Caratteri della “democrazia” statunitense e della “dittatura” democratica cinese.
Il 18 e il 19 di marzo passato si è svolto un importante incontro, durato due giorni, a Anchorage (Alaska) tra Antony Blinken e il consigliere della Sicurezza nazionale Jake Sullivan con il direttore dell’Ufficio della Commissione centrale cinese degli affari esteri Yang Jiechi, e il ministro degli Esteri Wang Yi. Si è trattato del primo confronto ad alto livello tra Stati Uniti e Cina dopo che Joe Biden è diventato presidente della superpotenza lacerata da gravi contraddizioni.
Gli interventi di apertura, che sono durati più di un’ora invece di pochi minuti come si suole in questi casi, sono stati improntati a critiche e avvertimenti reciproci, e ambo le parti hanno accusato l’ospite di violare il protocollo degli incontri.
Il dissidio tra i due grandi paesi ha molte ragioni: economiche, politiche, militari, ideologiche, ma in questa sede mi limiterò ad abbozzare la differenza tra i due regimi politici: nelle parole dei dirigenti statunitensi “democratico” il loro, “autoritario” quello cinese (insieme a quello russo).
Questa interpretazione è stata duramente contestata da Yang, il quale ha esortato Washington a smetterla di propagandare la propria versione di “democrazia” in un momento in cui negli stessi Stati Uniti si sono verificati gravi avvenimenti che ne hanno turbato l’equilibrio politico. Ha proseguito: “Crediamo sia importante che gli Stati Uniti modifichino la loro immagine e cessino di voler promuovere la loro «democrazia» nel mondo, anche perché molti cittadini di quel paese in realtà sembrano nutrire scarsa fiducia in quella tanto decantata democrazia”. Certo, Yang pensava alle violenze della polizia contro gli afroamericani e alle migliaia di profughi latino-americani, tra cui 4.000 bambini non accompagnati, bloccati alla frontiera tra Messico e Stati Uniti in condizioni subumane in attesa di un’apertura assai difficile da prevedere.
Come riporta Rt, il canale russo in spagnolo, l’analista Martin Jacques, giornalista e accademico britannico, invitato dall’Istituto di Relazioni internazionali dell’Università di Tsinhua e membro senior dell’Istituto cinese dell’Università di Fudan, ha scritto che gli Stati Uniti non possono tollerare che la Cina sia oggi loro pari, ma purtroppo per loro debbono abituarsi a questo incontestabile fatto.
Maria Zajarova, portavoce della Cancelleria russa, ha affermato che i diplomatici cinesi hanno mostrato al mondo come sanno comportarsi davanti agli statunitensi che hanno, da parte loro, cercato di umiliarli in quell’occasione.
La risposta dura alle violente critiche statunitensi ha evidenziato che qualcosa è cambiato e che l’America non funge più da regista dello spettacolo. I diplomatici cinesi, fiduciosi nella forza crescente del loro paese, hanno messo in discussione apertamente la legittimità della stessa posizione yanquee e ciò dinanzi ai media di tutto il mondo, provocando imbarazzo e disagio nella delegazione nordamericana come si poteva ricavare dal linguaggio e dai gesti dei suoi componenti.
Osserva Jacques che oggi non è prevedibile un ritorno allo status quo (i disastrosi anni ’90 e i primi del 2000) [1] e che le relazioni tra Stati Uniti e Cina debbono fondarsi sull’uguaglianza e la reciprocità, cosa che dovrebbe indurre i politici nordamericani ad abbandonare la loro tradizionale arroganza e il loro ormai ingiustificato senso di superiorità. Del resto, che abbiamo ormai perso la testa, non so se in senso reale come si vocifera, si ricava dalle accuse di Joe Biden a Vadimir Putin, il quale sarebbe a suo dire un assassino. Dimenticando il caso di Julian Assange], del quale il presidente statunitense chiede con insistenza l’estradizione, ha espresso tutta la sua preoccupazione per la violazione dei “diritti umani” di Alexey Navalny, leader di gruppi nazionalisti e xenofobi, che ha studiato all’Università di Yale e che i servizi segreti russi avrebbero tentato di avvelenare. Mostrandosi un consumato uomo politico, Putin ha risposto all’accusa augurando buona salute a Biden e sottolineando abilmente come quelle parole scaturivano da un noto meccanismo di proiezione, in base al quale secondo la psicoanalisi proiettiamo sugli altri l’immagine che abbiamo di noi stessi.
Passiamo a delineare alcuni tratti della “democrazia” intesa in senso americano di cui un recente documento della Casa Bianca riconosce la crisi, pur proponendosi di restaurarla a livello mondiale (i progetti degli Stati Uniti riguardano sempre tutti volenti o nolenti).
