Non solamente negli ultimi mesi, tanto meno nell’ultimo anno, abbiamo un po’ tutti riscontrato una tendenza della politica a non dotarsi di una visione di lungo corso ma a sopravvivere in una quotidianità disarmante; atteggiamento pressapochista oggi giustificato – almeno un po’ – dalla pandemia.
Per capire le involuzioni e le evoluzioni nel presente in divenire, già in parte futuro, della società italiana è chiaro che vanno connessi molteplici fattori: economia, politica, società a più strati e interconnessioni con le altre reti moderne che rappresentano non soltanto scambi commerciali ma nuovi assi portanti dello sviluppo globale di mondi sempre più ampi entro la vera e propria globalizzazione capitalistica, tutta in salsa liberista.
La politica italiana e non di meno anche quelle di altri paesi tanto europei quanto americani, africani ed asiatici sono protagoniste di una retroguardia anzitutto economica, dovuta alla diffusa crisi mondiale di mercati che debbono affrontare altalenanti salite e discese in termini di sovrapproduzione a fronte di un incremento demografico che non corrisponde meccanicisticamente in alcun modo ad un altrettanto uguale incremento di ricchezze.
La crisi della politica in generale, il suo stare non uno ma due passi indietro rispetto alla dirigenza dei mercati, è conseguenza anche di eventi di portata globale che non possono essere trascesi, verso i quali non si può fare finta di niente. Ed anche nel nostro Paese, in questi ultimi dieci anni almeno, abbiamo assistito ad un riassestamento degli equilibri parlamentari e ad una ridefinizione pressoché totale di una serie di punti di riferimento politici che non ha eguali nella storia della Repubblica.
Partiti conservatori di destra, estreme destre, partiti progressisti più o meno di sinistra e forze di centro hanno definito come “innovazione” e “ammodernamento” una serie di mutazioni genetiche non dettate da una sincera propensione ad un vero rinnovamento ideale, culturale e socio-politico.
Tutt’altro: partiti e, successivamente, movimenti hanno inseguito la disperazione, hanno vissuto un dramma molto poco shakesperiano, troppo kafkiano e latamente beckettiano, dove all’amore per la politica, in principio convivente anche con interessi particolari e niente affatto volti al bene comune, agli interessi della Repubblica, si è venuto progressivamente sostituendo uno schema di elaborazione di piccoli, ignobili tatticismi per sopravvivere all’interno di un mondo che, essendone anche l’Italia parte integrante e interagente, stava mutando con pericolosissima velocità.
Proviamo a scorrere le trasformazioni politiche degli ultimi lustri: la nascita del PD – forse la mutazione antigenetica più rilevante, unica in Europa nel suo genere – quale grande progetto ideale ha fondato o riproposto dalla fusione della cultura socialdemocratica con quella popolare cristiana del cosiddetto “cattolicesimo di base“?
Nulla di nuovo: da un periodo di sperimentazione della convivenza di anime che si erano fino ad allora trattate come buone amiche e alleate, si era dovuti passare alla fondazione di una nuova ragione d’essere, se davvero non si voleva solamente apparire per quello che era, ossia un tentativo di sopravvivere all’avanzata di destre che avevano ancora una certa forza in un berlusconismo di risulta, e tuttavia non sottovalutabile, almeno fino al primo decennio del 2000 come intercettatore degli interessi tanto della classe media quanto di quella imprenditoriale.
Così, il PD nel corso della sua giovane vita ha costretto milioni di cittadini ed elettori di sinistra a diventare altro da sé stessi, a tramutarsi in sostenitori del “meno peggio“, a divenire riformisti nel riformismo stesso, a considerare sempre meno la dialettica tra gli opposti e sempre più l’incontro tra differenze che avrebbero avuto ancora una ragione d’essere se non si fosse precipitosamente ricorsi alla teoria della “morte delle ideologie” sulla spinta della fine dei blocchi contrapposti nel dopo-guerra fredda.
La geopolitica mondiale ha fatto da propulsione e da fulcro sostenitore di ogni tentativo di “salvare il salvabile” dalle esperienze della sinistra comunista in Europa, più precisamente in Italia, e ha seguito con attenzioni le sorti dei trasformismi opportunistici di chi fino a poco tempo prima era (o si diceva) comunista e, nel corso di un’annata, aveva deciso – mutatis mutandis – di socialdemocratizzarsi per tentare la scalata governista e adattare lo spirito progressista del cambiamento totale ad un nuovo totem: quello delle riforme di sistema, delle riforme di governo e, non ultime, di tante pericolose riforme costituzionali sempre per “modernizzare” la Repubblica, pericolosamente avviluppata in una riscrittura della storia che era solo all’inizio.
