La decisione di Bergoglio di compiere una visita in terra mesopotamica richiede analisi attente, vista la complessità delle dinamiche geopolitiche del Vicino e Medio Oriente.

Il pontefice si è recato in un’area che è teatro di scontro geopolitico, in cui sono presenti eserciti di potenze straniere invisi alle popolazioni locali, in cui il terrorismo di matrice transnazionale è all’ordine del giorno; i duri scontri tra diverse fazioni sono spesso sostenuti da attori internazionali grandi, medi, piccoli e piccolissimi. Nonostante tutto ciò ilcapo dello Stato Vaticano ha compiuto questa visita importante.

Dopo l’euforia mediatica e dopo molti commenti vorrei richiamare l’attenzione su un aspetto relativo ai pronunciamenti del Papa durante le diverse tappe del suo viaggio.

Esso è di natura politica e riguarda la critica alla pratica della guerra, in quanto causa principale delle gravi condizioni in cui vivono molte popolazioni del mondo. Il Papa ha più volte sottolineato come la guerra sia un atto di sopraffazione. Ciò trova una dimostrazione chiara e drammatica in Iraq. Un Paese strategico ricco non solo di materie prime bensì anche di risorse umane e di un immenso patrimonio storico culturale che ha subìto due guerre scatenate in base a eclatanti e ignobili bugie, quali la storia dei neonati nelle incubatrici gettati a terra dai soldati iracheni in Kuwait nel 1991. Episodio raccontato da una presunta infermiera, rivelatasi successivamente la figlia quindicenne dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, addestrata da un’agenzia americana di pubbliche relazioni. Anche per la guerra del 2003 si è fatto di nuovo ricorso a una menzogna ovvero la storia delle armi di sterminio di massa, riportato con tanto di provetta tenuta in mano dall’allora segretario di stato Colin Powell. Queste sì che possono essere definite “la madre” delle fake-news. Tali bugie sono ormai ammesse perfino da diversi esponenti delle Nazioni Unite coinvolti nei fatti dell’epoca quali Denis Halliday, coordinatore degli aiuti umanitari ONU e Hans von Sponeck, coordinatore del piano sanitario ONU in Iraq. Il risultato di tale disinformazione è stato da un lato l’appoggio di alcuni settori dell’opinione pubblica mondiale all’intervento militare e dall’altra la popolazione irachena terrorizzata e brutalmente devastata. I responsabili di questi crimini di guerra non solo rimangono fino ad oggi impuniti bensì continuano a diffondere le loro menzogne e i loro successori proseguono perpetuando le medesime azioni distruttrici in altri contesti.
Le dichiarazioni del Papa in Iraq sono richiami a coloro che fabbricano e vendono armi ed elaborano piani di guerra, mettendoli di fronte alle fatali conseguenze del loro agire che semina morte, macerie, profughi, rancore, disperazione, frantumazione sociale e instabilità politica.
Dal 2003, anno dell’invasione militare dell’Iraq da parte dell’alleanza anglo-americana, il Paese ha subìto numerose fratture e frammentazioni. In esso regna ormai un disordine generale, la corruzione è pratica sistematica e varie milizie con diverse denominazioni spadroneggiano sull’intero territorio. Queste sono solo alcune fra le conseguenze drammatiche dell’invasione di quest’antica terra da parte degli USA e del Regno Unito, terra già compromessa da anni di governo dispotico del clan di Saddam Hussein, seguito dal conflitto militare con l’Iran (1980-1988), successivamente dalla prima guerra del Golfo scoppiata a seguito dell’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno nel 1991 e infine da numerosi anni di embargo (1990-2003) da parte degli USA – un embargo fatale che è costato la vita a più di un milione di iracheni – per finire con l’occupazione del Paese dal 2003 e l’instaurazione di un assetto politico volutamente instabile.

Larghe fasce della popolazione estenuata, martoriata ed esasperata hanno deciso infine di rendersi protagoniste nello spazio pubblico a partire dal 2011 facendo nascere importanti movimenti di protesta contro lo status quo, rivendicando i diritti fondamentali per la propria gente, diritti fino ad ora negati da parte dei diversi potentati clanistico-familistico-confessionali.

