Dentro e fuori il PD si agitano correnti che si incrociano, si parlano, si confrontano su come superare l’attuale stallo causato dalle repentine dimissioni di Zingaretti: così si torna a ragionare di un soggetto di sinistra a sinistra del PD e di una sinistra nel PD, vagheggiando una riesumazione del centrosinistra questa volta composto dalla rodata alleanza di governo tra democratici, pentastellati e liberi(sti) e uguali. Gli appelli che vengono rivolti a ciò che rimane del movimento comunista organizzato in partiti dalle dimensioni sempre più esigue, sono una replica attualizzata di tutta una ormai storica sequela di buone intenzioni.
E lì si fermano quasi sempre, perché superata la soglia dell’intenzionalità, non si è mai arrivati a costruire – seppur da posizioni differenti per tattica più che per strategia politica – un nuovo soggetto o partito dell’anticapitalismo italiano. Il punto di arrivo è questo: creare le condizioni per un “partito del lavoro” che sia pienamente organico e compatibile con la prospettiva quasi immediata del sostegno a riforme frutto di compromessi tra forze liberiste e forze presuntamente progressiste.
Se manca il gradino ulteriore da salire, il passo successivo da fare, ossia la definizione di un perimetro di critica risoluta, senza se e senza ma, alla struttura del mercato e del capitalismo, manca qualunque slancio politico seguente che abbia anche soltanto la timida intenzione di contrastare tutta una serie di provvedimenti governativi che vanno nella direzione opposta all’aumento dello spazio di espansione per i diritti sociali e, perché no, anche di quelli civili.
I tentativi fatti fino ad ora, tanto dai moderni riformisti alla LeU quanto dall’atomizzato micromondo della sinistra comunista e di alternativa, non hanno sortito alcun effetto degno di nota e non incidono minimamente nel costringere l’ampio campo liberista (dai sovranisti fino al PD, praticamente la maggioranza che sostiene l’attuale governo Draghi) a torsioni evolutive di politiche di governo indirizzate nel senso di un compromesso, quanto meno, tra liberismo e tardo progressismo, seppur modernamente imbellettato con altisonanti slogan.
Elly Schlein ha proposto di dare vita ad un “fronte progressista” e l’ha definito come una sorta di “atto di pirateria“, una sorta di abbordaggio di un PD smarrito che, al momento, sta ricercando in Enrico Letta un rimedio curativo nell’immediato, per stabilizzarsi nel lungo periodo, tentando una risalita nei sondaggi, un riequilibrio nelle posizioni di maggioranza e di governo, rafforzando l’assetto di partito per non indebolire il progetto del tridente contiano (già messo in crisi dall’operazione Draghi).
La proposta di Schlein non rompe nessuno schema, non approfitta (in senso ottimistico e benevolo) della crisi del centrosinistra per ridare vita alla sinistra, ma la subordina al primo assegnandole il ruolo di comprimaria (nella migliore delle ipotesi). Niente di nuovo sotto il sole d’Italia. E’ il solito progetto che ripropone una politica di riforme antisociali fatte con un marchio di vicinanza alle problematiche più incombenti nei settori più disagiati di una popolazione dove le nuove povertà si espandono.
Ci dice l’ISTAT che ormai sono scivolati nella classificazione più bassa dei ceti sociali, nella “povertà strutturale“, un milione di italiani in più nel primo anno della pandemia. Per cui il totale dei completamente indigenti balza quasi a 6.500.000 persone. Non si può proporre loro, come nuova idea della politica di sinistra, di difesa e di recupero dei diritti sociali, del lavoro e del non-lavoro, una progettualità che non si riconosca come pienamente autonoma e totalmente indipendente dalla duplice riverenza nei confronti delle compatibilità istituzionali e di quelle, conseguenti, della visione di mercato, liberale per certi versi, liberista per molti altri.
Non si riscattano i moderni proletari in questo modo: sostenendo prima Bonaccini in Emilia Romagna che, paradosso dei paradossi, è oggi il principale antagonista di quel nuovo PD rivolto “a sinistra” che Schlein e Sardine vorrebbero, e poi affermando che a livello nazionale c’è invece bisogno di discontinuità e di un cambio di passo radicale che coinvolga tutta la sinistra da Rifondazione Comunista fino ad Andrea Orlando. La rete che Schlein immagina è realizzabile solo con chi ritiene l’attuale era di Draghi peggiore di quella inaugurata dal Conte bis.
C’è una sorta di schizofrenia reiterata nel tempo, che domina gli slanci anche più nobili e sinceri in tutto questo rimescolamento di posizioni, ma che non risolve la questione delle questioni: tentare di cambiare il centrosinistra non è elemento strutturante e strutturale di una nuova identità della sinistra. Se ci si riferisce ad un generico appello ad una giustizia sociale maggiore, ad uno sguardo più attento alle necessità del mondo del lavoro, allora va bene qualunque tipo di proposta e di previsione. Nella indistinguibilità delle posizioni, nel non aggettivarsi più e nel dirsi solamente “di sinistra“, si sono giocati anni di composizioni e scomposizioni proprio nel cosiddetto “campo progressista“.
Tali si sono definiti Giuliano Pisapia ed esponenti del PD di provata correttezza intellettuale e politica come Gianni Cuperlo e, all’unisono, figure emergenti di un attualità del presente che sembra già molto remota nel tempo: Renzi in primis.
Ormai questa deve essere la discriminante necessaria per ripensarsi a sinistra e per ripensare la sinistra stessa: sganciarla dal rapporto col moderatismo anti-riformatore del centro politico che fa del progressismo non un campo di evoluzione sociale ma un terreno arido di conservazione dell’esistente per prosperare, per garantirsi margini di agibilità in un contesto del tutto pregno di liberismo, dominato dalle correnti spericolate del nuovo corso di un capitalismo che sta studiando fin da ora come muoversi nel dopo-pandemia.
Attardarsi su reti di collegamento tra vecchie e nuove formazioni nel nome della ridefinizione del centrosinistra è ripetere macroscopici errori, avviluppandosi in una spirale di contraddizioni che diverrebbero evidenti soltanto quando si ripresentasse il tema del confronto tra il mettere avanti le ragioni dei lavoratori e degli sfruttati tutti rispetto a quelle dell’impresa e del padronato. E’ un tema piuttosto sindacale, da contrattazione tra parti socialmente opposte. Ma non è di sicuro tema per una rifondazione della sinistra egualmente di lotta e di governo.
Perché la lotta finisce per essere tollerante verso una attitudine al governismo che, lo abbiamo visto diverse volte, finisce col prevalere sulle ragioni non tanto dettate dall’ideologia (magari ve ne fosse una da recuperare con grande coscienza di classe) ma, molto più banalmente, dal residuo riformismo delle intenzioni che, in quanto tale, ha già superato la voglia di battersi e ha sposato la linea del compromesso che, inevitabilmente, finisce per corrompersi e diventare ben presto compromissione, irriconoscibilità di sé stessi, autodefraudamento della propria identità e della propria volontà.
MARCO SFERINI