Probabilmente Derek Chauvin, agente di polizia in quel di Minneapolis (Minnesota, Stati Uniti d’America), non immaginava che la morte di un altro “negro” avrebbe fatto così impressione nel suo paese e nel mondo intero da far nascere un movimento spontaneo, ed allo stesso tempo organizzato, al pari di quelli del reverendo Martin Luther King o velatamente somigliante alla voglia di rivalsa di Malcolm X.

Quei 9 minuti e 29 secondi, di un ginocchio che scaricava tutto il peso del suo corpo sull’ormai immobilizzato George Floyd, accusato lì per lì di aver tentato di spacciare in un negozio una banconota falsa da 20 dollari, sono diventati un tempo infinito, dilatato, espanso in un universo di contraddizioni che la difesa del poliziotto americano ha tentato di mettere sul banco del tribunale, provando l’impresa impossibile (o quanto meno molto improbabile) di dimostrare che, in fondo, l’assassinio non era voluto e che, in subordine, era pure da attribuire alle malformazioni cardiache di chi stava lentamente soffocando e morendo.

Le argomentazioni in difesa di Derek Chauvin non potevano non essere più deboli davanti all’oggettività delle foto, dei video che hanno perseguitato anche la campagna politica per le presidenziali americane di Donald Trump, tutto intento a spostare l’attenzione sulla necessità dell’applicazione intransigente del binomio “law and order“, messo sulla difensiva dalla tragedia del Covid-19 e con l’ombra minacciosa dei processi a suo carico.

La vittoria della famiglia Floyd, la resa di giustizia nei confronti di George, è una affermazione ulteriore del principio di importanza dell’organizzazione di grandi movimenti di opinione di massa che si muovono spontaneamente e che, proprio per questo, assumo un carattere sociale, politico, morale e civile di grandissimo valore: perché trascendono l’induzione di coscienza che viene da singole partigianerie politiche, perché sono interraziali, universali sul piano confessionale, scavalcano ogni pregiudizio e lo condannano nel nome di una ricerca di giustizia che è, prima di ogni altra cosa, quinta essenza della voglia di emancipazione umana e civica.

Senza il movimento “Black Live Matter“, senza la sua diffusione planetaria, senza l’indignazione priva di spirito di vendetta, forse il processo a Derek Chauvin sarebbe andato diversamente. Forse tutto il corso di questa emblematica storia americana sarebbe rimasto confinato entro il Minnesota, non avrebbe oltrepassato gli oceani e non avrebbe dato quel valore politico e morale che ha avuto bisogno di una formale sentenza giudiziaria per ottenere lo status di “giustizia”, ma la cui condanna era già scritta nei fotogrammi visti e rivisti, in quella immagine iconica di una brutalità imposta da un potere di polizia repressivo.

«Questo caso è esattamente quello che voi avete pensato fosse quando per la prima volta avete visto quel video. È quello che avete provato nel vostro stomaco. È quello che ora sentite nel vostro cuore»: questa la frase finale dell’arringa del procuratore Steve Schleicher alla giuria formata da sei bianchi, tre neri e tre ispanici (sette donne e cinque uomini). Oltre l’enfasi e la retorica da aula di tribunale, c’è nell’affermazione della pubblica accusa la conclusione più razionale e meno emotiva possibile: guardare i fatti, osservare ciò che è avvenuto e valutarli proprio nella loro interezza.

Per cui diventa ridicolo affermare che se Floyd non avesse avuto malformazioni cardiache, non sarebbe morto. Le ipotesi sono l’ultima disperata difesa di un inaccettabile violenza che non è la mera coercizione, “naturale” per una forza poliziesca espressione dell’apparato repressivo dello Stato nel far rispettare la legge, di un reo: fermo, manette, interrogatorio e così via. George Floyd è la non ultima vittima di un concentrato di brutalità frutto di un combinato di disvalori, di pregiudizi e di odio che trascendono le funzioni di un poliziotto.

