Quale ruolo di cura può avere (e avrebbe dovuto avere) la scuola pubblica nel corso di questa lunga emergenza pandemica? Bisogna ritornare all’origine della parola stessa per restituirle un ruolo che rimanda direttamente a quanto sancito dall’art.3 della Costituzione

Come ci si prende cura della scuola pubblica nel corso di una lunga “pan-sindemia”? O anche, e rovesciando la questione: quale ruolo di cura può e deve svolgere, la scuola pubblica, nella drammatica situazione in cui ci troviamo da oltre un anno?

Per provare a tracciare mappe condivise di senso e di concreta proposta politica, sentiamo l’urgenza di chiarire la nostra posizione su alcuni nodi-chiave che ultimamente hanno polarizzato il dibattito pubblico sulla scuola in modo poco costruttivo.

SCIENZA, EXPERTISE E PARTECIPAZIONE

Il fatto che della scuola in pandemia si sia parlato tanto, ma anche tanto male, e che non siano stati previsti risolutamente studi di fattibilità e piani alternativi alla chiusura, ha evidenziato un grave vuoto politico sul tema. Nei fatti, si è deciso – o si è lasciato – che la scuola fosse sacrificata agli interessi e alle necessità produttive, in linea con il pensiero dominante per il quale l’economia vince sull’ecologia, il benessere delle imprese è considerato motore del benessere della società, la medicina high-tech viene preferita alla prevenzione.

Il risultato del vuoto politico sulla scuola è un dibattito schiacciato su scuole aperte/scuole chiuse e che ha vissuto più di propaganda e polarizzazioni che di una sana dialettica tra posizioni informate, analisi dei rischi e dei dati e una visione della salute intesa in senso sistemico.

Da una parte c’è chi sostiene che la scuola non concorra alla diffusione dei contagi. Il limite di questa posizione, sta nel cancellare come l’impoverimento infra/strutturale, di cui l’istituzione scolastica è vittima da decenni di tagli, abbia ridotto l’effettiva capacità di “fare scuola” e di resistere all’impatto dell’emergenza sanitaria.

Inoltre, giudicare sufficienti i protocolli di sicurezza attualmente in essere nelle scuole rischia di generalizzare parziali conferme in un territorio sempre più diseguale dal punto di vista demografico, produttivo e ambientale e caratterizzato da politiche sanitarie regionali disomogenee.

Dall’altra c’è chi sostiene che la scuola sia luogo di implementazione e diffusione del contagio, e che possa riaprire solo in condizioni di assoluta sicurezza. Il limite di questa posizione sta nel considerare le scuole incurabili e dunque destinate a restare chiuse. Senza curarsi delle conseguenze sociali che la sottrazione di uno spazio pubblico di formazione ha sulla salute psicofisica dei minori, delle e degli adolescenti, dei giovani e dei nuclei parentali.

L’estremizzazione della prima posizione ha come effetto la rinuncia a un piano d’investimenti e di intervento politico effettivi in materia di edilizia scolastica, assunzioni, riduzione del numero di alunn* per classe, tracciamento e contenimento dell’epidemia.

Non solo, rinuncia a immaginare la scuola come modello per l’attuazione capillare di test, tracciamento, trattamento e isolamento dei contatti sul territorio, capace di mitigare il rischio anche di quei settori che, meno oggetti di attenzione, sono più restii all’implementazione di protocolli per la tutela della salute di lavoratori e lavoratrici e delle comunità.

L’estremizzazione della seconda posizione ha per effetto il rinvio sine die dell’apertura delle scuole, essendo la sicurezza affidata alla tempestività dei vaccini e alla realizzabilità degli interventi necessari a metterle in sicurezza. Interventi non tutti realizzabili dall’oggi al domani.

La contrapposizione che si è venuta a creare ha cancellato dall’ordine del discorso alcuni elementi centrali su cui si dovrebbe articolare la politica di apertura e chiusura della scuola in pandemia. Il dibattito scuole sicure/scuole insicure elude l’interdipendenza che la scuola ha con altri sistemi, cancellando come questa non sia un ambito chiuso e slegato dal territorio, inteso come contesto ambientale, sociale, culturale ed economico.

Concentrarsi sulla sola lettura dell’incidenza della propagazione del virus in ambiente scolastico, trasformando la scuola in un oggetto decontestualizzato, abdica alla capacità di osservare e restituire un quadro più complesso di ciò che l’istituzione scolastica determina in quanto sistema che intreccia diversi ambiti.

