecchio Psi. Così che Berlinguer e il Pci una volta sono riformisti e un’altra sono massimalisti. In mezzo, tra il Psi prefascista e gli anni ’20 dello Stato autoritario liberale, e il Pci postfascista della Costituzione e della Repubblica democratica e degli anni ’70-’80, per i vari banderuolisti e anti-Pci non c’è nulla, la storia non esiste: è ferma, cristallizzata, condannata a ripetere sé stessa, anche nella sua varie sfumature degli anni ’20. Però, in mezzo e in calce a ciò che recita il Franchi, il Corriere ci piazza il titolo: Togliatti socialtraditore, con tanto di sottotitolo: “Paolo Franchi: il Pci dopo la guerra finì per seguire le orme del riformista Turati… ma coglie anche risvolti «massimalisti» dell’ultimo Berlinguer” (sic).
Questo è il modo con cui molti, da destra e da sinistra, fanno storia, dove, in pratica, la storia viene fatta ricalcando su veline il passato sul presente. Secondo tali mistificazioni, dopo Turati e il Psi, sostanzialmente, non c’è più stata alcuna altra storia, né dell’Italia né del Pci: non c’è stato Gramsci, né Togliatti, né la Resistenza, né la fase costituente dei partiti e dei movimenti fondatori della democrazia e della Repubblica, né la Costituzione. Ma soprattutto, praticamente, non ci sarebbe stata nemmeno la vera svolta storica rispetto al prefascismo, cioè: la formazione dei partiti sociali di massa né soprattutto quello che è stato il più grande e più forte partito comunista non solo dell’Occidente, il più grande partito di classe e di massa, il più articolato e più socialmente insediato in ogni ganglio della società, quale mai è stato o potuto essere nessun altro partito sia prefascista che postfascista, sia socialista o socialdemocratico, o anche comunista del Pianeta. Un partito tale e dalle uniche caratteristiche che anche volendolo resterebbe irriducibile a qualsiasi altro e dotato di una tale capacità di penetrazione e identificazione nel popolo e nel paese da costituire – come diceva Pasolini – un altro paese nel paese. L’opposto, dunque, dei Partito-Stato (sovietico, cinese ecc.) essendo un vero Partito-paese o Partito-comunità, come da nostra Costituzione, che i vari Turati e Serrati, socialisti riformisti e massimalisti, neanche avevano mai potuto immaginare che potesse esistere. Un vero capolavoro di Togliatti vero padre fondatore della democrazia, della Repubblica e del diritto dello Stato, sulla base della teoria del partito e dello Stato di Antonio Gramsci. E noi giovani operai, appena iscritti al Pci, discutevamo su in cosa consistesse realmente. Che si trattasse di un “capolavoro” nessun dubbio. C’era chi diceva che consistesse nella indicazione di “aderire a tutte le pieghe della società italiana”, come mai si proposero e tanto meno riuscirono a fare sia i socialisti italiani e i socialdemocratici tedeschi, abbarbicati al presidenzialismo della Repubblica di Weimar e alla verticistica idea del partito “prussiano”, con a capo un “generale” e 4 o 5 “luogotenenti”, quale era per es. il Psi di Craxi a cui il Pci di Berlinguer si è contrapposto con lotte di classe e di massa e rivendicando la propria origine ordinovista e marxista. Ma soprattutto si discuteva su quello che i “Quaderni rossi” e le nascenti elaborazioni e “gruppi” di sinistra, consideravano la creazione di un processo “omeostatico”, che radicava la forza del Pci in una presunta inopzionalità della sua scelta, che forze di destra riducevano alla sciocchezza interpretativa della “doppiezza”. Una definizione, quella della “doppiezza”, volutamente equivoca, che stava a indicare quella che per noi era e resta la traduzione coerente della visione marxista dello Stato, e del rapporto tra struttura e sovrastruttura, da cui deriva la necessità di agire dialetticamente e contestualmente, sia con e nella società sia sul piano istituzionale e con lo Stato. Ed è questo tipo di “doppiezza”, che per es. gli ex anti-Pci come Fassino rimproverano a Berlinguer: di aver mantenuto troppo a lungo “la doppiezza delle sue origini” che nel caso significa delle origini ordinoviste e marxiste del Pci. Incomprensibile che questo non venga compreso da “compagni di strada” e perfino da amici comunisti, quando è proprio per questo che anche il Pci di Berlinguer continuava ad apparire inaccettabile all’avversario, perché continuava a essere tale tipo di partito che era riuscito a diventare collettore di tutte le correnti di opposizione, capace perciò di essere forza determinante delle scelte di governo pur stando e agendo dalla opposizione, senza snaturarsi o allentare la propria origine teorica e sociale di classe. Un partito che ha saputo combinare e mantenere la vocazione rivoluzionaria e proletaria con il ruolo di opposizione sia nel quadro istituzionale che in quello sociale, senza mai trasformarsi in una sorta di “laburismo” o “socialdemocrazia” all’italiana: rimanendo forza di opposizione al sistema anche dall’interno del sistema, senza mai perdersi nelle spire del trasformismo riformistico, né con Togliatti, né con Longo e Berlinguer.
E questo diciamo anche a coloro che talvolta, anche su “La Città Futura” (i compagni Bernardeschi), rispetto soprattutto alla strategia berlingueriana del compromesso istituzionale e costituzionale, l’hanno criticata forse rifacendosi a un marxismo che quasi ignora la teoria marxista dello Stato: un marxismo che assume una visione della transizione e idea quasi escatologica dei rapporti tra capitale e lavoro.
Quando è ormai alquanto chiaro che in tal modo si rischia di favorire il fatto evidente che, cioè, alla borghesia, ai suoi giornali, al Corsera ecc. ecc. non gli basta che un partito come il Pci non ci sia più, bisogna fare in modo che non sia mai esistito e cancellarlo persino dalla memoria che per loro a tutt’oggi continua a essere una specie di guastafeste e quindi sempre pericolosa. Bisogna fargli pagare sia la paura che gli ha fatto provare che la sua chiaroveggenza berlingueriana su cosa sarebbe diventata la democrazia e il paese senza più un tale partito, se fosse venuta meno la sua “diversità” dalla socialdemocrazia. Ecco dunque che una congiura di ammorbati pretende di farlo scomparire dalla storia e dalla memoria non solo dei borghesi ma che di operai e contadini: bisogna che anche loro si comunichino nell’amore santo dell’anticomunismo, dell’ideologia, cancellando anche il solo ricordo di quella “esistenza” e “infatuazione”.
Ovvero che si accontentino finalmente di essere buoni e ricompensati da una placata e remissiva cosiddetta “sinistra”, che appena scomparsi i comunisti è entrata subito in quella inesorabile agonia che, una volta consumato tutto il grasso del lascito del Pci, là collocata nella tomba dove la “sinistra” giace, sepolta ormai da almeno dieci anni al suono delle fanfare del capitale e dei paesi del “blocco storico atlantico”, nel mentre ancora oggi ci sono tanti poveri minchioni che trovano abbia una bella cera. Nonostante che da essa, da tale “sinistra”, derivano ormai revanscismi, fascismi più o meno bianchi, inanità dei partiti tornati a essere solo parlamentaristi, una classe politica ideologicamente omogenea, con l’obiettivo di “stabilizzare”, con il governo di legislatura il partito “unico” al vertice dello Stato, con la società posta in una posizione di statica attesa di future elezioni, una sovranità non più popolare ma di apparati, congerie di partiti gerarchici, burocratici personali, lotta politica ricondotta a scontro di fazioni, esecutivi di governo come unico luogo del potere di iniziativa e della politica, uomini della provvidenza e forme di potere istituzionali che erano dette “nuove” solo durante il ventennio.
