La crisi economica, sociale e politica, così come la rinascita della lotta di classe come fattore dinamico nell’arena internazionale, pongono la necessità di fare passi nella costruzione di un movimento per un’Internazionale della rivoluzione socialista, basata sull’esperienza viva dei nuovi settori di lavoratori e oppressi che cominciano a confrontarsi con gli stati capitalisti in tutto il pianeta.
Il Manifesto che pubblichiamo di seguito, pubblicato oggi in 7 lingue e 15 giornali online sulla Rete Internazionale della Frazione Trotskista – Quarta Internazionale, affronta questa questione urgente per tutti i militanti e i protagonisti delle lotte sociali di oggi.
Nel 2013, come Frazione Trotskista-Quarta Internazionale, abbiamo lanciato il Manifesto per il Movimento per un’Internazionale della Rivoluzione Socialista – Quarta Internazionale, poi aggiornato nel 2017. A quest’ultimo appello riuscimmo ad aggiungere l’Organización Socialista Revolucionaria del Costa Rica, la Frazione Internazionalista Rivoluzionaria d’Italia e la Corriente Socialista de las y los Trabajadores de Perú, che oggi promuovono questo appello.
Nell’ambito dei dibattiti, sugli accordi e le differenze tra le correnti che rivendicano la lotta per la rivoluzione socialista, abbiamo organizzato l’anno scorso la Conferenza Americana, insieme alle organizzazioni del Frente de Izquierda-Unidad dell’Argentina e alle loro organizzazioni sorelle.
Questo manifesto, elaborato dalla Frazione Trotskista-Quarta Internazionale, mira a riprendere il dibattito sulla necessità di un movimento per un’internazionale della rivoluzione socialista. Si rivolge all’avanguardia della gioventù, della classe operaia e degli oppressi che comincia a mettersi in movimento e che ha condotto, insieme alle grandi masse, l’ondata di ribellioni popolari e di scioperi generali in diverse parti del mondo. A coloro che hanno condotto le lotte emblematiche di Black Lives Matter negli Stati Uniti, la ribellione popolare cilena, la lotta contro il colpo di stato in Bolivia, la lotta dei gilet gialli e i grandi scioperi in Francia; la lotta del movimento delle donne in tutto il mondo, le occupazioni delle terre, gli scioperi e i blocchi, a coloro che in Brasile affrontano il bolsonarismo con una politica indipendente dai partiti del regime; a coloro che in Venezuela affrontano l’imperialismo, in forma indipendente dal governo di Maduro, affrontando allo stesso tempo il suo regime repressivo, autoritario e arrendevole; a quelli che in Messico si stanno mobilitando indipendentemente dal governo “progressista” e dall’opposizione di destra; all’infinità di movimenti nel sud-est asiatico che hanno alla testa l’eroica classe operaia del Myanmar; a coloro che stanno lottando contro lo sfruttamento e l’oppressione in ogni parte del mondo e che oggi cercano con urgenza un’alternativa politica contro il capitalismo, combattendo il senso comune (fomentato dal riformismo e da decenni di attacchi neoliberali), che si possa lottare solo per le briciole. Cerchiamo di recuperare un orizzonte rivoluzionario, internazionalista e socialista per distruggere un sistema che merita di perire. Ci rivolgiamo anche alle organizzazioni e ai singoli del movimento trotskista, e alle organizzazioni che si dichiarano internazionaliste che sono d’accordo sull’importanza di avanzare nella discussione della proposta di un movimento per un’Internazionale della rivoluzione socialista, basata sulle lezioni della lotta di classe. In questo manifesto, prenderemo in considerazione alcune delle esperienze realizzate negli Stati Uniti, in Francia, in Cile e in Argentina, per l’intensità della lotta di classe o per l’influenza della sinistra socialista e rivoluzionaria rispetto ad altri paesi. Con loro, cerchiamo di sintetizzare le principali lotte che riteniamo si stiano sollevando attualmente.
La crisi in corso e l’attualità dell’era delle crisi, delle guerre e delle rivoluzioni
La pandemia ha generato un salto nella crisi economica globale, a cui era mancata una chiara risoluzione dopo il 2008, quando Lehman Brothers è crollata. E ancora una volta, gli Stati hanno salvato gli imprenditori mentre milioni di persone hanno perso il lavoro o sono state costrette a lavorare in condizioni precarie. Oltre ai quasi 3 milioni di morti causati dal coronavirus, 150 milioni di persone nel mondo potrebbero cadere in povertà estrema nel 2021, secondo lo stesso Forum Economico Mondiale.
