Nel 1996, quasi ’97, scrivevamo sui nostri manifesti: “Il tempo è ora!“. Lo ribadiamo oggi in interessantissimi convegni su Internet, e non sembri una ripetizione dettata da chissà quale dimenticanza di uno slogan del passato. Tutt’altro: è una necessità dell’oggi, dell’immediatezza quanto di una prospettiva di più lungo termine che va messa al servizio di un lavoro non certo facile per la riaffermazione di una serie di proposte politiche e sociali della sinistra anticapitalista e antiliberista.
Il tempo è ora perché non si può più rivolgere lo sguardo a tentativi falliti, a fallimenti prodotti dall’improvvisazione dettata dai ritmi frenetici delle campagne elettorali. Ed il tempo è ora, perché non si può saltare a Rodi soltanto, lasciando ad intendere che si è capaci di chissà quali trasformazioni sociali sempre e comunque, magari per mezzo di partecipazioni a maggioranze di governo che nulla hanno a che vedere con la sinistra, anche pallidamente moderata. Ma si deve saltare ovunque si possa immaginare che Rodi c’è, che sta sotto i nostri piedi e quindi dare al pensiero e alla voglia di ricomposizione e ricostruzione dell’anticapitalismo un terreno ovunque sia possibile.
Bisogna lanciare una grande campagna culturale, politica e sociale che metta alla prova tutte le strutture della nostre forze politiche, quelle della attuale sinistra di opposizione al governo Draghi, iniziando da quel lavoro di inchiesta che Angelo d’Orsi ha molto bene richiamato come strumento di interconnessione tra formulazione delle rivendicazioni della classe degli sfruttati e i soggetti politici che vogliono poterla rappresentare nella attuale cosiddetta “modernità“.
Avevamo già provato a parlare con i lavoratori, con i pensionati e con gli studenti che si avvicinavano alle soglie della fase liberista di una economia che abbandonava progressivamente i legami con lo stato-sociale: si era trattato di una indagine che aveva coinvolto solamente Rifondazione Comunista e che aveva prodotto una visione di insieme utile per cercare di adeguare le lotte politiche a quelle sociali, creando una sinergie tutt’altro che inedita e che, anzi, voleva riprendere metodi sperimentati nel passato, attraverso i quali il movimento comunista e progressista era cresciuto e si era radicato entro i meandri più irraggiungibili della popolazione, del mondo dei lavoratori.
Lo ha ricordato bene Moni Ovadia, citando l’esempio greco, nonostante la fine poco gloriosa del governo Tsipras che, nonostante la vittoria del “no” (il famoso “Oxi“), alla fine accettò di firmare il piano dei creditori internazionali nei confronti del pesantissimo debito ellenico: l’esperienza di SYRIZA aveva dimostrato che la sinistra antiliberista poteva tornare a far valere una serie di valori e di proposte pratiche per rendere evidente, prima di tutto, che le soluzioni moderate dei partiti cosiddetti “di centrosinistra” non erano e non sono oggi rimedi al malessere sociale diffuso. Anzi, peggiorano la condizione di sopravvivenza di milioni di moderni proletari, di indigenti che vengono dalle fila della precarietà e dello sfruttamento, perché permettono alle forze di centro e di destra di farsi largo sul terreno economico e di velare il tutto con una sembianza di socialità tanto ipocrita quanto lo è la partecipazione a governi di questo tipo da parte di forze presuntamente progressiste.
Il primo punto, su cui non è più permesso flettere e piegarsi, è il ricatto dell’utilità di una politica – quindi di un presunto “voto utile” – che nel nome della difesa dei diritti fondamentali di libertà e uguaglianza civile fa pagare il costo del fallimento delle economie nazionali sempre e soltanto al mondo del lavoro, a quello della precarietà e a quello della miserevole condizione dei più negletti: primi fra tutti i migranti che sono sempre impiegati nei lavori più umili e peggio pagati.