I “cento anni” della fondazione del Pci sono anche quelli iniziali del fascismo
Si perde così – a questo serve e necessità cancellare il Pci dalla storia e dalla memoria – l’incidenza di quello che è stato il passaggio storico da una società di tipo “individualista” e “liberale”, a una società di massa fondata sui “partiti” intesi come nomenclatura delle “classi” e quindi classisti o interclassisti, con la conseguenza di tornare a una forma di “partitocrazia” come equivalente – “mutatis mutandis” – del notabilato liberale. Questo, aggravato dal “revirement” teorico che con l’abbandono del sistema elettorale “proporzionale senza sbarramenti” – che è stato l’architrave di un processo di democratizzazione –, consegue una equivalenza tra gli effetti del suffragio censitario, che escludeva i diritti politici del proletariato ottocentesco, e gli effetti che in regime di suffragio universale portano alla progressiva autoesclusione dal voto – con l’astensionismo –, da parte di un elettorato popolare che, non più rappresentato da partiti di classe ed escluso dall’arena politico-istituzionale, rifiuta di dare fiducia a un sistema nel quale i processi di democratizzazione risultano sviliti da parte dei vertici delle formazioni politiche diventate interpreti di un nuovo tipo di trasformismo.
La gravità della condizione attuale è tale da giustificare e sollecitare tutti a ricorre al Gramsci che osservava l’affermarsi del fascismo e che se non viene visto solo come politologo, è in grado di fornire gli strumenti acconci alla analisi del passaggio di fase dal prefascismo al fascismo e a quella rapportabile alla nascita dei partiti organizzati, laddove sottolinea che lo “spirito statale” si può reperire in ogni movimento serio che non sia l’espressione arbitraria di “individualismi” – gli stessi che mutatis mutandis prevalgono oggi come nel prefascismo e fascismo –, contrapponendo perciò lo “spirito di partito” – quale elemento fondamentale dello spirito statale – all’individualismo inteso come “apoliticismo animalesco”, che assume le forme sia del trasformismo che del “settarismo” che è una forma di “clientela personale”, sia dell’“antipartito” o della “negazione dei partiti”, quando cioè – parafrasando Gramsci – “non si è uomini di partito” ma si vuole essere capi di governo “per grazia di dio o dell’imbecillità di chi li segue”! (Q 15, pagg.1752-1755).
Pagine dei Quaderni che sono dense di significato e che mai avrebbero potuto immaginarsi così appropriate non solo alla fase storica in cui Gramsci osservava l’affermarsi del fascismo, ma alla specifica congiuntura politica odierna in cui è maturata – con il concorso determinante di chi poteva riuscire a cancellare il Pci solo agendo dall’interno in combutta con forze occulte e palesi esterne, originando una “sinistra” che ha perduto molto più che la memoria storica (Psi e Pds-PD), la cultura delle cosiddette “riforme istituzionali” nel segno della critica ai partiti sociali di massa che deriva da teorie contrarie al pluralismo e favorevoli all’unità attorno a un governo e al suo capo, e quindi all’autoritarismo se non addirittura al totalitarismo , divenuto prospettabile come non lo era sino a quando avevano una sufficiente tenuta i principi della democrazia sociale (quasi del tutto rimossi).
Sicché verrebbe da dire Santidio come usava Ingrao, a fronte dei sopranominati celebratori dei 100 anni del Pci, tra cui, appunto, il nostro Paolo Franchi che dichiarava di essere un “ingraiano estremista”, quando ancora il Veltroni ci seguiva a pranzo (grazie al fratello anche lui della segreteria nazionale della Fgci) era “comunista estremista” (altro che non è mai stato comunista!), tanto che si rifaceva a un vero comunista e nero come Stokely Carmichael e ad Angela Davis.
Però, soprassedendo per un attimo al proprio banderuolismo è significativo che il Franchi (l’abbiamo preso per esempio utile sia a chiarificare che ad avversare posizioni sostenute anche da compagni e non solo dagli ex), sempre sul Corsera, a un certo punto ammette (bontà sua) che Berlinguer “si spinge più avanti nel rigetto del filosovietismo, ma non intende ripiegare minimamente sulla socialdemocrazia”, anzi continua a battersi per il superamento del capitalismo e a imprimere nel Pci “il connotato della diversità comunista”. Abbiamo preso per esempio un ex come Franchi, perché ci pare utile sia a chiarificare punti di vista di ex interni al Pci che a sollevare, forse, qualche dubbio tra compagni che hanno considerato “finito il Pci” già dal ’73, in quanto, a ben vedere, nel ricordare i 100 anni, in molti ex Pci è presente proprio il tratto in cui si denuncia in modo persino virulento, il “rifiuto” da parte di Berlinguer “della prospettiva di una evoluzione socialdemocratica del Pci”. Tanto che l’ex Fassino la definisce una “testardaggine… che lo porta (il Berlinguer) a restare prigioniero dell’orizzonte comunista e dell’utopia” (sic) e “che lo spingerà, fino alla fine, verso un’estrema fase radicale” – fase di radicale anticapitalismo, ricordiamolo –, “portandolo, nel 1980, davanti ai cancelli della Fiat occupata” (cosa che a Fassino sembra una oscenità inammissibile).
Ma è molto significativo che questo tipo di critica sia ben presente e comune a tutti coloro che oggi ne parlano avendo vissuto gli anni di Berlinguer dall’interno del Pci e non dall’esterno. Una critica che contrasta con coloro che anche su La Città futura (Bernardeschi), in modo, direi, quasi deterministico ed evoluzionistico, attribuiscono a Berlinguer di aver avviato la socialdemocratizzazione e la fine stessa del Pci: come se, anche qui, tra il 1973 e il 1991, non ci sia più stata una “vera” storia né vicende alterne e di lotta interne ed esterne al Pci. Con ciò, a mio avviso, si dimostra che probabilmente non sapevano o non potevano percepire quale era in realtà la posizione di Berlinguer dentro il Pci; la battaglia interna che stava conducendo sia contro le tendenze filocraxiane e le forti spinte interne ed esterne a favore della socialdemocratizzazione del Pci; sia contro quelle filosovietiche. Per cui si è trovato a scontrarsi oltre che con le distorsioni giornalistiche, pressioni esterne e quelle internazionali, anche con le due destre interne al Pci: la destra politica napolitaniana e la destra di potere cossuttiana.
Stante però che a causa del centralismo democratico, tali posizioni di destra, sia socialdemocratica che di potere, all’esterno e dall’esterno non apparivano, tutto veniva posto in capo al segretario generale anche quando così non era. Certo, poteva dimettersi oppure cambiare la linea politica impostagli, ed è appunto quello che fece con la svolta del ’79. Subendo le conseguenze di attacchi personali al vetriolo, che può capire solo chi dentro il Pci ha conosciuto (come anche chi scrive), la durezza delle denigrazioni e “lapidazioni” staliniane proprie e comuni sia alla destra comunista che ai partiti e regimi della socialdemocrazia.
Dato però che nel solco di quella cancellazione e appiattimento della storia e dei partiti della Repubblica, sulla storia e i partiti del prefascismo, operata dalla borghesia e dai suoi giornali, dai suoi intellettuali e dagli ex-post-anti-comunisti, bisogna dimenticare un attimo tali squallidi personaggi e il loro banderuolismo.
Perché, anche per capire ciò che intendiamo dire con questo incipit o primo approccio, bisogna volgersi e andare all’origine della posizione che anche nel futuro del Pci, arrivò a connettere democrazia e socialismo e l’attenzione ai rapporti di massa, tra le masse di ispirazione cattolica (quindi non tanto le loro istituzioni ma la comunità sociale del cattolicesimo) e le masse di ispirazione marxista, socialista e comunista.
Donde che coloro che parlano della svolta del ’79 quasi fosse la conferma e una ammissione dell’erroneità della precedente linea del compromesso istituzionale, dimenticano che anche con la svolta, la proposta di Berlinguer era quella di una alternativa democratica: mai propose o parlò della c.d. “alternativa di sinistra” o “socialista” col Psi.