Ritorniamo all’origine della parola scuola – spazio e tempo dedicato allo svago e all’esercizio della mente – per restituirle un ruolo che va oltre l’erogazione di formazione e che si estende al di là delle aule scolastiche: quello di contribuire a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana», secondo quanto sancito dall’art.3 della Costituzione.

Quanto questa funzione della scuola sia ancora (r)esistente, si evince nei dati di ricerche e studi che in questi mesi hanno mappato le conseguenze della prolungata chiusura delle scuole in Italia: dalla crescente disuguaglianza di accesso all’istruzione all’aumento della violenza domestica e della violenza assistita; dall’impossibilità per molt* bambin* e ragazz* di ricevere almeno un pasto equilibrato al giorno alle forme di disagio emerse tra adolescenti in didattica a distanza da oltre un anno; fino alle conseguenze, già in essere, della crescente disoccupazione e povertà femminile e minorile.

La lettura incrociata di questi fenomeni ci permette di comprendere meglio come la soppressione senza una visione di una parte centrale del welfare, abbia acuito in tutto il paese diseguaglianze che corrono sulla linea della classe, della razza, dell’abilismo e del genere; e l’aggravarsi del divario tra nord e sud, centro e periferie, rispetto all’accesso a «diritti fondamentali di cittadinanza, in termini di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura» (Rapporto Svimez 2020).

Inoltre, i trans/femminismi evidenziano da molti anni come la maggior parte delle violenze denunciate su donne e minori avvengano proprio nella dimensione del domestico, inteso come spazio fisico e relazionale. Così, la scelta da parte di Governo e Regioni di chiudere la scuola sempre come prima, e spesso come unica, misura per il contenimento del contagio e il conseguente ripiegamento dentro le mura di casa dei soggetti più abusati di tale contesto, rappresenta un fallimento in quanto a capacità di analisi e bilanciamento delle emergenze.

La lettura articolata delle conseguenze di un anno senza scuola ci racconta anche di come il “modello di cura” che è stato applicato sulla scuola eluda sistematicamente il coinvolgimento dei soggetti che costituiscono la comunità educante. Una cura, parafrasando i Basaglia, che ha finito per rafforzare la “malattia” della e nella scuola, garantendo al tempo stesso l’autorità degli esperti che hanno preteso di proteggerla.

Come esito, il dibattito che si è creato ha ricalcato quella storica separazione tra expertise e cittadin*, la cui messa in discussione diede luogo al processo di riforme sanitarie degli anni Settanta in Italia. Eppure, l’istruzione – come la sanità – è un sistema complesso che ha bisogno di una “comunità (scientifica) allargata”, capace di includere i saperi esperienziali di chi vi partecipa, fondamentali sia per la comprensione delle sue condizioni materiali sia per il suo potenziale miglioramento. All’interno di questo allargamento, della necessaria partecipazione della comunità educante nelle scelte che riguardano la cura della scuola, in quel “Nothing About Us Without Us”, bisogna oggi riprendere il dibattito sulla scuola, articolandone le interdipendenze strutturali e i bisogni collettivi.

CURARE IL TERRITORIO PER RESTITUIRE CENTRALITÀ ALLA SCUOLA. E VICEVERSA

Se, durante una pan-sindemia, non c’è cura del territorio in termini di prevenzione, solidarietà, sostegno al reddito, misure di welfare e lotta allo stigma del contagio e della malattia, bensì abbandono istituzionale, disprezzo e istigazione a soluzioni privatistiche, questo non può che impattare sulla scuola. A oggi possiamo solo intuire, in assenza di dati pubblici e trasparenti, quanto le disparità in termini di infrastrutture sociali e di amministrazione locale della sanità abbiano influito sulla giungla di ordinanze regionali frutto dell’autonomia in materia sanitaria (si veda ad esempio il commento della ex Ministra dell’Istruzione Azzolina).

Ciò che è evidente invece è come la chiusura delle scuole e il mancato potenziamento della medicina territoriale, siano due facce della stessa medaglia.

Fin dall’inizio dell’emergenza pandemica, sono risultate evidenti le conseguenze prodotte dall’indebolimento del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), dallo smantellamento del servizio socio-sanitario territoriale, dalla delega della sanità alle Regioni, dalle privatizzazioni, dai tagli alla spesa per prevenzione dovuti a vincoli Eu e al fiscal compact in Costituzione.

