Mentre i rifiuti italiani stazionano ancora a Sousse, un’esplosione di materiali tossici a Gabès ci ricorda quanto importante sia per tutto il Mediterraneo la questione ecologica nel Nord Africa
Nei giorni in cui in Italia alcune importanti testate giornalistiche riportavano finalmente lo scandalo dell’esportazione di tonnellate di rifiuti partiti dal porto di Salerno in estate e ancora ferme al porto di Sousse (Tunisia), una terribile esplosione di un serbatoio di asfalto in una fabbrica della zona industriale della città di Gabès accendeva di nuovo i riflettori su un’altra lunga storia di devastazione ambientale.
«Alle nove del mattino del 13 marzo la città è stata scossa da un terribile boato proveniente dalla zona industriale che ha gettato nel panico tutta la popolazione – ci racconta Khayreddine Debaya, tra i fondatori del collettivo Stop Pollution di Gabes – L’enorme nuvola di fumo nero che si è alzata è andata ad aggiungersi alle quotidiane emissioni inquinanti di gas provenienti dal polo chimico che infestano la nostra città da anni».
In ogni sua parola riecheggia la lunga storia di devastazione ambientale della città, un tempo nota per la sua ricca biodiversità in quanto esempio unico di oasi che si affaccia sul mare, praticamente distrutta ora dalla presenza di un imponente polo industriale del Gruppo Chimico Tunisino (Cgt).
Di proprietà statale, il polo (che tratta essenzialmente i fosfati provenienti dal bacino minerario di Gafsa) si è sviluppato a dismisura nel corso degli anni dalla creazione del primo stabilimento nel 1972.
L’inquinamento è cresciuto in maniera esponenziale negli ormai quasi 50 anni di presenza del polo chimico, trasformando una delle aree più importanti del paese da un punto di vista naturalistico e marino in un’oasi di morte. Secondo le statistiche nel golfo di Gabès il numero di specie marine è sceso da 250 nel 1965 a sole 50 oggi.
(foto di Cosimo Pica)
La popolazione cittadina, in particolar modo quella che risiede nelle zone a ridosso delle industrie chimiche, come Chatt Essalem, riscontra tassi preoccupanti di incidenza di diverse patologie come tumori e malattie respiratorie, provocate dall’esposizione continua ai gas e miasmi che fuoriescono dagli impianti.
Stando a uno studio condotto nel marzo 2018 dall’Unione Europea, il Gruppo Chimico Tunisino (Gct) emette il 95% dell’inquinamento atmosferico della città.
Il programma ambientale delle Nazioni Unite ha classificato il governatorato di Gabès come uno dei “punti caldi dell’inquinamento” del Mediterraneo. «In questo scenario – continua Khayreddine Debaya – l’ennesima tragedia (6 persone sono morte a seguito dell’esplosione) avvenuta nella zona industriale (anche se la deflagrazione non è partita dagli stabilimenti del Gruppo chimico ma da una fabbrica privata posta nelle vicinanze) ha scatenato la rabbia della gente che sin da subito è scesa in strada per gridare il proprio sdegno per una situazione ormai insostenibile.
Durante la visita del presidente della repubblica Kais Saied il giorno successivo c’è stato un tam tam tra le persone che ha fatto riversare per le vie della città migliaia di manifestanti che hanno denunciato la gravità della situazione presa invece decisamente sottogamba sia dalle istituzioni che dai media. Come collettivo Stop Pollution abbiamo partecipato a tutti i momenti di mobilitazione e abbiamo deciso di organizzare anche un sit-in il 18 marzo davanti la sede centrale del Gct a Tunisi, per indirizzare la nostra indignazione direttamente contro i veri responsabili della devastazione ambientale di Gabès».
Sindacalisti e lavoratori, insieme ai movimenti ambientalisti hanno sin da subito chiesto la revisione delle norme di sicurezza in tutta l’area industriale di Gabès.
Stop Pollution, in seguito alla manifestazione davanti la sede centrale del Gct, insieme ad altre 29 organizzazioni, ha lanciato una campagna chiamata “Nheb n3ich” (Voglio vivere). Il 19 marzo, inoltre, nella giornata mondiale d’azione per il clima, il movimento Youth for Climate Tunisia è tornato in piazza, partecipando allo sciopero globale, non solo per dichiarare l’emergenza climatica ma anche per sostenere le rivendicazioni dei movimenti di Gabès.
(immagine dalla pagina Facebook del collettivo Stop Pollution)
Dopo le mobilitazioni di strada, il collettivo Stop Pollution ha lanciato anche una petizione online, con lo slogan “basta inquinamento, io voglio vivere“. per chiedere giustizia per i crimini ambientali, e reclamare il diritto alla salute e alla vita.