In teoria, chiunque esercita una funzione pubblica – dall’agente di polizia al medico – deve essere imparziale, occuparsi di tutti senza distinzione alcuna: altrimenti il rappresentante della legge diventa un rappresentante della sua personale visione della medesima, ed il medico può trasformarsi anche in un dispensatore di morte se trova sotto i suoi ferri il suo più acerrimo nemico. Lo stesso vale per i giudici, per gli avvocati, per chiunque abbia una mansione che non termina il suo compito nei confini singolari della persona che la esercita, ma le cui azioni si riversano inevitabilmente nella società.

Il compito di movimenti di grande coscienza di massa, come “Black Lives Matter“, è proprio quello di inchiodare alle specifiche responsabilità chi prova a ridurre i diritti di qualunque essere vivente a variabile dipendente da una morale che non sia quella che obbedisce alla tutela e all’ampliamento dell’uguaglianza civile e sociale. Dietro la lotta per un diritto umano c’è anche la lotta per un diritto civile e una per un diritto sociale.

La condanna dell’assassinio di George Floyd è  un manifesto moderno in cui si riscrivono le vecchie lotte di emancipazione antirazziale, di superamento delle discriminazioni di ogni tipo, di riconoscimento vicendevole di una uguaglianza che, nonostante le democrazie liberiste e la loro obbedienza alle contraddizioni del capitale (che sono le prime strutturate basi della diseguaglianza discriminante), non può non essere il termine di paragone migliore e imprescindibile per riconoscere sempre e comunque qualunque forma ed espressione dell’ingiustizia propalata da tesi sulla superiorità di questo o quel popolo, di questo o quel colore, di questo o quel credo religioso o politico.

L’insegnamento che possiamo trarre è anzitutto la non sottovalutazione degli eventi, per quanto ripetitivi possano sembrarci: per il fatto che sovente negli Stati Uniti d’America si verificano episodi di violenza da parte della polizia nei confronti della popolazione di colore, ciò non significa che prevalga sull’indignazione ribelle una abitudinaria rassegnazione al corso “inevitabile” degli eventi, ad una sorta di conformazione della società alle tendenze socio-culturali prevalenti in quel determinato contesto e tempo.

Una scintilla è sempre qualcosa di inaspettato, anche se può dare vita ad un fuoco di paglia. Altre volte invece, come nel caso del “Black Lives Matter“, innesca l’accensione di una miccia che si allunga e che finisce per detonare con una giusta conclusione processuale che non deve essere però la soddisfazione ultima, l’appagamento per il risultato ottenuto. Quanto il sistema si sia lasciato condizionare e quanto realmente sia stato condizionato, sarà oggetto di dibattito nei prossimi anni, perché i movimenti portano con sé un riflusso che muta, evolve e fa cambiare le lotte stesse da cui è nato e dal quale si è progressivamente allontanato per trascinamento temporale.

A mano a mano che ci si allontana dall’evento scatenante, un movimento inevitabilmente assume connotati specifici del momento in cui ancora si trova alimentandosi attraverso nuovi spunti, nuove tematiche ed anche intuizioni che possono farlo rinascere.

Assumo così grande importanza le comunità che si formano e che prendono coscienza del proprio ruolo attraverso la lotta: civile ma anche sociale. Una coscienza critica, che fomenta l’istinto ribelle del dubbio a tutti i costi, quello che permette la conoscenza e che è il peggior nemico di qualunque fantasia di complotto perché si basa sulla ricerca analitica, sui fatti e sulla concretezza delle evidenze, sui numeri, sui rapporti di forza tra le classi sociali e sulle dinamiche politiche tanto del proprio paese quanto internazionali.

Nessuna morte vale la nascita di una coscienza collettiva ribelle e rivendicatrice di diritti fondamentali per la semplice esistenza da essere umano e da cittadino. Ma se da una tragedia come quella di George Floyd nasce un movimento che la vendica dando giustizia alla vittima e rendendo consapevoli miliardi di persone sulle ingiustizie che milioni di persone sono costrette a patire ogni giorno sotto la dittatura delle discriminazioni, allora quella morte – lo si può dire senza scadere nella banalità della retorica celebrativa – davvero non è stata vana.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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