La politica italiana, dunque, è stata dominata dal demone della disperazione nella rivoluzione e nell’evoluzione delle sue forze politiche moderne.
Conclusasi la presunta “rivoluzione” di Tangentopoli, apertosi il ciclo dei governi tecnici mentre centrodestra e centrosinistra vivevano le loro cicliche crisi nei perimetri incerti delle alleanze e nella scambievole rappresentanza dei cosiddetti “ceti produttivi” del Paese, il passo successivo della sottile linea della disperazione politica si è formalizzato nel legame sempre più stretto tra due assi portanti che hanno dettato l’agenda dell’azione dei governi: sul terreno economico il dualismo tra dinamiche europee (BCE, Draghi in primis) e prete confindustriali; sul terreno sociale e civico – che avrebbe dovuto principalmente interessare la natura laica della Repubblica – le tante intromissioni della Chiesa cattolica nella vita sia degli italiani sia dell’Italia come Paese, come Stato, come unità politica, civile e morale di un popolo.
Negli ultimi dieci anni la trasformazione dei partiti italiani, primi fra tutti PD, Lega e Cinquestelle, si è così nutrita di un trasformismo tattico da far perdere qualunque contatto con la natura originaria che si erano dati.
Qui entrano in gioco differenze non da poco, se si osserva caso per caso: del PD abbiamo detto, ma se si osserva la circonvoluzione della Lega da forza pluri-regionalista, nordista all’ennesima potenza, secessionista, antieuropeista, e la si paragona al risultato (finale?) ottenuto con la cancellazione del “Nord” dal proprio nome e con l’attribuzione sempre più identitaria con la figura del nuovo segretario sovranista, è straevidente che se c’è un esempio di recupero in zona Cesarini dalla disperazione, da una finitudine decretata dagli scandali del passato (trote, diamanti, eccetera, eccetera), per eccellenza è proprio questo.
Gattopardismo dal sapore meridionalista? Mutaformismo interstellare galattico alla Star Trek o Star Wars? La fantasia non avrebbe confini, ma la realtà ne ha ancora meno. Chi si sarebbe mai aspettato di vedere dei secessionisti, negazionisti dell’Unità d’Italia e dalla stessa Italia come nazione sovrana e indipendente, diventare dei paladini del patriottismo, accesissimi sovranisti, recuperando il tricolore dalle acque putride di un bagno e innalzarlo a vessillo del nuovo corso del Carroccio? Pochi avrebbero potuto immaginare che la disperazione (e l’ambizione) potessero far fare giravolte a centottanta gradi come quella cui abbiamo assistito da sette anni a questa parte.
Non di meno la disperazione, seguita sempre da grandi consensi che costringono ad esperienze logoranti di governo (il potere logora chi non ce l’ha, ma anche un pochino che lo ha per la prima volta e deve farvi i conti…), ha toccato la purezza pentastellata: il nome per ora non cambia, anche se Conte sta lavorando ad un “neo Movimento“, ma del M5S degli inizi cosa resta? Forse, appunto, soltanto il nome. Ogni programma politico è stato adattato, forma dell’acqua, ai contenitori istituzionali locali e nazionali: ci si è fatti malleabili e resilienti, rasentando a tratti sia un eccessiva propensione alla massima disponibilità sia un solipsismo di reazione, più che altro incarnato da quelle che sono state definite le “frange estreme” del movimento.
Certi mutamenti sono avvenuti così al fulmicotone da sfuggire all’analisi di attenti cronisti e di politologi di lunga lena. Parziale giustificazione viene dalla velocizzazione delle comunicazioni che hanno cambiato il rapporto, in primis, tra eletti ed elettori, tra forze politiche e popolazione.
Ma alla base di tutti questi repentini cambiamenti non c’è mai un dettame compiutamente e solamente politico: la volontà è apparente, il condizionamento per opportunità è qualcosa che latentemente resta presente nello svolgersi dei fatti interni del Paese, dello smontaggio di maggioranze ingramagliate da vicendevoli sospetti di tentazioni egemoniche e da altre ipotesi di complotto che hanno largo seguito nell’ossessione compulsiva da reti social.
Poi resta, infine, un’ultima domanda: è meglio essere disperati e cambiarsi in tutt’altro da sé stessi (come PD, Lega e Cinquestelle e una certa sinistra moderata) o essere disperati e non voler sottostare a questo indiretto ricatto del presente (come quella sinistra che vorremmo essere e rappresentare noi comunisti), senza però avere alcuna – al momento – prospettiva di recupero, di ricollocazione in un anche minimo gioco della politica?
Non ai posteri, ma a noi tocca l’ardua sentenza.
MARCO SFERINI
11 aprile 2021