LA NECESSITÀ DI UN CAMBIAMENTO RADICALE
Se da un lato le proteste hanno sottolineato ancora una volta la vitalità della società civile tunisina, dall’altro hanno evidenziato quanto, a dieci anni dalla rivoluzione, i principali nodi sociali, ambientali e politici sono ancora lontani da essere risolti. In tal senso l’esplosione di Gabès e lo scandalo dei rifiuti italiani al porto di Sousse stanno lì a simboleggiare le difficoltà e le contraddizioni del paese.
«Oggi più che mai c’è bisogno di un cambio di paradigma economico e politico – commenta Habib Ayeb, geografo, regista, professore a Paris 8 e tra i fondatori dell’Osae-Osservatorio sulla sovranità alimentare e l’ambiente – per affermare i principi di giustizia sociale e ambientale. Se parliamo dei rifiuti italiani ancora fermi al porto di Sousse dobbiamo affrontare innanzitutto il rapporto di dominazione coloniale che condanna i paesi del sud, come la Tunisia, a non poter rifiutare la ricezione di certi rifiuti, dal momento che essa rientra all’interno della dipendenza economica dall’Europa, rappresentata plasticamente, ad esempio, dagli accordi di libero scambio come l’Aleca».
Ma oltre ai rifiuti ci sono anche le devastazioni ambientali:«Se invece pensiamo a quello che è successo a Gabès – continua Ayeb – non possiamo non parlare dell’attuale modello di sviluppo capitalistico che per prosperare ha bisogno di poli industriali inquinanti di quel tipo.
Nel caso di Gabès, il fosfato è fondamentale per il tipo di produzione agricola capitalista dominante, per questo non si vuole mettere in discussione tale modello di produzione. Bisogna fare una scelta: manteniamo la produzione di fosfato e quindi continuiamo a perpetuare l’inquinamento di Gabès o cambiamo modello di produzione e quindi non usiamo più il fosfato? Purtroppo invece il dibattito è fermo sul ricatto tra salute e lavoro che impone il sistema economico internazionale.
C’è il costante tentativo di ridurre la discussione alla constatazione che l’esistenza di certe industrie è importante per l’esigenza di soddisfare la richiesta d’impiego, invece di parlare, ad esempio, di che tipo di produzione serve e della riconversione ambientale». E parlare di queste cose nella Tunisia di oggi è pericoloso: «Quando ho affermato che la soluzione per l’inquinamento di Gabès è rappresentata dalla chiusura degli stabilimenti ho avuto anche delle minacce di morte. La questione è molto delicata perchè mi rendo conto che purtroppo soprattutto le classi popolari sono particolarmente esposte al ricatto tra salute e lavoro e visto che il dibattito è così distorto diventa difficile far comprendere alcune ragioni di cambiamento radicale».
(da commons.wikimedia.org)
UNA PROSPETTIVA MEDITERRANEA
Alle nostre latitudini, ascoltando queste parole e le storie di inquinamento e devastazione ambientale di realtà come Gabès, il pensiero va subito a vicende simili di sofferenza e voglia di riscatto popolare, come per esempio quella di Taranto. Le poche miglia di mare che ci separano sono piene di racconti che si intrecciano, di incontri, di scambi e di contraddizioni. Un mare di mezzo che negli ultimi anni è stato riempito da una parte dall’inquinamento e dall’altra, tragicamente, da migliaia di corpi di migranti che hanno provato ad attraversarlo per approdare nella Fortezza Europa.
Il mare nostrum è un patrimonio comune che ci lega e, rispecchiandoci nelle sue onde, serve allargare lo sguardo e provare a ragionare in una prospettiva regionale che travalichi i confini per costruire un’area mediterranea dei diritti e della dignità.
Bisogna connettere le mobilitazioni da Taranto a Gabès per mettere in discussione il paradigma economico e politico dominante ed attuare una prospettiva ecologica capace di sovvertire il modello di sviluppo capitalista esistente.
(immagine dalla pagina Facebook del collettivo Stop Pollution)
«Immaginiamo che la Tunisia cambi radicalmente le proprie politiche ambientali ed ecologiche…non servirà a nulla se non le cambieranno anche gli altri paesi mediterranei. C’è bisogno di un cambio radicale in tutta la regione. Se si continua a inquinare il Mediterraneo la Tunisia può fare ciò che vuole ma non cambierà nulla se non si adotta un piano di radicale cambiamento comune a livello regionale» – conclude Ayeb. La gente di Gabès e di Sousse, così come quella di Taranto e della Campania, è legata da un destino comune e la partita per il cambiamento va giocata insieme, collettivamente.