Sicché, a 100 anni dalla fondazione del Pci, ancor prima di considerare e di chiederci quale fosse la posizione del “L’Ordine Nuovo” verso il partito socialista nel ’19, se la posizione fosse quella di chi vuole rigenerare il Partito socialista, attraverso un movimento che parta dal basso, che porti a un nuovo livello la coscienza di classe del proletariato, formando nei Consigli di fabbrica una serie di quadri nuovi del movimento operaio, se insomma volesse rigenerare il partito dal basso, come noi crediamo che sia; oppure semplicemente buttarsi al di là, scavalcare, rompere il Partito Socialista, a me pare che preliminarmente, anche per comprendere gli sviluppi futuri che si avranno col Pci di Togliatti, come per es. il rapporto tra democrazia e socialismo, anche in base alla peculiarità dell’analisi togliattiana sul fascismo e la riflessione critica sulla sconfitta in Italia e in Germania, da cui muoverà Gramsci per la sua idea della Costituente e Togliatti per partecipare alla correzione dell’errore sul socialfascismo e da qui la rivalorizzazione dell’idea di “rivoluzione democratica”, si deve andare all’ispirazione originaria, al momento della formazione di quel gruppo di giovani intellettuali e operai del “L’Ordine Nuovo”, che per altro, con le Tesi e il Congresso di Lione determineranno quello che sarà il corso del gramsciano “partito di tipo nuovo”.
Cosa questa, da tenere sempre presente anche per il futuro, perché riguarda quella che sarà la “diversità” dei comunisti italiani, la “diversità” della concezione del Partito comunista italiano rispetto a quella di tutti gli altri partiti comunisti del mondo: compresi quelli dell’Est Europa e della Cina. Diversità che ha consentito al Pci di essere l’unico partito comunista, in Europa e nel mondo, non solo di partecipare ma di essere il principale protagonista della fondazione della democrazia, della Repubblica e della Costituzione, in quanto partito della classe operaia promotore del processo che, dagli scioperi del marzo ’43 alla Costituzione, va sotto il nome di fase costituente.
Occorre cioè tenere presente che ai giovani del “L’Ordine Nuovo”, la grande rivoluzione socialista d’Ottobre, è apparsa primariamente sotto il segno dei Soviet, dei Consigli dei soldati e degli operai e dei contadini poveri: è solo in un secondo tempo, che si svilupperà il tema della egemonia del Partito, della funzione non solo determinante, ma dominate dell’avanguardia che si ritiene consapevole, del partito che si sostituisce alla classe e che, soprattutto con Stalin, si verrà ristabilendo il ruolo di una rinata differenza tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti . E però va detto che tra questi due momenti non vi è stata unicamente continuità o rotture, ma un intreccio.
Le difficoltà e il relativamente rapido tramonto dei Soviet in quanto organismi di direzione effettiva non ha significato la loro nullificazione totale e la loro scomparsa dall’orizzonte teorico. Così come la funzione determinante del Partito non acquisterà immediatamente – neppure nell’Unione sovietica – il significato di un dominio sopra la società. Nella battaglia ordinovista per i Consigli, nelle prime teorizzazioni sul governo dei produttori, ma anche nell’idea del Partito come parte della classe e non come corpo a se stante che a essa si sovrapponga, vi è una ispirazione che continuerà a operare nel profondo, che continuerà a riemergere e a differenziare profondamente il Pci da tutti i partiti comunisti del mondo e ancor più dalla socialdemocrazia e dai partiti socialisti, cosa che con superficialità si tende a ignorare.
Una ispirazione che, per es., riemerse nel rapporto di Togliatti al Comintern a proposito della situazione che trova nella Spagna Repubblicana del 1937-39, e del pericolo che egli vede nella fragilità della vita democratica spagnola che gli fa prevedere la sconfitta. “La cosa che più salta agli occhi è l’assenza di quelle forme democratiche che permettono alle vaste masse di partecipare alla vita del paese… il Parlamento non rappresenta quasi nessuno… I consigli municipali sono stati eletti dall’alto, dai governatori che distribuiscono i posti fra i vari partiti… I comitati di fronte popolare (quanto di più simile ai Soviet, n.d.r.) che erano stati creati ovunque e avevano assunto funzioni governative, poi dovettero passare questa attività ai consigli comunali (eletti dall’alto, n.d.r.). Da allora i comitati di fronte popolare hanno cessato di esistere… Nei sindacati, che sono divenuti una potente organizzazione economica, c’è pochissima democrazia… i Partiti politici svolgono un’attività politica molto debole fra i loro iscritti… La vita politica del paese si svolge al di fuori del controllo delle masse. Le questioni politiche sono decise in sedute, discussioni, macchinazioni, nella lotta tra i differenti “comitati” dei partiti e dei sindacati”. Vi è qui una sintesi più chiara e indicativa di ogni affermazione teorica intorno alla riflessione che Togliatti è venuto compiendo non solo intorno alle cause della debolezza del fronte popolare spagnolo, ma dei motivi di fondo che porteranno alla sconfitta spagnola.
Insomma, come era nell’ispirazione ordinovista, anticipando concetti che porterà nell’Assemblea Costituente e nella Costituzione, la democrazia ha da essere per Togliatti l’esistenza di istituzioni effettivamente rappresentative e di partecipazione di massa, attraverso un articolato tessuto organizzato: attraverso i Partiti e un Pci come parte della classe operaia che non si sovrappone a essa. E i cardini su cui si è eretta e retta la Repubblica italiana sono stati appunto quelli che Togliatti ha pensato come determinanti: a partire dai partiti come forma di organizzazione della democrazia, il patto antifascista anche dopo la sua rottura, il compromesso istituzionale tra le grandi componenti di ispirazione marxista, socialista e comunista, e di ispirazione solidaristica cristiana. E se non ci si fa raggirare dalle distorte letture del cosiddetto “compromesso storico” (formula che, viste le distorsioni, fu quasi subito ripudiata da Berlinguer), fatte congiuntamente dalla destra del Pci e della stampa borghese (che l’hanno persino degradato a “formula di governo”), è a tale togliattiano “compromesso istituzionale” fondativo della democrazia e della Costituzione, quello a cui si è rifatto Berlinguer nel 1973: in forza di una riflessione approfondita e di ampio raggio anche storico sulla democrazia italiana, indotta anche dal golpe cileno (la sera del golpe del 11 settembre avevo ricevuto il segnale di mobilitazione e l’indomani, per organizzare e mobilitare, dalle cinque di mattina eravamo davanti a tutte le fabbriche della Provincia di Varese, che essendo la più industrializzata d’Italia erano parecchie). Ovvero ciò che ci si proponeva con quel “compromesso” , in concreto, era di rilanciare la strategia delle riforme sociali per attuare la democrazia sociale prefigurata dalla Costituzione del 1948, nella convergenza politico-culturale di Dossetti e Togliatti per la programmazione democratica e il controllo sociale dell’economia, dal cui abbandono – ha ben visto con anticipo Berlinguer – è derivata quella corruzione dei compiti dei partiti, cioè dei partiti “veri”, divenuta poi, conseguentemente, anche corruzione gestionale penalmente perseguibile. Un chiaroveggenza anticipatrice della fine fatta da Dc, dal Psi e da Craxi, e di quanto avvenne negli anni di “tangentopoli” che altro non era che l’emersione, a livello d’impresa, di una corruzione che demagogicamente si è voluta restringere al “sistema politico”: termine che in realtà celava l’attacco mirato alla “democrazia” intesa nel suo significato minimo di regime della dialettica libera tra le parti sociali e politiche, per rovesciare e sconvolgere il sistema proporzionale e il sistema istituzionale e sociale nato dalla Resistenza.