La relazione tra questa crisi e le contraddizioni del capitalismo è chiara. Sono le attività predatorie verso la natura, portate avanti dalle grandi imprese e dallo Stato, disboscando giungle e foreste per estendere i differenti rami dell’agrobusiness, che hanno generato la diffusione di virus che prima si trovavano in animali nascosti in luoghi remoti, che costituivano il loro habitat naturale. La creazione di spazi “piatti” che permettono la produzione su larga scala di polli, maiali o soia, o palma da olio nel caso dell’Ebola, si è dimostrata assolutamente funzionale alla diffusione delle malattie (nel caso odierno, un’epidemia che si è trasformata rapidamente in pandemia). La malattia si è diffusa così rapidamente – più di qualsiasi virus precedente – seguendo gli stessi circuiti che collegano la catena di approvvigionamento globale just in time. Mentre i virus umani hanno spesso seguito il flusso delle merci – la peste bubbonica, per esempio, si è diffusa attraverso le rotte commerciali per anni – la velocità e la scala massiccia del capitalismo globalizzato hanno prodotto uno scenario in cui le malattie possono diffondersi in tutto il pianeta in poche settimane. Si rivela più chiaramente che il capitalismo blocca ogni possibilità di stabilire una relazione armoniosa tra la specie umana e la natura, e addirittura la distrugge sempre più. Di fronte a questo, progetti politici come l’ala sinistra del Partito Democratico negli Stati Uniti, il Partito Verde in Germania o il governo “progressista” nello stato spagnolo, insieme alle ONG e ad altre burocrazie sociali, stanno favorendo le illusioni di un capitalismo verde con un “Green New Deal”, cooptando le direzioni di questi movimenti e trasformandole in agenti “progressisti” del capitale. Ma gli stati imperialisti non si trasformeranno in agenti verdi e progressisti.
Nel mezzo della crisi, le grandi borghesie e i loro Stati hanno cercato di ricomporre il loro potere e recuperare le perdite generate dalla contrazione dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, dove la pandemia e la crisi economica hanno colpito duramente tra marzo e giugno dell’anno scorso (il PIL è sceso del 32,9% durante il secondo trimestre del 2020), l’amministrazione Biden ha appena votato un programma di “salvataggio Covid” di 1.900 miliardi di dollari, parte del quale è destinato a iniettare liquidità direttamente nelle tasche dei settori popolari come misura preventiva. Anche se congiunturali e con modalità e scopi diversi, queste politiche sono state replicate praticamente da tutti i governi, con evidenti disuguaglianze tra i paesi imperialisti e i paesi poveri. D’altra parte, gli Stati capitalisti hanno garantito profitti esorbitanti agli speculatori della pandemia, erogando enormi quantità di denaro direttamente alle grandi imprese, corporazioni e banche. Un recente rapporto dell’Institute for Policy Studies mostra che, dall’inizio della pandemia a metà marzo, i miliardari statunitensi hanno aumentato le loro fortune di mille miliardi di dollari. Secondo la rivista Bloomberg, le 50 persone più ricche del mondo hanno visto crescere le loro fortune di 640 miliardi di euro. Alcune di queste fortunate persone sono Jeff Bezos, Elon Musk e Bill Gates. Jeff Bezos ha “guadagnato” altri 69 miliardi di dollari dall’inizio della pandemia. Mark Zuckerberg di Facebook e il fondatore di Google, Sergey Brin, fanno pure parte della lista. Anche in Francia, i miliardari tra cui Bernard Arnault, terzo uomo più ricco al mondo, hanno guadagnato circa 175 miliardi di euro in quel periodo. La fortuna di 73 miliardari in America Latina è aumentata di 48,2 miliardi di dollari dall’inizio della pandemia. Secondo il rapporto di Oxfam, i 42 miliardari del Brasile hanno aumentato il loro valore netto totale da 123,1 miliardi di dollari in marzo a 157,1 miliardi di dollari in luglio, mentre le sette persone più ricche del Cile hanno visto la loro ricchezza combinata aumentare del 27% a 26,7 miliardi di dollari.
