di Gianluca Cicinelli
Mentre riprendono gli sbarchi di migranti sulle coste italiane torna a galla la questione libica con tutta la sua forza. Le immagini e i racconti delle torture nei centri di detenzione del regime di Tripoli non sono bastate in questi anni a fermare la scellerata collaborazione tra le autorità italiane e quelle libiche, prima con Minniti ministro dell’Interno, poi con Salvini e infine con Lamorgese. A denunciare ciò che avviene all’interno dello Stato africano – a partire dall’utilizzo dei migranti come merce di scambio con le altre nazioni – stavolta è un rapporto di 548 pagine, redatto dagli ispettori delle Nazioni Unite. Nel dossier sono esplicitate le tangenti per far nominare il nuovo presidente, le faide tra milizie e gli accordi indicibili con i governi esteri, il fallimento dell’embargo sulle armi, le continue violazioni dei diritti umani, i campi di tortura istituzionalizzati, il contrabbando di petrolio, di armi, di droga e di esseri umani, usati come pedine per i rapporti interni al regime, massa d’urto usata come pressione per ottenere soldi dai governi europei.
E sotto accusa finiscono gli accordi firmati dal governo italiano con le autorità di Tripoli, proprio nel momento in cui il presidente del Consiglio Draghi annuncia il suo viaggio in Libia per il 6 e 7 di aprile, preceduto dalla visita del ministro degli Esteri Di Maio venerdì 26 marzo per continuare a chiedere il blocco delle partenze dei migranti via mare. Ma l’esecutivo italiano non si è curato della denuncia dello slovacco Ján Kubiš, l’inviato speciale dell’Onu a capo della missione sulle condizioni umane nel paese che fu di Gheddafi. Kubiš davanti al Consiglio di sicurezza ha svelato il deterioramento ulteriore del rispetto dei diritti umani fondamentali, smentendo che gli accordi internazionali abbiano portato a un miglioramento del quadro generale dei diritti.
Il premier libico del governo transitorio, Abdul Hamid Dbeibah, che ha il compito di portare la Libia verso le elezioni del prossimo 24 dicembre, nominato a interim il mese scorso (con il voto di 75 funzionari libici di entrambe le fazioni in campo) sotto l’egida dell’Onu, giurando una settimana fa a Tobruk aveva puntato l’indice contro le divisioni del Paese. Ma le sue parole, denuncia Ján Kubiš, sono smentite dagli scandali. La missione Onu ha registrato testimonianze in merito a un’offerta di tangenti fino a 200 mila dollari per alcuni dei 35 delegati che hanno votato per Dbeibah come primo ministro, un risultato effettivamente inaspettato prima del voto. E nonostante il cessate il fuoco tra la fazione di Fayez al-Sarraj e quella di Khalifa Haftar la missione Onu ha documentato uccisioni, sparizioni forzate, violenze, stupri, arresti e detenzioni arbitrarie, attacchi contro attivisti e difensori dei diritti umani e crimini ispirati dall’odio. La libertà d’espressione è compromessa. Vari gruppi armati continuano ad operare senza incontrare ostacoli.
Ján Kubiš ha rivelato al Consiglio di sicurezza che sono 3.858 i migranti detenuti in centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale, in condizioni estreme, privati dei più elementari diritti. Parole dure le sue, anche contro l’ipocrisia di chi pensa che la presenza delle agenzie Onu in Libia sia una garanzia di rispetto dei diritti umani e giustifica con questo la cattura in mare dei migranti da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, che restituisce ai campi di prigionia i migranti intercettati. Ogni riferimento agli accordi firmati dall’Italia con la Libia non è per niente casuale. Ma le detenzioni illegali oltre ai migranti riguardano gli oppositori politici, 8.850 persone detenute arbitrariamente in 28 carceri ufficiali sotto la custodia della polizia giudiziaria, con una percentuale stimata fra il 60 e il 70 per cento in custodia cautelare. A questi vanno aggiunte 10 mila persone, tra loro 63 minori, detenute in centri di detenzione sotto l’autorità di milizie e gruppi armati.
Avvicinati dalla missione Onu i vertici delle Forze armate libiche hanno spiegato ai funzionari che le detenzioni “sono una necessità della politica migratoria degli Stati membri dell’Unione Europea”. Una politica che vede l’Italia protagonista indiscussa e i cui accordi sono messi all’indice dalla missione Onu, che scrive: “Nel febbraio 2020 è stato rinnovato per tre anni il memorandum d’intesa Libia-Italia sulla migrazione. L’accordo, i cui dettagli operativi non sono mai stati resi noti dai governi italiani, prevede il supporto italiano alle autorità marittime libiche per intercettare le imbarcazioni e riportare i migranti in Libia. Nel luglio 2020 il parlamento italiano ha approvato la componente finanziaria dell’accordo”. Altro Paese sul banco degli imputati è Malta. “Nel giugno 2020 la Libia ha firmato con Malta un accordo nel settore della lotta all’immigrazione clandestina con il quale Malta si è impegnata a finanziare due centri di coordinamento e a proporre alla Commissione europea e agli Stati membri dell’Europa l’aumento del sostegno finanziario per aiutare il governo e rafforzare le capacità di intercettazione dei migranti”.
Tra le strutture che ricevono sostegno finanziario in seguito agli accordi con Italia e Malta il luogo peggiore resta il campo di prigionia Al-Nasr a Zawyah, centro petrolifero sulla costa, tra Tripoli e il confine con la Tunisia. “Il panel – si legge nel rapporto – ha scoperto che il suo direttore de facto, Osama al-Kuni Ibrahim ha commesso diverse violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani”. A Zawyah la missione Onu ha raccolto i racconti dei prigionieri, dove i migranti hanno denunciato rapimenti a scopo di riscatto, tortura, violenza sessuale e di genere, lavoro forzato e uccisioni. La rete delinquenziale che avvolge Zawiyah – riassume il report – deve il suo ruolo preminente e la sua intoccabilità al contrabbando di carburante.
Ma tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei governi europei, Italia in testa. Lo conferma l’uomo forte del nuovo governo, il ministro dell’Interno Fathi Bashagha, che nell’incontro con i funzionari delle Nazioni Unite ha legato l’attività delle prigioni alla pressione esercitata da alcuni Paesi europei per impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo”. Il ruolo dell’Italia nell’alimentare questa mattanza con gli accordi reiterati da quattro diversi governi non è mai venuto meno.