Solo dando una lettura puramente “politicista” e “governativista” del costituzionale compromesso rilanciato da Berlinguer, ci si può dimenticare che è proprio dall’abbandono di tale strategia che è derivato la gravemente contraddittoria idea, secondo la quale per respingere l’atomismo dei singoli, il corporativismo sociale e il plebiscitarismo politico (cioè populistico anch’esso) fosse sufficiente fare proprio ciò a cui con grande forza si opponeva Berlinguer, sia già nel 1973 che ancor più dopo e con l’anticapitalistica svolta del ’79: cioè l’idea di affidare ai partiti il compito di un indirizzo politico di responsabilizzazione e di integrazione nel sistema, con l’obiettivo di ridurre la conflittualità, anche a rischio di evocare un cosiddetto “fascismo pulito”. Ed è proprio contro tale rischio di una integrazione nel sistema (a cui portava la destra interna) e per mantenere alta la conflittualità già altissima e senza eguali in alcuna altra parte d’Europa e del mondo, che nel 1973 Berlinguer si è mosso, così come nel 1980 si è presentato ai cancelli della Fiat occupata dagli operai.
Chi considera e ha scritto che con Berlinguer sia iniziato “il percorso verso la socialdemocratizzazione e dunque lo snaturamento del Pci” e la sua fine col Pds, da un lato sottovaluta il rischio di uno sbocco di tipo autoritario, che, viceversa, ci teneva permanentemente in allarme (per es. vissi direttamente la vicenda della bomba che divelse il portone di ferro massiccio della Federazione Pci e della bomba nella Piazza Maspero del mercato di Varese. Idem per la vicenda del Generale Maletti; ricevetti alla sera il segnale che trasmisi a tutti gli altri, per dormire fuori casa, con l’ordine di scendere tutti in Piazza l’indomani mattina).
E tutto questo avveniva nonostante o proprio perché la lotta e la classe operaia erano talmente forti e per la prima volta nella storia la classe operaia era unita dalla marxiana teoria della prassi comunista del Pci, da spaventare la borghesia (si ipotizzò persino l’abbandono della Fiat da parte di Agnelli coautore dell’autoritario Piano Trilateral del 1973 – stesso anno del “compromesso” di Berlinguer – di “limitazione della democrazia”, cioè del suo superamento tout court), a tal punto da indurla a progettare di sovvertire la Costituzione e la democrazia. Agendo sia sul piano parlamentare, con una c.d. “grande riforma” istituzionale, sia sul piano occulto: forse si dimentica che il Piano P2 è del 1975 e che fu fatto, come spiegò Gelli: “perché i comunisti stanno vincendo con la democrazia”, prospettiva nefasta sia per l’America e i filoamericani sia per i “sovietici” e i filosovietici. Donde le convergenze affatto parallele tra loro, contro il Pci e Berlinguer considerato da Kissinger “il comunista più pericoloso del mondo”, concetto pubblicamente ribadito dal nuovo ambasciatore Usa, Gardner, con intervista sul Corsera, appena arrivato in Italia sei mesi prima del rapimento Moro.
Dall’altro lato sottovaluta gravemente la valenza e la portata rivoluzionaria della svolta del ’79, di cui è solo un’espressione l’immagine di Berlinguer ai cancelli della Fiat: cioè l’espressione di una irriducibile scelta di lotta, in cui non è affatto vero quanto si è scritto in modo deterministico, che ormai la “mutazione genetica” fosse in una fase avanzata tale da rendere più che scontata e “sancita” la prevalenza delle destre e del craxismo esterno e interno al Pci. Viceversa la lotta era pienamente in corso, e senza l’intervenuta “uccisione” di Berlinguer si sarebbe alla fin fine arrivati ad altra soluzione, compresa una probabile scissione o espulsione della destra napolitaniana dal Pci di Berlinguer. La storia si fa anche con i se e i ma … Di certo, è indubitabile che con la svolta del ’79 si è accentuata a livelli senza precedenti la lotta di classe e di massa dentro e fuori il Pci, contro il craxismo, contro la destra filocraxiana e quella filosovietica interne al Pci, entrambe da quel momento impegnate non solo a criticare ma a “massacrare” (letteralmente) Berlinguer anche sul piano personale, fino alla sua “morte”.
Al di là del segretario del Pci davanti i cancelli Fiat, chi non ricorda lo stato d’assedio in cui si è trovata l’Alfa Romeo di Massacesi e tante altre fabbriche circondate dai fuochi accesi dagli operai che le assediavano? Noi c’eravamo e ce lo ricordiamo: anzi ricordo che una intervista che mi fece un giornalista norvegese, fu pubblicata su un’intera pagina dominata dalla foto dei fuochi accesi dagli operai in rivolta, contro Craxi e il taglio dei 4 punti di contingenza.
Per comprendere che o una scissione o una espulsione della destra-Pci fosse un probabile esito e sbocco, va notato che diversamente e all’opposto di chi visse dall’esterno del Pci la fase della direzione berlingueriana e che sono portati ad attribuire, ribadiamo, in modo deterministico ed evolutivo la colpa di aver dato inizio, fin dal 1973, a una deriva che avrebbe portato addirittura dopo 20 anni!, alla soppressione del Pci, vi è appunto la testimonianza di coloro che hanno vissuto dall’interno del partito le vicende del periodo di Berlinguer, e in primis di coloro che, non per caso ma per odio profondo, lo attaccavano violentemente anche sul piano personale.
Tutti costoro, in una forma o nell’altra, praticamente sottolineano come assurda e inaccettabile quella che invece era l’estrema e lucida determinazione di Berlinguer, nel rigettare sia il filosovietismo sia l’americanismo e nel rifiutare, anche solo in prospettiva, una qualsiasi evoluzione socialdemocratica del Pci.
Una asserzione e determinazione, quella di Berlinguer, acclarata e validata nel fuoco di una lotta di classe e di massa rilanciata in tutto il paese; e nel fuoco di uno scontro col segretario del Psi e quindi nel fuoco di uno scontro anche con la filocraxiana destra interna al Pci, contro cui Berlinguer rilanciava incessantemente l’orizzonte e il fine comunista e del superamento del capitalismo, fino alla sua morte spingendosi “verso una estrema fase radicale”, come dicono i suoi critici che subirono la forza della strategia e della lotta lanciata da Berlinguer in sintonia con tutte le organizzazioni di base del Pci.
Dunque, ciò che risalta nelle varie “celebrazioni” è la tendenza a dare in forme diverse, una parimenti falsa e denigratoria, ma soprattutto falsa versione che attribuisce a Berlinguer di aver portato il Pci sulla strada del riformismo turatiano e socialdemocratico, assimilandosi cioè a quel “tipo” di versione sopra menzionata di Paolo Franchi, che come tanti altri ex Fgci è rientrato nell’alveo di chi usava la federazione giovanile come trampolino per la propria carriera. A partire da Occhetto e Petruccioli che presi da tale ambizione, maturata già assieme ad amiconi come Pannella e a Craxi quando insieme facevano parte della goliardica associazione universitaria, non hanno saputo cogliere né ciò che maturava nelle nuove generazioni né tanto meno l’esplosione del ’68, sicché non sapendo più che fare, proprio come avrebbero fatto col Pci 20 anni dopo, Occhetto e Petruccioli, sciolsero la gloriosa Federazione Giovanile Comunista Italiana, che da socialista che era, nel 1921 aderì con l’intera struttura al PCd’I e fu decisiva per far nascere e poi crescere l’appena nato Partito, essendo l’unica struttura organizzativa articolata su tutto il territorio nazionale, come non lo erano né il gruppo torinese del “L’Ordine Nuovo” né il gruppo napoletano di Bordiga.
Donde che anch’io fui chiamato nella segreteria nazionale, per ricostruire la Federazione giovanile per volontà di Luigi Longo. Questo non bastò a evitare che la Fgci tornasse a essere l’anticamera della carriera nel partito, come è stata per Gian Piero Borghini, Imbeni ecc., e poi per i vari Ariemma, d’Alema, Cuperlo ecc.; tutti più o meno chiamati insieme ai Petruccioli (detto il leone di Aquila, città dove si fece espugnare la federazione Pci mentre stava in spiaggia…), a far parte della “squadra” di Occhetto (dove la “squadra” sostituiva la “segretaria”).