Allo stesso tempo, l’indebitamento degli Stati ha raggiunto cifre siderali. Secondo i calcoli dello stesso FMI, 30 paesi supereranno il 100% del loro debito rispetto al loro PIL nel 2020. Tra i 20 paesi più indebitati ci sono grandi potenze come il Giappone e gli Stati Uniti, ma questa situazione colpisce soprattutto i paesi periferici e semi-coloniali, dall’Angola all’Argentina, sollevando la prospettiva di una crisi del debito, soprattutto se i tassi di interesse iniziano a salire. Anche il debito privato e la proporzione di imprese “zombie”, che sono mantenute sulla base di aiuti statali e indebitamento, sono cresciuti.
Wall Street festeggiava mentre milioni di persone perdevano il lavoro. In tutta l’America Latina, 140 milioni di persone, circa il 55% della popolazione attiva, lavorano nell’economia informale, e quasi uno su cinque vive in condizioni di sovraffollamento. Ben 52 milioni di persone potrebbero cadere in povertà in America Latina e nei Caraibi a causa della pandemia. Mentre i ricchi accumulano, ci sono nuovi attacchi alla classe operaia. La generalizzazione e l’imposizione di forme precarie di contrattazione, telelavoro e lavoro occasionale, insieme all’innalzamento del tetto dell’età pensionabile, sono alcune delle politiche imposte o che si tenta di imporre alle masse lavoratrici, mentre sussidi di importi miserabili (senza reale accesso universale e per un tempo limitato) sono stati concessi affinché la gente potesse a malapena sopravvivere nel momento più duro della pandemia.
Il collasso dei sistemi sanitari in quasi tutti i paesi poveri e nei paesi imperialisti come gli Stati Uniti, la Spagna e l’Italia, dimostra il dramma sociale in cui ci hanno gettato decenni di neoliberalismo e privatizzazione. L’attuale “guerra dei vaccini” è un altro esempio del carattere irrazionale della produzione capitalista. Mentre da un lato si fanno discorsi sulla “lotta contro la pandemia”, dall’altro si impongono brevetti che impediscono la generalizzazione delle conoscenze scientifiche e le priorità nella distribuzione dei vaccini, aumentando la profonda disuguaglianza tra paesi imperialisti e paesi oppressi. L’Africa, depredata per secoli dalle potenze europee, è forse il caso più aberrante di questa miseria generata dalla divisione internazionale del lavoro dove i paesi imperialisti depredano i popoli oppressi. I paesi sottoposti a blocchi, sanzioni e aggressioni costanti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati stanno attraversando una situazione molto grave, come è stato il caso del Venezuela, dell’Iran, di Cuba o il caso disperato del popolo palestinese.
L’esaurimento del neoliberalismo è alla base dell’emergere di tendenze politiche polarizzanti, come le organizzazioni di estrema destra Proud Boys e il grossolano assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump negli Stati Uniti. È a partire dal rafforzamento dei gruppi proto-fascisti in quel paese – che ha la tradizione del Klu Klux Klan – che si è aperto il dibattito sull’autodifesa nelle organizzazioni Black Lives Matter negli Stati Uniti. L’indebolimento del neoliberismo apre scenari di polarizzazione, crisi dei partiti borghesi e lotta di classe.
L’intensificarsi delle tensioni tra la Cina e gli Stati Uniti, da un lato, e le tensioni tra i diversi blocchi imperialisti, dall’altro, prefigurano maggiori scontri tra Stati, come dimostra il crescente militarismo delle principali potenze mondiali. Gli Stati Uniti faranno spese militari per 741 miliardi di dollari. Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2021 dovrebbe rappresentare un aumento di 3 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente, rafforzando il pivot degli Stati Uniti contro la Cina (di assedio militare, economico e politico). Guerre reazionarie come quelle in Nagorno-Karabakh, Yemen, Siria, tra le altre, sono una conseguenza dell’ascesa delle potenze medie, in un contesto di declino dell’imperialismo statunitense e della sua capacità di agire come “gendarme mondiale”.
In Medio Oriente, la sconfitta della primavera araba ha portato all’imposizione di regimi dittatoriali e reazionari. Mentre gli Stati Uniti mantengono la loro presenza militare in Iraq e Afghanistan, il popolo palestinese continua ad essere sottoposto all’occupazione coloniale dello Stato d’Israele, privato del suo elementare diritto democratico ad avere un proprio Stato, proprio come il popolo curdo.