Non ci sembra che sia emerso con altrettanta chiarezza quanto la fragilità dimostrata nell’emergenza dal sistema della pubblica istruzione sia la risultante delle stesse politiche di mercatizzazione che, dagli anni Ottanta in avanti, hanno cambiato profondamente la logica del funzionamento e lo status giuridico di comparti fondamentali della società, trasformando i diritti in servizi e i/le cittadin* in clienti. Le poche risorse destinate alla pubblica istruzione finanziano un sistema misto di pubblico e privato e di competenze statali, regionali e locali, caratterizzato da una feroce lotta per la sopravvivenza.

Tale frammentazione non ha affatto significato un avvicinamento ai bisogni dei territori, ma una perdita di universalità dei diritti, una crescita della burocrazia e una disparità di accesso sempre più accentuata. In questo contesto, non è corretto dire che un fenomeno come quello della dispersione scolastica (con numeri tra i più alti d’Europa) non sia adeguatamente affrontato, poiché è il prodotto stesso di una ri-organizzazione della scuola che punta all’omogeneità dei contesti formativi attraverso standardtarget ed efficientismo.

Ciò che eccede il paradigma di governance che si è imposto nel corso degli anni novanta, diventato noto sotto il nome di New Public Management, subisce un processo di progressiva espulsione dalla scuola, a partire dalla marginalizzazione della partecipazione dei soggetti che la scuola la fanno, da vincoli e regolamenti basati su «un pensiero di tipo più assicurativo che formativo», ma anche da un rapporto sempre più mercificato con il territorio.

La scuola è prima di tutto uno spazio pubblico, di cui c’è bisogno di riappropriarsi e di cui si è percepita l’assoluta necessità da parte di tutto il corpo sociale e in particolare dalle sue aree più deprivate e fragili, proprio durante l’emergenza sanitaria. Nonostante le contro-riforme degli ultimi decenni ne abbiano depotenziato la funzione di spazio democratico di emancipazione, la scuola resta tuttora un luogo dove permane una tensione alla cura collettiva.

Significativo, in tal senso, come a Napoli le scuole siano le uniche agenzie dello Stato, insieme ai presidi sanitari, universalmente percepite come non ostili e prossime: in questo senso, la scuola è presidio di comunità e di sostegno al proprio territorio, svolgendo una fondamentale funzione di antenna e di osservatorio sui bisogni e i diritti di bambin* e adolescenti; oltreché una funzione di supplenza alla carenza di interventi socio-sanitari, di opportunità culturali e di misure di sostegno alla genitorialità.

La scuola può e deve svolgere anche questo ruolo, soprattutto durante una crisi sanitaria, ma va messa nelle condizioni di poterlo fare in concorrenza e non in sostituzione di tutto ciò che è essenziale al benessere sociale dei e delle minori.

Invece di polarizzare il dibattito sulla scuola, è utile chiedere che la scuola sia ri-pensata come presidio di promozione della salute collettiva della comunità scolastica intesa nel senso più ampio, come luogo di corretta informazione e prevenzione: uno spazio per educarsi alle pratiche del prendersi cura di sé, degli altri e dell’ambiente, per uscire dall’angoscia dell’isolamento, dell’impotenza e della miseria.

DENTRO E OLTRE L’EMERGENZA

Da aprile 2020, un movimento di genitori, genitrici, docenti, operat* della scuola, studentesse e studenti si è mobilitato perché la scuola fosse «l’ultima a chiudere e la prima a riaprire». Organizzarsi in pandemia ha portato Priorità alla Scuola a sviluppare percorsi di formazione e pratiche di mutualismo intorno ai temi della salute. Quali protocolli pretendere per un’apertura della scuola in presenza e in continuità.

Quali strategie adottare per garantire maggior sicurezza nelle case e nelle scuole. Domande che si sono poste nelle lotte che in questi mesi hanno applicato simbolicamente gli elementi mancanti nelle decisioni governative. Come le 12 occupazioni di scuole di secondo grado a Milano, lo scorso gennaio, fatte con tamponi in entrata e regolari, oltre a misure di distanziamento, mascherine e sanificazione degli spazi. O come le centinaia di lezioni all’aperto che nel corso dell’anno i e le docenti di tutta Italia hanno svolto nei parchi, nelle piazze e davanti ai cancelli chiusi delle scuole.