In un interessante articolo de “La Civiltà Cattolica”, rivista dei gesuiti, si delineano i tratti di questa crisi, che avrebbe radici nel passato e sarebbe stata originata dalla presenza di lotte intestine che hanno spaccato il paese nelle varie fasi della sua storia. Osserva Drew Christiansen in questo testo: “Agli inizi della Repubblica imperversava una feroce competizione politica tra federalisti e repubblicani, a base di imbrogli e assassini. Dal 1820 al 1860 i sostenitori della schiavitù e i loro avversari hanno ingaggiato un’aspra lotta, che è sfociata nella guerra civile. La Ricostituzione (periodo compreso tra il 1863 e il 1877) fornì solo una soluzione temporanea, fino a quando le leggi Jim Crow (a partire dal 1870) ristabilirono la supremazia dei bianchi sui neri”. Supremazia che rende alquanto improbabile la vigenza in quel paese del principio di uguaglianza ribadito nella Dichiarazione di indipendenza: “tutti gli uomini sono creati uguali” e “sono stati dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti [alla] vita, libertà e ricerca della felicità”.
Proprio in questi giorni, in cui ha preso inizio il processo contro l’accusato del brutale assassinio di George Floyd (un poliziotto), cui ne sono seguiti altri, è diventato chiaro anche a chi restava aggrappato al cosiddetto “mito americano” che l’uguaglianza è inesistente in questa parte del mondo, dove del resto i livelli di disuguaglianza e di povertà sono altissimi e sono ulteriormente aumentati a causa della pandemia. Chi ha passeggiato per Manhattan, centro commerciale e finanziario di New York, ha potuto osservare numerosi mendicanti e anche persone con gravi turbe psicologiche lasciate a loro stesse nei pressi dei luccicanti grattacieli, ma anche di locali abbandonati e in sfacelo. Uno spettacolo triste e contraddittorio del tutto in linea con l’assalto al Campidoglio di quella torma grottesca e invasata spinta a ciò da Donald Trump, altro personaggio, il cui comportamento non può che sconcertare chi cerca di ragionare.
Secondo la prestigiosa rivista cattolica alla base di questa crisi e di queste contraddizioni stanno questi fattori: “il declino della coscienza civica, il decadimento dei media, la degenerazione dei processi politici e le disfunzioni del sistema costituzionale americano”. Tutti fenomeni, credo, che sono strettamente connessi al regime sempre più oligarchico instauratosi negli Stati Uniti grazie allo sfacciato predominio
delle multinazionali che vogliono dettar legge a tutto il mondo.
Condivido l’opinione della rivista sul declino yanquee, tuttavia mi sembra importante anche la successiva osservazione, secondo la quale tracciando la struttura politico-istituzionale del paese i suoi Padri Fondatori si sono preoccupati di una possibile deriva democratica e hanno progettato la Costituzione dotandola di una serie di controlli per ostacolare l’affermazione del potere del popolo. E proprio per questo hanno elaborato un sistema elettorale estremamente complicato, indiretto e distinto in due fasi; nella prima, dopo che i partiti hanno scelto nelle elezioni primarie il loro candidato alla presidenza, gli elettori (in realtà l’accesso al voto non è facilmente ottenibile) residenti in ogni Stato votano per un candidato appartenente ai due diversi partiti politici (democratico e repubblicano); nella seconda fase il vincitore di questa tornata elettorale assume il ruolo di grande elettore e darà il suo voto a chi considera degno di essere presidente dello Stato federale tra i due individui designati dai partiti, e in quanto tale dotato di straordinari poteri. Di fatto, a seconda degli accordi lobbistici, spesso un grande elettore democratico vota per un presidente repubblicano e viceversa.
Il carattere oligarchico dello Stato federale è dato sostanzialmente da due elementi: i gruppi lobbistici, legati ai vari potentati economici, sostengono un loro candidato e ne finanziano la campagna elettorale che oscura la presenza già assai limitata di altre forze politiche; i loro membri vengono cooptati nel governo assumendo incarichi importanti che orientano la politica interna ed estera. Naturalmente sotto questo livello alquanto visibile se ne colloca un altro più oscuro ma non meno determinante solitamente denominato come “Stato profondo”, da identificare con quelli che Althusser definiva gli apparati di Stato comprensivi anche dei vari servizi segreti che farebbero impallidire per la loro capillarità la tanto deprecata Stasi (Ministero per la sicurezza di Stato nella Repubblica democratica tedesca).