Berlinguer e la politica di rilancio del togliattiano compromesso costituzionale
Quello che Berlinguer seppe cogliere già nel ’73, era la necessità di riprendere il discorso interrotto e rilanciare il patto costituzionale tra i grandi partiti di massa, con cui il sistema sociale e politico era stato avviato a un processo di democratizzazione e socializzazione che, nel solco della gramsciana concezione processuale, andavano ripreso per prevenire e curare l’incipiente degenerazione dei partiti. Degenerazione che consisteva, appunto, nell’abbandono delle motivazioni ideali e programmatiche (un leitmotiv di Berlinguer) che sono state sia all’origine della Repubblica che della storia dei partiti – prima socialista e cattolico, poi anche comunista – sia allo svolgersi della loro dialettica, per rispondere ai problemi aperti, in Italia e in Europa, della “questione sociale”.
Berlinguer colse tale tendenza alla degenerazione dei partiti, successivamente denunciata non come moralista “questione morale”, bensì come “occupazione dello Stato” da parte dei partiti contro le cui prevaricazioni si è formulata la suggestione, già allora di tipo “populista”, circa la necessità di rafforzare le istituzioni di vertice dello Stato. Trovando gli intellettuali accademici – di parte non solo “borghese” ma anche “comunista” – disponibili a condividere idee forza anche presidenzialiste o quali quelle che si riconoscono anche nelle forme della “governabilità” brezneviana dello statalismo gerarchico sovietico. Sicché era quanto meno inevitabile da parte di Berlinguer, fare un’opera di verità, annotando ciò che era scontato da tempo: ossia l’avvenuto “esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre”. Asserire che “sia da questo momento che inizia il percorso verso la socialdemocratizzazione – e dunque lo snaturamento – del Pci” (Bernardeschi), ci sembra apparentemente incomprensibile. A meno che non si voglia considerare il ruolo che stavano giocando gli intellettuali e la situazione complessiva in cui si trovava ad agire il Pci e per esso Berlinguer e tutte quante le organizzazioni di base del Pci determinate nel sostenerlo senza incertezze fascismi.
Il ruolo degli intellettuali nella deriva e nella fine del Pci
Ora, l’analisi sul ruolo degli intellettuali è da porsi come pregiudiziale, in quanto è storicamente provato che il “gruppo dirigente” del partito – che dovrebbe, almeno esso, conformarsi come “intellettuale organico” – viene coinvolto, per i compiti mediatori istituzionalmente assunti più verso l’organizzazione del potere che verso la società di cui dovrebbe interpretare i bisogni, in trame di politica “congiunturale” (la cosiddetta “politica dei due tempi”), che trovava proprio gli intellettuali accademici (anche comunisti) disponibili a condividere le idee forza della “gerarchia” tra le forze sociali, della ”economicità” nell’uso delle risorse, della “efficienza” nell’organizzazione privata e pubblica, della governabilità delle istituzioni politico- amministrative.
Tali idee forza rappresentavano (e rappresentano) il puntello del sistema capitalistico, nelle forme del dominio di classe che dall’impresa si esprime sulla classe operaia, sulle altre formazioni sociali e sulla organizzazione dello Stato, specie tramite le forme di intervento diretto e indiretto sull’economia, nel presupposto che la regolazione dei rapporti sociali di ogni tipo trovi nella legge una forma apparente di democrazia, in nome del primato degli esecutivi “politici”, di partito e di Stato, in stretto e invisibile – e quindi incontrollabile – “kombinat” tra apparati dell’impresa e apparati burocratici di partito e dello Stato con le sue diramazioni internazionali e nazionali.
Per spiegare come ciò abbia potuto verificarsi in presenza della costituzione più democratica tra i paesi del capitalismo occidentale (e anche dei regimi del partito-Stato), nel senso che essa prevede strumenti di controllo sociale e politico della proprietà e dell’impresa e l’introduzione di “diritti sociali” mediante riforme dei rapporti tra le classi, va sottolineato che un contributo rivelatosi decisivo, prima per il pur ritardato avvio dell’attuazione della costituzione, e poi per il rovesciamento della strategia complessiva del Pci, è stato apprestato proprio da quella parte di intellettuali che con la cultura accademica hanno coinnestato la controffensiva delle forze sociali e politiche moderate e conservatrici, sull’onda di un sempre più forsennato attacco al sistema democratico, mediante una operazione a tenaglia, che su un versante “sovrastrutturale” attaccava la forma di governo parlamentare come luogo di legittimazione dell’autonomia delle forze sociali e politiche; e su un altro versante attaccava direttamente la forma di Stato di democrazia sociale, dietro la speciosa contrapposizione del “privato” al “pubblico”, del “mercato” allo “Stato”.
Con il pretesto del superamento del marxismo “dogmatico” – reso evidentemente necessario dal superamento del “partito guida” – e dietro l’annuncio del fiorire di “più” “marxismi” e “neo” marxismi, è così che si è insinuata l’egemonia culturale della destra sociale e politica, cui ha fatto da battistrada la cultura c.d. liberalsocialista: rispetto alla quale gli intellettuali comunisti collegati col “gruppo dirigente” del Pci, hanno portato a cedere le armi delle idee, dando a credere che l’idea di socialismo fosse l’ipostatizzazione del dirigismo, dello statalismo, del burocratismo, del verticismo, quali si sono visti in Urss e Cina e quindi anche dell’industrialismo, che collega tra loro trame di diversa origine – liberale, fascista, socialdemocratica, stalinista – sul punto decisivo del primato dei soggetti reali della proprietà (pubblica come privata), in collegamento con il soggetto reale del potere politico-burocratico, l’esecutivo, con l’esclusione, più o meno radicalizzata, dal potere delle masse di cittadini, di lavoratori e classe operaia.
Era quindi necessaria una operazione di verità, a meno che si ritenga che sarebbe stato giusto deviare l’attenzione dalla crisi del c.d. “socialismo reale” e, dunque, dall’obbligo che ne derivava ai comunisti di arricchire la critica anticapitalistica: l’asserzione sulla fine della spinta propulsiva è infatti stata accompagnata da un rilancio di una analisi critica e di una lotta senza precedenti contro il capitalismo e l’imperialismo.
Se in proposito si parla di “snaturamento del Pci”, significa che occorre ancora superare analisi distorte che rinunziano – talora in nome di un marxismo “puro”, che limita alla questione dei rapporti diretti tra capitale e lavoro i termini reali della questione sociale – a cogliere la dialettica complessiva che esiste tra problemi della democrazia politica e della democrazia economica e sociale. Stante l’intima coerenza che – nella separazione “costruita” dalla cultura borghese tra le questioni dello Stato, le questioni dell’economia e le questioni dello Stato sociale – esiste tra l’ideologia del potere dell’impresa capitalistica multinazionale, e l’ideologia del potere dei vertici internazionali e nazionali delle istituzioni politiche e burocratiche.
Sembra quindi che sia in forza di tali analisi distorte, di un marxismo che limita la dialettica di classe solo ai rapporti diretti tra capitale e lavoro, ignorando quelli più complessivi del rapporto della struttura con la sovrastruttura, che si finisce così per intendere come “snaturamento socialdemocratico” (sic) l’arricchimento della analisi critica e il rilancio della lotta anticapitalistica anche sul terreno istituzionale, per la democrazia sociale, certo in modo molto diverso da quello dello Stato sovietico o cinese.