Gesti collettivi che hanno indicato quante possibili formule avrebbero potuto essere applicate per garantire una scuola aperta e inclusiva, una scuola capace di bilanciare il diritto alla salute e diritto all’istruzione.

Alle mobilitazioni, si è affiancato un dibattito più specifico sui protocolli sanitari per la scuola e la segnalazione di molte incongruenze (attraverso lettere, tavoli istituzionali, mail bombing e petizioni) frutto di una relazione tra istruzione e sanità deteriorata e manchevole di una visione unitaria.

Tra le richieste formulate sui diversi territori troviamo l’attivazione di un canale preferenziale per il tracciamento nelle scuole; la sorveglianza attiva e periodica a campione per studenti, studentesse, docenti e operat*; la distribuzione capillare di mascherine chirurgiche per studenti e fpp2 per il personale scolastico in fascia 0/6; il tampone al rientro dalla quarantena; la tutela delle categorie fragili tra permessi temporanei dal lavoro, possibilità di prepensionamento e priorità vaccinale; l’attivazione di sportelli di ascolto nelle scuole; la traduzione dei protocolli sanitari scolastici in altre lingue oltre l’italiano e il diritto delle e degli alunni disabili e bes alla scuola in presenza, ma anche all’inclusione nel gruppo classe.

Perché tutto ciò potesse essere garantito, il movimento ha formulato una principale richiesta già ad aprile 2020: il rifinanziamento della medicina scolastica attraverso la riattivazione delle vecchie infermerie presenti in ogni plesso, ma divenute sgabuzzini nello stesso processo di smantellamento della medicina di prossimità, e la loro riorganizzazione in spazi fisici e simbolici attraverso cui mitigare la propagazione del contagio in pandemia, e rifondare una cultura della salute pubblica dalla pandemia in avanti.

Il dibattito che ha investito la scuola si è polarizzato anche per la mancanza di una cultura e di un approccio sistemico alla salute pubblica, per il definanziamento alla medicina territoriale e ai servizi di base e per il ridimensionamento della prevenzione rispetto alla cura. Si tratta delle conseguenze di un pensiero riduzionista che ha determinato, negli ultimi decenni, le scelte nel campo della ricerca, nella prassi medica e nelle politiche sanitarie e al quale dobbiamo il fallimento della risposta all’emergenza pandemica in Italia come altrove.

Parlare di scuola in pandemia contribuisce a ristabilire un’idea di salute come fatto sociale ampio e ripensare l’attuale assetto ospedale-centrico e farmaco-centrico della sanità, in funzione di ritorno alla prevenzione, all’epidemiologia e alla medicina di prossimità.

Parlare di scuola in pandemia è necessario per denunciare sia l’indifferenza al contesto pandemico – come emersa nelle scelte governative che non hanno previsto la chiusura di interi comparti produttivi non essenziali e il loro sostentamento economico, o che non hanno mai stanziato i fondi necessari per garantire alla scuola più spazi e un adeguato aumento del personale docente e non docente – sia l’indifferenza alle conseguenze che la pessima gestione della pandemia ha prodotto, produce e produrrà all’interno della comunità educante e dell’insieme del tessuto sociale.

In tempi di crisi, avanzare il dibattito su scuola e salute significa portare avanti parallelamente le mobilitazioni per una sua inderogabile riapertura e per la messa al centro del dibattito sulla qualità degli ingenti finanziamenti di cui la scuola ha urgente bisogno. Dai protocolli di tutela e sicurezza alla riduzione di alunn* per classe; dai diritti sul lavoro all’agibilità, la sicurezza e l’ecosostenibilità degli edifici; passando per la ridefinizione di percorsi formativi per docenti e student* capaci di leggere e trasformare le molteplici crisi attuali.

Dare priorità all’istruzione afferma la centralità dei diritti sui profitti e l’assunzione politica, economica e collettiva di questa responsabilità. Non è un caso che, nella storia dell’istruzione pubblica italiana, le più importanti e proficue innovazioni (come il tempo pieno, le 150 ore e il tempo prolungato) non siano state operazioni di “illuminati riformatori”, ma esito di processi di ampia partecipazione ed elaborazione dal basso. Oggi come allora, la strada da percorrere è la stessa.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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