La crisi attuale ha dimostrato sia l’impossibilità di una crescita evolutiva e indefinita basata sulla cosiddetta globalizzazione neoliberale, sia i limiti dei tentativi di tornare a politiche isolazioniste e protezioniste. Il caso di Trump ha messo a nudo la retorica “populista”, che era pura demagogia. Sul piano interno, ha intensificato lo svuotamento di tutti i servizi pubblici già minati dalle precedenti amministrazioni, soprattutto nei settori della sanità, dell’istruzione e degli alloggi. A livello internazionale, la sua politica “antiglobalista” si è limitata a una serie di tentativi di migliorare la posizione degli Stati Uniti in relazione a Cina, Russia e Unione Europea, rompendo le alleanze e i patti multilaterali così caratteristici delle amministrazioni precedenti, in particolare quella di Obama.
Resta da vedere se l’amministrazione Biden può agire come controtendenza alla crescente instabilità che sta prendendo piede nel sistema internazionale degli stati negli ultimi anni. Tuttavia, il declino dell’egemonia statunitense continua. Questo può essere visto, a livello di politica interna, nella crisi del Partito Democratico e del Partito Repubblicano di fronte al deterioramento della situazione sociale, al risorgere del razzismo e alla crisi sanitaria. Di fronte alla crisi, l’amministrazione Biden sta prendendo limitate misure “keynesiane”, la cui portata resta da vedere, ma che sono un salto nel percorso già iniziato da Trump di non rispettare la nozione neoliberale di disciplina fiscale (“stato minimo” e “governo economico”) su cui democratici e repubblicani hanno scommesso per decenni. Uno degli obiettivi dell’ambizioso piano di infrastrutture annunciato da Biden è quello di mettere gli Stati Uniti in una situazione di maggiore competitività con la Cina, e sta già generando scontri tra i due partiti e con settori del capitale egemonico su limitati aumenti di tasse e concessioni ai sindacati. Finora, il piano di assistenza di emergenza di 1.900 miliardi è a breve termine. Il nuovo progetto annunciato sarebbe di media durata e ha contro il partito repubblicano, un settore di capitale e la pressione che potrebbe esercitare sui democratici moderati al Senato. A lungo termine, i motori di accumulazione su cui il capitalismo statunitense può contare per una ripresa economica che lo riporti alle condizioni pre-2008 non sono chiari. Ciò che è chiaro è che la scommessa della classe dominante e dell’amministrazione Biden è di deviare e cooptare la classe operaia e i cosiddetti movimenti sociali sotto la copertura del lavoro delle burocrazie del lavoro e delle organizzazioni sociali.
A livello internazionale, le difficoltà della prima potenza mondiale di imporre le sue politiche in tutto il mondo e ricreare il consenso del passato, quando gli alleati dell’America lavoravano per cementare la sua egemonia, sono evidenti.
La pandemia, da parte sua, ha agito come un catalizzatore che ha esposto tutte le contraddizioni del capitalismo a tutti i livelli: tra il carattere sociale della produzione e la forma privata di appropriazione, il cui esempio più irrazionale – ma non l’unico – sono i brevetti sui vaccini. Tra il carattere internazionale dell’economia e la forma nazionale degli Stati, che può essere visto, da un lato, negli elementi delle guerre commerciali tra gli Stati Uniti e la Cina e le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Unione europea – così come all’interno della stessa Unione europea. Dall’altro lato, nell’intensificazione della pressione imperialista sui paesi dipendenti attraverso le politiche del FMI. I recenti e massicci processi di lotta di classe in vari paesi mostrano anche che il confronto di classe è ancora in vigore, anche se il tono degli eventi più importanti finora è stato di rivolte e ribellioni, piuttosto che rivoluzioni che mettano in scacco gli Stati capitalisti.
Questi elementi attualizzano nuovamente il quadro storico e strategico di crisi, guerre e rivoluzioni con cui il marxismo classico ha caratterizzato l’epoca dell’imperialismo all’inizio del XX secolo. Da qui, la validità della lotta antimperialista e socialista. Nonostante la restaurazione capitalista negli Stati operai burocratizzati e vari decenni di offensiva neoliberale contro le condizioni di vita della classe operaia e delle masse popolari di tutto il mondo, il capitalismo non solo non ha risolto le sue contraddizioni e le sue tendenze alla crisi, ma le ha portate a un estremo che comincia a indicare sempre più chiaramente la sua crescente incompatibilità con la continuità della specie umana e del pianeta.