Il secondo punto, tecnico ma nettamente politico, esige di mettere all’ordine del giorno, tra le priorità, la lotta per un ritorno ad una legge elettorale proporzionale che garantisca, almeno sul piano della rappresentanza e della delega ai parlamentari, il recupero di una sovranità persa dai cittadini: quella di veder riconosciuto il loro voto eguale a qualunque altro, senza distinzione per grandezza di schieramento, senza soglie di sbarramento che determinino un pregiudizio nella possibilità di accesso al Parlamento anche per rappresentanze politiche minori.
In terza istanza, senza obbedire alla presunzione di innocenza di quel luogo tutto inventato di una politica delle compromissioni che è il “centrosinistra“, si può iniziare a ragionare sulle fondamenta anzitutto culturali di una rivendicazione sociale che non sia declinabile né al centro e tanto meno a destra con troppa facilità: per fare ciò serve una analisi spietata dei rapporti di forza tra la classe di chi detiene i mezzi di produzione e dell’alta finanza, che governano i processi produttivi, e la classe di tutti coloro che ne sono esclusi.
Questi ultimi sono la stragrande maggioranza della popolazione e sono i lavoratori e le lavoratrici del nuovo millennio: ben due miliardi e mezzo di salariati nel mondo, con un incremento nella sola Europa – nel ventennio ultimo – di ben trenta milioni e mezzo di persone (su 750 milioni di abitanti nel Vecchio Continente) entrate nei circuiti produttivi, al servizio di un imprenditore.
Consideriamo la vittoria dei riders su Just Eat e il loro riconoscimento come lavoratori dipendenti, a cui da oggi spettano i diritti di tutti gli altri: ferie, mutua, sindacalizzazione, eccetera. E’ emblematico come ciò sia avvenuto tramite un vero e proprio spontaneismo che ha coinvolto questi (per lo più) giovani lavoratori e li ha uniti al di là delle varie sigle che gestiscono l’asporto del cibo, al di là dei contesti locali, persino della loro provenienza che impropriamente possiamo definire “etnica“.
La vittoria dei riders profuma di lotta di classe, è una vittoria veramente sul padrone: invisibile, che ha un nome comune, un nome “improprio“. Il nome di una ditta, algoritmi che controllano le corse in bicicletta o in moto, la produttività del singolo ipersfruttato e separato dal resto della forza-lavoro, messa in una condizione di spietata concorrenza vicendevole. Eppure questi lavoratori sono riusciti ad organizzarsi e a dare una lezione tanto al sindacato, che solo successivamente li ha assistiti, quanto a noi che vorremmo poter essere la sponda politica di nuove forme di lavoro totalmente escluse dalle più elementari tutele riconosciute a partire dalla Legge 300.
Se la sinistra anticapitalista vuole davvero progettarsi in grande, deve capire questi fenomeni di lotta di classe tanto quanto si impegna nella impervia impresa per un ritorno nelle aule parlamentari. Non è utile mettere in contrapposizione questi aspetti, ma sarebbe un ricadere nell’errore tattico (oltre che di più lungo e ampio spettro strategico) considerare preminente l’accesso al Parlamento trascurando quel rapporto con il mare magnum del popolo sfruttato e privato di una diga di contenimento antisociale.
Insomma, ripetendo concetti già usati e abusati, senza una critica antiliberista senza se e senza ma, non c’è sinistra vera, non c’è rinascita culturale che, a sua volta, è valorizzazione delle esperienze quotidiane, dei rapporti di vita e di sopravvivenza in un biennio pandemico terribile, dove Confindustria pretende la fine del blocco dei licenziamenti, dove al governo c’è un superbanchiere internazionale e dove una certa sinistra pensa ancora di poter far valere qualche rivendicazione sociale. Ma in un contesto del genere c’è davvero spazio al governo per i diritti dei lavoratori?
Se la risposta è sì, i nostri interlocutori sono altrove, fuori da quelle stanze, fuori da quelle aule