Forse, questo, è a causa di quel che si rivela anche in questa occasione, e cioè per quello che specie gli intellettuali comunisti, interni o esterni al Pci, hanno perseguito nel tempo: la doppia verità. Questa è la questione delle questioni, che ha finito con alimentare la polemica sulla “doppiezza”, interessatamente distorta dalle forze culturali e politiche anticomuniste, che definivano “doppiezza” la necessaria dialettica tra la società e le istituzioni, tra la lotta sul piano sociale e la lotta sul piano politico e istituzionale, quale sui due piani, appunto, era condotta dal Pci.
La questione delle questioni: la doppia verità
La questione delle questioni è quella della doppia verità che intellettuali comunisti e quella parte a essi coevi dei “gruppi dirigenti” di partito, hanno alimentato intorno alla critica del capitalismo e alla critica del socialismo (tacendo delle forme autoritarie assunte dallo Stato capitalistico …). Sicché all’interno del partito comunista, in Urss come in Cina, ed entro una parte del Pci, hanno prevalso forme e posizioni di neo assolutismo (talune scambianti persino il presidenzialismo per leninismo…), esattamente contrarie a quelle per cui ci si batte per democratizzare l’organizzazione della società e dello Stato. Ma mentre l’impegno quotidiano della lotta sociale e politica per attuare la costituzione ha finito per “invadere” l’organizzazione di base del Pci con la pulizia mentale dei militanti – donde le contraddizioni introdotte dal ’68 studentesco e operaio, mal sopportato dall’ala destra del Pci – al contrario sul terreno dei paesi dell’Est e soprattutto dell’Urss e ora della Cina (con cui sembra si stia ripetendo verso il postmaoista Pc cinese la doppia verità e gli errori commessi verso il Pcus) il rovesciamento dei principi è stata ed è tale da provocare una doppiezza. Una doppia verità catastrofica rispetto alla capacità di analisi dei sistemi costruiti e realizzati in tali paesi e dopo le rivoluzioni, tale da aver facilitato letture approssimative sulle cause del “crollo” dell’Urss, inducendo all’abbandono e alla rimozione di quelle esperienze dopo tanta enfasi e genuflessione (oggi praticata verso la Cina postmaoista), piuttosto che una ricerca che è essenziale sia per capire come mai oggi si lascia concludere che il “comunismo è morto”, sia per capire come mai si sia parlato di “rifondare” o di “rinnovamento” della “prospettiva” comunista.
Ciò è tanto più grave se tra tali ambienti di ieri e quelli di oggi, che si incontrano “per una riflessione sul socialismo con caratteristiche cinesi”, rientrano anche quelli di ispirazione marxista e a militanza comunista (oltre quelli di tradizione filosovietica cossuttiana e del sedicente “segretario del Pci”), e segnatamente il “ceto” degli intellettuali e di coloro che esitano ad ammettere l’essenzialità teorica della questione dello Stato – letta riduttivamente come questione “formale” e “giuridica” anziché come parte integrante della questione reale del socialismo: così che poi si sono fatti trascinare in modo silente dal collasso del Pcus e dello Stato sovietico o in modo acritico rispetto al neoassolutismo dello Stato e del partito cinesi per altro a base strutturale capitalistica. Vale a dire, in modo del tutto opposto a quella democratizzazione e socializzazione e organizzazione del potere dal basso, che da “L’Ordine Nuovo” al partito nuovo, da Gramsci a Togliatti e così via, segna e caratterizza la lotta per il socialismo in Italia, mirante a trasformazioni radicali anche rispetto allo Stato autoritario proprio della tradizione borghese e dell’istituto fondante del capitalismo: cioè la proprietà privata che in quanto tale fonda il capitalismo e non si può dire, con la consueta doppia verità , che essa fonda anche il “socialismo” (con caratteristiche cinesi o meno).
“Socialismo reale”, “socialismo cinese” e “caso italiano”
Pertanto, sia nell’analisi dei paesi del “socialismo reale”, e oggi stesso del “socialismo” cinese, sia nell’analisi del caso italiano, il nodo riguarda il fondamento della critica alla proprietà e all’impresa, sia privata che statale: la statalizzazione non determina una socializzazione dei mezzi di produzione, tanto che lo statalismo è stato anche del fascismo. La critica alla proprietà e all’impresa sia privata che statale, comprende le ragioni che richiedono una critica differenziale tra un regime sociale e un regime statale della formazione statale del socialismo, allo scopo di costruire sulle basi della teoria marxista dei rapporti di classe e dello Stato, l’ipotesi di un regime di transizione che mantenga la prospettiva del comunismo in quanto sistema di principi mai storicamente realizzati, in nessuna parte e paese del mondo.
Un regime di transizione, cioè, che si deve specificare alla luce di tutte le forme di esperienza, compresa quella italiana ovunque tralasciata e scordata – dall’Urss alla Cina, a Cuba ecc. – per specificare le qualità formali e sostanziali di tutte le esperienze, in base al primato dei valori dell’autogoverno dei popoli e dell’autogestione sociale delle classi, secondo principi di democrazia politica, economica e sociale che mirino al controllo della proprietà e dell’impresa, in una visione antigerarchica di ogni rapporto sociale e, dunque, sia in fabbrica che nello Stato. Visione antigerarchica che non si riscontra realizzata in nessuna delle esperienze di “socialismo” orientale o occidentale, tutte improntate sul primato del potere dall’alto, e su un forte potere gerarchico sia in fabbrica che nello Stato.
Donde che dichiarare la “fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” non solo non ha dato inizio ad alcun snaturamento, ma semmai ha avviato l’assunzione di una posizione volta a un rilancio dei principi di ispirazione marxista e ordinovista, per realizzare la democrazia nei luoghi di lavoro e nella divisione del lavoro e, quindi, contro una concezione “manageriale” delle imprese e nelle istituzioni, messa in atto anche nei sopra nominati paesi “socialisti”. Berlinguer ha semmai dato inizio a un rilancio – anche contro le avveratesi future abiure – proprio del marxismo e dell’esperienza italiana, a partire dalla messa in discussione delle cause decisive del prevalere della gerarchizzazione nella società e nello Stato, quali la nozione o pseudonozione di “gruppo dirigente”, che si configura come dato ideologico equivalente a quello denunciato da Gramsci rispetto al fascismo, con riguardo allo Stato proprio della cultura borghese, col ruolo di intellettuali “tradizionali” e “accademici” e dei governanti, annidati tutti negli apparati di partito, di sindacato, delle imprese private e di Stato, nelle pubbliche amministrazioni, da dove contribuiscono a realizzare una subalternità delle forze sociali, tanto più alienate e sfruttate con le nuove tecniche sofisticate della cosiddetta “democrazia informatizzata”.
Dunque quella che è stata classificata come “snaturamento”, in realtà era un’azione volta a superare la doppia verità di intellettuali e gruppi dirigenti, per realizzare un rilancio coerente e su nuove basi della critica e della lotta contro il capitalismo e contro le sue forme di potere dello Stato e dell’impresa.
Per non essere pecore nelle mani di qualche uomo della provvidenza
Un rilancio indispensabile. Per non rischiare di essere pecore nelle mani di qualche uomo della provvidenza (come può accadere anche oggi, con un governo guidato da chi per 10 anni è stato autore della svendita ai privati del patrimonio di efficienti imprese pubbliche e fu il coautore della stangata economica e del golpe tecnico contro il Parlamento col governo Amato del ’92), soprattutto dopo aver subito dalla destra sindacale e comunista di Lama la c.d. “svolta dell’Eur” (attribuirla a Berlinguer significa non sapere che in tutta quella fase e anche dopo era in minoranza nella segreteria e nella direzione), occorreva attivarsi come con la svolta del ’79. Una svolta che sotto il profilo dei rapporti tra struttura e sovrastruttura portava e rilanciava il convincimento che si trattava di ampliare la democrazia, riformando radicalmente i partiti non la Costituzione che, invece, anche sul punto dei partiti come “libera associazione dei cittadini” che devono a loro garantire di “concorrere” dal territorio “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, deve essere attuata e rilanciata. Questo anche per poter attuare, ovvero anticipare all’interno dei partiti le forme di un nuovo diritto e di un potere nuovo e antigerarchico dello Stato, coerente, in modo sostanziale e non solo formale, con la sovranità popolare. Donde che è fondamentale imparare e sapere – e insegnare ai partiti comunisti al potere – che la teoria del partito di Gramsci è teoria marxista dello Stato, incompatibili con la forma partito e la forma Stato prevalse in Urss e in Cina.