A questo punto è opportuno dare qualche elemento per inquadrare l’organizzazione politica della Cina, il paese “autoritario” e pericoloso competitore degli yankee. Nella Costituzione cinese (1982) si può leggere che la Cina è un paese socialista fondato sulla dittatura democratica popolare guidato dalla classe operaia e basato sull’alleanza tra operai e contadini. Ovviamente la parola dittatura farà sobbalzare i “democratici”, ma se si parte dal punto di vista secondo ogni Stato ha un carattere di classe, la “democrazia” statunitense equivale alla dittatura dell’alta borghesia (esigua minoranza) sulle masse popolari, mentre quella cinese si fonda sulla dittatura della maggioranza (masse popolari) sulla minoranza. E quindi – mi sembra – un passo avanti. D’altra parte, come scrivono gli stessi studiosi cinesi, nell’ex impero celeste la borghesia non è stata espropriata economicamente – e ciò per favorire lo sviluppo delle forze produttive – ma solo politicamente. Tuttavia, a differenza di quello che si ricava dalla vulgata massmediatica, nell’Assemblea popolare nazionale, supremo organo del potere statale, oltre al Partito comunista siedono altri 8 partiti democratici, con i quali il primo ha costituito il Fronte unito. Inoltre, secondo l’articolo 59 della Costituzione cinese in essa sono presenti anche i rappresentanti delle regioni autonome, delle minoranze etniche e dell’esercito. A livello di cantone e di distretto operano le Assemblee popolari locali elette direttamente, i cui membri eleggono a loro volta gli organismi superiori. Quindi anche in questo caso vige il sistema indiretto di elezione delle massime autorità e viene attribuito un ruolo politico importante anche alle personalità apartitiche, benché alcuni esponenti politici abbiano richiesto l’introduzione dell’elezione diretta a suffragio universale. Coloro che dovranno ricoprire le cariche più importanti, come il capo dello Stato, i ministri etc., vengono nominati dall’Apn, la quale dà anche forza di legge alle decisioni di grande rilevanza prese a livello nazionale ed elegge il Comitato permanente.
Si potrebbe criticare questo tipo di organizzazione, ma non certo contrapponendo a essa il finto dualismo tra repubblicani e democratici, che costituiscono il partito di Wall Street, o l’accozzaglia dei partiti italiani oggi al governo privi di qualsiasi visione politica degna di questo nome e divorati da un volgare opportunismo. E inoltre guidati da un ex banchiere che nessuno ha mai eletto.
Un altro organo importante è rappresentato dalla Conferenza politica consultiva del popolo cinese, formata da delegati appartenenti alle varie organizzazioni sociali, ai diversi partiti e dalle già ricordate personalità apartitiche etc., la cui funzione è quella di elaborare proposte, di esprimere il suo parere sulle questioni rilevanti di politica nazionale con la possibilità di criticarle e quindi di sollecitare una loro modifica. Al suo vertice sta il Comitato nazionale che include i rappresentanti degli stessi soggetti indicati in precedenza.
Tale struttura, in cui il Partito comunista ha un innegabile ruolo centrale, è certamente gerarchica, come d’altra parte lo è quella dello stesso partito, organizzato anch’esso in forma di piramide che si regge sulle organizzazioni di base e su quelle di livello superiore.
Concludendo, si può affermare che la società cinese, collocata ad oggi nella “fase primaria del socialismo” (come gli stessi cinesi la definiscono) da cui dovrebbe gradualmente procedere verso forme sociali più avanzate, non ha ancora realizzato l’effettivo autogoverno dei lavoratori tentato dalla straordinaria esperienza della Comune di Parigi, il cui 150° anniversario ricorre questo anno [3]. Tuttavia, a me sembra ugualmente innegabile che sta facendo enormi sforzi per riorganizzarsi come per esempio con l’introduzione a partire dal gennaio di quest’anno di un Codice civile in cui elementi tradizionali sono stati coniugati con principi tratti dal diritto romano nella prospettiva della costruzione di uno Stato di diritto socialista.
https://www.lacittafutura.it/esteri/la-democrazia-statunitense-e-quella-cinese
Note:
[1] Ricordo l’intervento della Nato nella ex Jugoslavia, avvenuto il 24 di marzo 1999, deciso nonostante il parere contrario del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
[2] L’ultima informazione su Assange, sempre chiuso nel carcere di alta sicurezza di Belmarch, risale al 12 febbraio. La sua vicenda è immersa nel buio completo. L’ho voluto qui ricordare per esprimergli tutta la mia solidarietà.
[3] Anche perché una cosa è governare una città sia pure come Parigi, altra cosa un paese di un miliardo e 300 milioni di abitanti.
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