Dall’ottobre 2019 le coraggiose proteste pacifiche di questi movimenti si sono ulteriormente intensificate malgrado la feroce repressione da parte degli apparati di “sicurezza” e delle varie milizie. Esse continuano a denunciare instancabilmente la corruzione e l’assenza dello stato, in quanto garante dell’ordine pubblico e dei diritti fondamentali per i suoi cittadini. I giovani manifestanti, in gran parte appartenenti alla popolazione di confessione sciita, rivolgono forti critiche ai gestori dell’affare pubblico, anche essi, tra l’altro, prevalentemente sciiti, il che confuta una certa lettura “culturalista” che vuole fare credere che le dinamiche socio-politche della regione abbiano origine esclusivamente da appartenenze religiose e confessionali. I movimenti giovanili in Iraq hanno evidenziando l’originaria malformazione dell’assetto politico nato dall’occupazione statunitense, basato su una visione confessionalizzante e etnicizzante in cui il potere viene esercitato da satrapi locali e dinastie familiari camuffate in abiti talari, “turbanti religiosi” e “turbanti tribali”. Il potere di fatto è gestito da combriccole che si sono spartite il Paese e le sue ricchezze creando feudi personali. Il fattore principale, responsabile per questa situazione disastrosa è, secondo molti analisti e osservatori dell’area, la stessa “Costituzione” del 2005, basata su una logica di spartizione del potere lungo linee confessionali ed etniche.
Questo quadro non è più né tollerabile né sostenibile, pertanto la pratica politica necessita una revisione radicale al fine di cambiare l’assetto istituzionale, tenendo presente l’importanza della partecipazione di tutte le forze sociali e politiche che da tempo rivendicano la riforma delle istituzioni e pretendono una nuova Carta costituzionale che metta al centro la concezione dei diritti di cittadinanza e delle pari opportunità fra tutti gli iracheni, donne e uomini, senza distinzione alcuna.
Quindi per comprendere gli effetti della visita di Papa Francesco sull’aggrovigliata e spinosa situazione del “Paese dei due fiumi” sarà necessario continuare a osservare l’evoluzione politica e le mosse dei molteplici attori sia interni che esterni.

Iraq, una visita storica e la lunga strada verso la riconciliazione

testi e link ripresi dalla newsletter mensile di “FADA Collective” (*)

Francesco è stato il primo pontefice nella storia a visitare l’Iraq. Una visita epocale e simbolica perché il pontefice ha attraversato tutto il Paese, da Baghdad a Najaf, città santa degli sciiti, passando per Ur, luogo simbolo delle tre religioni monoteiste fino ad arrivare a Mosul e Qaraqosh. Un viaggio per incontrare tutti gli iracheni, senza distinzioni di fede e di appartenenza comunitaria.

Per l’occasione, ma anche e soprattutto per raccontare la ricostruzione e le sfide della riconciliazione nel paese, Sara Manisera e Arianna Pagani sono in Iraq, ad oltre un anno dalla loro ultima visita.

Sara e Arianna hanno seguito l’itinerario del pontefice, per raccontare luoghi e le comunità, iniziando da Mosul, nel nord dell’Iraq. Simbolo di coesistenza millenaria tra numerose comunità, la città è stata occupata dallo Stato islamico tra il 2014 e il 2017. Il patrimonio artistico è stato completamente distrutto, mentre i cristiani e altre minoranze che la abitavano sono fuggite e oggi faticano a tornare.

A tre anni dalla sconfitta militare dell’auto-proclamato califfato, le ferite dell’ISIS sono ancora aperte. “Far rivivere lo spirito di Mosul”, un progetto realizzato dall’Unesco, sta provando a guarirle.
Qui potete guardare il video reportage realizzato da Sara e Arianna per la Radiotelevisione Svizzera – RSI.

Qaraqosh è stata la tappa successiva. Qui il Papa ha pregato nella chiesa dell’Immacolata Concezione che l’IS aveva devastato, trasformandola in un poligono di tiro.
A questo link, trovate il racconto del clima di grande attesa nella città, sempre per la televisione svizzera.

Sara Manisera e Arianna Pagani hanno poi chiesto ai cittadini di Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, come avessero vissuto la visita. Nel “Sūq”, il mercato storico della città, i punti di vista erano molto diversi, come raccontato dal reportage video per RSI – Oltre la news.

Non c’è occasione migliore per esplorare altre storie irachene, a cui Sara e Arianna hanno lavorato negli ultimi anni.
In questo reportage per ARTE, ci portano tra giovani in prima linea nelle proteste del 2019 a Baghdad.

Qui invece il web-doc “Iraq without waters”, un viaggio lungo fiumi ‘mitici’, il Tigri e l’Eufrate, da Mosul a Baghdad, da Bassora alle Paludi Mesopotamiche, attraverso aree un tempo fertili e prospere, e oggi minacciate da inquinamento, estrattivismo e corruzione. Al centro della storia c’è la battaglia di un gruppo di giovani attivisti, riuniti nella campagna Save the Tigris, lanciata per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione delle risorse idriche e incoraggiare la popolazione irachena a battersi per il proprio diritto all’acqua, ad un ambiente sano, alla salute.

Ultimo capitolo di questo viaggio, il web-doc Donne fuori dal buio in cui a quindici anni dall’invasione americana, quattro donne – un’avvocata, un’attivista, un’ingegnera e una madre – raccontano come si vive oggi in Iraq, come la loro vita sia cambiata da quel drammatico 2003.

Ne avrete almeno per una lunga serata.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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