Quello che si tende a fare attribuendo a Berlinguer una presunta “mutazione genetica” del Pci, è una personalizzazione che semplifica ma non tiene conto della complessità di una situazione in cui il segretario del Pci era sotto attacco continuo all’interno del gruppo dirigente: tanto che, poi, la svolta del ’79 la dovette realizzare col sostegno diretto delle base, nei congressi del ’79 e del ’83 (dove Berlinguer aveva contro anche Ingrao proprio mentre stava dando attuazione a quanto Ingrao aveva solo enunciato in Masse e potere). Avendo però contro la maggioranza del gruppo dirigente del partito e dalle Cgil di Lama (che non a caso scrisse che Berlinguer dava più retta alla base che a lui).
Risolversi ad attribuire a Berlinguer e ai suoi presunti cedimenti, i prodromi, la causa originaria di quello che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, significa in certo senso anche tacere e “assolvere” gli autori di quella che è stata una azione pianificata – da forze internazionali e interne sia occulte che palesi – come “soluzione finale della questione comunista in Italia”. Ma porta anche a trascurare il problema di fondo che si poneva da prima di allora e si pone ancora oggi. Ossia risolvere le questioni trattando Berlinguer come la “causa” di tutto, come se la lotta non fosse ancora pienamente in corso da prima e dopo la svolta del ’79, se per un verso, ci riporta a ciò che facevano, persino insultandolo, le destre napolitaniane e cossuttiane (e dopo la sua morte i prezzolati ex ingraiani o ex manifesto, quali, per es., Reichlin, Castellina e la loro prole), per un altro verso, si arriva a ignorare almeno due problemi fondamentali: quello degli intellettuali di cui si tacciono le responsabilità, da un lato; e quello della forma partito e forma di potere, dall’altro. Tale insufficienza non riguarda i limiti della teoria marxista della politica, dello Stato e del diritto (a onta di chi si rifà alla cultura liberalsocialista di Bobbio), ma attiene al persistere di una contraddizione “organizzata”, tra una teorizzazione – che è valsa ad armare masse estese di militanti soprattutto in Europa occidentale , ma assai poco in Europa orientale – e una prassi che è stata ed è smentita sopratutto dagli intellettuali – che segna anche i gruppi dirigenti che vengono classificati come “organici” solo per una questione di soggettiva collocazione; e che in tale ruolo elaborano interpretazioni idonee a rafforzare i “governanti” contro i “governati”, stante che loro stessi sono parte dei primi.
Conseguenza deleteria di tale stato di cose e che sempre più assume rilievo in una analisi marxista, è il giudizio critico del ruolo svolto dagli intellettuali comunisti (specie dopo Berlinguer) e dai “gruppi dirigenti” (craxiani e filocraxiani interni ed esterni al Pci) a essi collegati, che trova acconce le categorie di analisi con cui Gramsci ebbe a qualificare i rapporti tra la borghesia e il fascismo. Stante l’indubbio carattere di classe sia degli intellettuali menzionati che dei gruppi dirigenti abiuranti del Pci, che hanno conclamato una inesistente “sconfitta operaia”, per coprire la reale sconfitta della loro strategia che sostenevano in un contrasto violento con Berlinguer, che era proteso a rilanciare, nel fuoco di un’estesa, capillare battaglia economico-sociale, una battaglia ideale. Una “rivoluzione culturale” volta a ripristinare un nesso tra teoria e prassi, contro i soggetti dell’accoppiata intellettuali-gruppi dirigenti abiuranti, che, dalla svolta di Berlinguer nel ’79 e dopo la sua morte, hanno scelto di contrapporsi all’autonomia delle forze sociali e dei governati: provocando ulteriormente il logoramento delle masse, abituatesi a loro volta, sempre di più e in progressione, a non usare gli strumenti delle democrazia sul terreno economico-sociale, constatato che anche gli strumenti della democrazia politica “interna” (cioè di partiti e sindacato) e quelli della democrazia politica “nazionale” (europea, statale, regionale e locale), hanno perso sempre più valore. Problemi, quindi, ben più complessi del semplicemente attribuire “colpa” al tentativo berlingueriano di rilanciare il compromesso costituzionale, sia per garantire il quadro democratico in cui continuare la lotta di classe; sia per perseguire obiettivi di teoria e prassi per una “transizione al socialismo”. Perseguendo tale obiettivo, anche tramite quegli “spezzoni” di riforme o “elementi di socialismo” conseguiti proprio negli anni della conduzione berlingueriana, dove l’opposizione delle destre neoliberiste interne ed esterne, ha portato a realizzare degli “spezzoni” che comunque testimoniano una conquista ottenuta nella durezza della lotta con gli avversari e dei contrasti interni al Pci e alla Cgil, costretti a misurarsi su due fronti. Tacere o sottovalutare che negli anni di Berlinguer si aveva a che fare con gli avversari di classe, mentre era in corso uno scontro durissimo esterno e interno al Pci, rende allora difficile comprendere come si sia univocamente parlato di “riforma della società e dello Stato” in attuazione della Costituzione, con crescente intensità negli ’60-’70 proprio con Berlinguer; mentre poi, dopo Berlinguer, si sono invece invocate più genericamente delle “riforme” – costituzionali e non – all’insegna di una transizione a una “seconda repubblica” segnata dalla loggia massonica P2.
Insomma se si riduce tutto a una presunta “deriva” del Pci dal ’73 in poi, si finisce col dare per scontata la fine del Pci quando ancora non lo era. Attribuendo la fine Pci già dalla fase precedente la svolta del ’79, ci si obbliga a giudizi sommari e si evita di condannare le deviazioni e il soggettivismo di intellettuali e “pezzi” di gruppi dirigenti che sono i “veri” responsabili. E non si indica nessuna traccia necessaria per argomentare ciò che è avvenuto nel duro e lungo scontro interno al gruppo dirigente: mentre per capirlo e discernere appare indispensabile istituire uno stretto collegamento tra i problemi teorici riguardanti il potere: nel partito e nei movimenti di massa in generale; nell’organizzazione della società, con particolare riguardo ai rapporti economici, nell’organizzazione dello Stato, nelle sue varie articolazioni centrali e territoriali.
Donde che è importante capire come spesso non accade, ribadiamo, che la teoria del partito, di Gramsci, è teoria marxista dello Stato e del diritto. Infatti, in una corretta analisi marxista risulta che esiste una stretta interrelazione tra i problemi di democrazia da risolvere nel partito, nell’economia e nello Stato, mentre nella tradizione dei gruppi dirigenti comunisti dell’Est e dell’Ovest anche socialdemocratico, la questione del partito è posta come terminale di una analisi sociale e politica, che viceversa richiede di essere posta come premessa che assicuri come il soggetto della rivoluzione democratica, abbia predisposto le condizioni “interne” della sua asserita disponibilità a passare da una fase di capitalismo maturo a una fase di transizione al socialismo, a cui corrispondano forme reali di trasformazione dello Stato, trasformazione delle “casematte” del potere borghese-capitalistico. Casematte del potere che, in termini normativi ed istituzionali, nelle forme dello Stato e del diritto borghese, si riassumono nelle garanzie fornite agli istituti economici e giuridici della proprietà e dell’impresa capitalistica, garanzie quali vengono fornite anche nella Cina attuale, ma che in Italia avvengono a dispetto dei Principi innovatori della nostra Costituzione di democrazia sociale nata dalla Resistenza. Principi innovatori mai nemmeno presi in considerazione da nessuna delle rivoluzioni attuate, in Oriente e in Occidente, in Europa, in Asia o in in centro e in sud America: tutte sostanzialmente rivolte a riprodurre il presidenzialismo, forma del potere autoritario borghese, sia nello Stato che dentro il partito. Invece di attuare un potere non più dei vertici, non più fondato sulla ossessione del controllo e del primato dell’organizzazione burocratica degli apparati di partito sulla base, e degli apparati di Stato sulla società, ma un potere fondato sul primato della organizzazione della democrazia di base, cioè sociale: che per altro è quello fondativo dello “Stato di democrazia sociale” sancito dalla Costituzione.
Quello che intendo sottolineare con tutto ciò, è la necessità – che non troviamo negli articoli celebrativi dei 100 anni del Pci – di riflettere sul perché la critica a una politica che era il prodotto del gruppo dirigente del Pci e della sua lotta interna, è stata soggettivizzata e caricata in capo solo al segretario del Pci, cosa dovuta a un “centralismo democratico” su cui ci si dovrebbe interrogare in merito a quali modifiche apportare.
L’importanza e la valenza di ciò che Berlinguer ha proposto in modo coerente nel ’73 e nel ’79, col togliattiano “compromesso istituzionale”, si misurano bene alla luce di quanto avvenuto nel dopo Berlinguer e avviene oggi, per realizzare un nuovo modello di sviluppo non più centrato sui valori di scambio, fondamentale proposta per una trasformazione anche sociale che ancora una volta, strumentalmente, è stata ridotta con la superficialità tipica del giornalismo e dei politici, alla cosiddetta “austerità”, sempre nel silenzio degli intellettuali accademici anche del Pci, che non facendosi carico di nessuna sforzo elaborativo in merito alla proposta di un nuovo tipo di sviluppo, hanno ancora una volta messo in causa, preliminarmente, la responsabilità della cultura nelle vicende della fase degli anni ’70 e ’80 (e ancor più dagli anni ’90 in poi), tanto più se si tiene conto della necessità di incidere sulla tendenza che vede gli intellettuali presentarsi come “parte integrante” della classe dominante, con un possesso di “capitale culturale” quale forma di potere inferiore solo al potere del “capitale economico”, (Bordieu, La responsabilità degli intellettuali, 1991): e le vicende in corso nella fase di direzione di Berlinguer, documentano ampiamente il fondamento della concezione critica che con Gramsci e Althusser intravede negli intellettuali l’attitudine dell’organizzazione del potere ad avvalersene, cioè a non ricorrere solo agli apparati repressivi ma anche ad avvalersi degli “apparati ideologici di Stato” i cui intellettuali puntano sempre alla riproduzione dei rapporti sociali dominanti rivendicando la legittimazione del potere dominante tanto più quanto esso perda consenso.
Si intende che, nel ’73 come nella svolta del ’79, non si può pensare che nel togliattiano Berlinguer ci fosse una illuminazione improvvisa e una estraniazione da una processualità tipicamente marxiana e comunista in cui, mutatis mutandis, si collocano l’opera iniziata con la svolta di Salerno e le idee animatrici del rinnovamento costituzionale, che non sono e non rappresentano mai – né sarebbe in alcun modo possibile – una scelta improvvisata e di breve momento.
Ognuna delle svolte si colloca in un disegno che viene da lontano, ispirato dalla longevità della riflessione ordinovista e dalla riflessione sulla storia d’Italia, in cui vige sempre il rischio di involuzione reazionaria – ed è bene non dimenticarselo mai e tanto meno oggi – cioè sulla storia reale di un paese che fu sconfitto dal fascismo e distrutto dalla guerra, un paese, l’Italia, che come disse Togliatti “ha bisogno non di «ricostruire» una democrazia ma di «fondarla»”, per la prima volta nella sua storia.
Perciò s’intende bene perché Togliatti al X Congresso del 1962, rivendicherà le lontane radici della “via nazionale”, ricordando – cosa in lui assai rara – propri lontani scritti e discorsi che fin dal 1944 disegnano un cammino di lotta per il socialismo in Italia, del tutto diversa da quella seguita in Russia e in Cina. È la risposta proprio a chi dentro e fuori il Partito sosteneva la tesi di una conversione o di una sorta di mutamento genetico – come quello che mutatis mutandis si tende ad attribuire a Berlinguer – rispetto a un corso che sarebbe stato tutto ispirato al modello sovietico. Sulla scia del pensiero gramsciano, al X congresso del Pci, con molta chiarezza Togliatti affermava: “L’avanzata verso il socialismo… nei paesi a capitalismo sviluppato non è compito facile, perché… si deve compiere in condizioni diverse da ciò che è avvenuto in paesi la cui economia era ancora prevalentemente agricola e la cui struttura politica ignorava, spesso, le istituzioni democratiche. Sono necessarie quindi una ricerca e una linea d’azione che comportano non soltanto una applicazione ma uno sviluppo, un arricchimento della nostra dottrina”
La durissima critica ordinovista dell’economicismo (che impregnerà l’intera opera dei Quaderni del carcere di Gramsci) proprio anche della seconda Internazionale e della socialdemocrazia ma anche, ancor oggi, di certuni partiti comunisti al potere (l’economicismo della Cina di Deng Xiao Ping, per esempio), è stata mantenuta senza interruzioni. Per es., parlando al Comitato centrale del 25-27 febbraio 1963, Togliatti ha sottolineato l’emergere, nel cuore stesso della società, di domande che andavano oltre lo sviluppo economico e sociale e poneva esigenze “di un nuovo tipo, di nuova qualità, di nuovo contenuto” (quale quello che Berlinguer ebbe a rilanciare con la sua proposta): e dunque, l’orizzonte teorico della battaglia ordinovista tornava a emergere nel tema di una nuova qualità dello sviluppo, svolto sia dall’allora segretario del Pci nel famoso discorso di Bergamo, Il destino dell’uomo, sia dall’altro segretario del Pci degli anni ’70-’80.
In quel discorso più che mai si profilava il grande orizzonte ordinovista con l’aggiornamento di un confronto e incontro col mondo cattolico, non più soltanto per un impegno comune per la difesa e il consolidamento della democrazia, ma il tema era la lotta contro una “artificiale uniformità” (quale ci sembra sia sempre la cifra della critica e della diversità di Berlinguer), per l’affermazione della “libertà di scelta e di sviluppo”. Era la denuncia della “solitudine dell’uomo, che anche quando può disporre di tutti i beni della terra pure non riesce più a comunicare con gli altri uomini, si sente chiuso in un carcere dal quale non può uscire”.
E quindi l’immagine del socialismo che Togliatti prospettava e a cui si riallacciava Berlinguer; intesa come obbiettivo per il superamento di tale situazione era un’immagine ben lontana dalle società di c.d. “socialismo reale”, ma si richiamava piuttosto alla grande utopia marxiana della società comunista maturata già nell’esperienza ordinovista. L’immagine di una società in cui “l’uomo non è più solo, e l’umanità diventa davvero una vivente unità, attraverso il molteplice sviluppo delle persone di tutti gli uomini e la loro continua organica partecipazione a un’opera comune”.
Era una espressione più avanzata della riflessione di Togliatti sui problemi di una trasformazione nella direzione del socialismo dei paesi dell’Occidente più sviluppato: vale a dire, con una formulazione tipica del movimento operaio di derivazione marxiana, “nei punti più alti del sistema”, quale era anche nelle aspirazioni e promozione teorica, politica e culturale de “L’Ordine Nuovo” e poi della elaborazione dei Quaderni di Gramsci, perseguita e più volte ripresa e rilanciata sia da Togliatti che, mutatis mutandis, da Berlinguer che era stato per altro il suo braccio destro.
https://www.lacittafutura.it/archivio/cento-anni-dalla-fondazione-del-pci