Il ritorno della lotta di classe
Da prima della pandemia, abbiamo assistito a una crescita della lotta di classe in molti paesi. Dal Libano all’Ecuador, dalla Francia alla Bolivia, dal Cile agli Stati Uniti, dall’Algeria a Hong Kong, la classe operaia, le donne, i giovani, il movimento nero e ampi settori popolari sono scesi in piazza contro le politiche di “austerità” dei governi che applicano le ricette del FMI, contro il razzismo e gli abusi della polizia, contro il colpo di stato in Bolivia, tra altri esempi.
Per alcuni mesi, l’applicazione di quarantene e misure di isolamento nella maggior parte del mondo ha fatto rifluire la marea crescente di lotte. Tuttavia, la pandemia ha anche mostrato il ruolo dei lavoratori essenziali, senza i quali il mondo non può muoversi, che hanno acquisito fiducia nella propria forza. Settori precari della classe operaia hanno cominciato a organizzarsi in nuovi sindacati, o a condurre proteste e scioperi di settore per migliori condizioni di lavoro in diversi paesi – dai lavoratori a giornata, ai lavoratori della logistica, ai lavoratori di Amazon, agli infermieri, agli addetti alle pulizie, agli insegnanti, ecc. Inoltre, al culmine della pandemia negli Stati Uniti, emerse l’enorme e militante movimento di massa contro la violenza razzista della polizia innescato dall’omicidio di George Floyd.
L’organizzazione Detroit Will Breathe si mobilita come parte del corteo di massa di Black Lives Matter della primvera 2020.
Più tardi abbiamo assistito ai massicci scioperi dei lavoratori e alla lotta dei contadini in India, e alla feroce resistenza del movimento di massa al colpo di stato militare in Myanmar. Allo stesso tempo, processi più molecolari ma molto significativi come l’emblematico sciopero dei lavoratori petrolieri di Grandpuits contro il gigante Total in Francia. e molteplici processi di lotta e organizzazione in vari paesi come l’Italia e l’Argentina. Le nuove generazioni sono venute a lottare negli ultimi anni, sia per le rivendicazioni della classe operaia, sia per quelle specifiche del movimento delle donne, che ha fatto progressi fondamentali nella lotta e nell’organizzazione. Altre lotte hanno acquisito rilevanza, come quella contro la crisi ambientale, in cui i giovani hanno un ruolo centrale.
Secondo un’analisi dei disordini sociali nel 2019 della società di valutazione dei rischi Versisk Maplecroft, 47 paesi, cioè uno su quattro nel mondo, hanno visto grandi “disordini civili” solo nel 2019. A questi disordini sociali nel 2020 si sono aggiunte mobilitazioni e manifestazioni di massa nuove, che in parte sono ancora in corso, in Bielorussia, Thailandia e nell’Estremo Oriente russo; scioperi di massa in Indonesia; la ribellione che ha rovesciato il governo in Perù; e disordini in gran parte del mondo.
Tra il 2008 e il 2020 ci sono stati importanti processi di scioperi generali e lotte operaie, dall’India al Sudafrica, passando per Brasile, Cile, Colombia, Corea del Sud, Algeria e Francia, tra gli altri paesi. Allo stesso modo, le mobilitazioni di carattere “popolare” hanno acquisito un alto livello di violenza nel confronto con la repressione poliziesca.
Identifichiamo un primo ciclo di lotta di classe che si è sviluppato soprattutto dalla fine del 2010 con le rivolte rivoluzionarie in Medio Oriente, dove Egitto e Tunisia sono stati al centro del processo più profondo. Questa ondata si è diffusa in altri paesi, come Occupy Wall Street negli Stati Uniti o gli Indignados in Spagna. Ha avuto una sua risonanza in America Latina con il movimento studentesco cileno nel 2011 e il “Io sono 132” in Messico. Quel ciclo, sebbene sia finito in sconfitte come il colpo di stato militare in Egitto, o in Grecia dove Syriza ha finito per applicare le ricette della Troika, in guerre civili reazionarie come in Libia o in Siria, o in deviazioni come nel caso della Spagna (grazie all’azione di correnti neoriformiste come Podemos), ha mostrato le prime iniziative delle masse dopo la crisi capitalista.
Sullo sfondo di un’economia mondiale debole che tendeva alla recessione, nel 2018 abbiamo iniziato a vedere una nuova ondata di lotta di classe. In Francia, con l’emergere dei Gilets Jaunes, la cui radicalizzazione ha ispirato lotte successive come gli scioperi contro la riforma delle pensioni del liberale Macron. La tensione esplosiva dei Gilet Jaunes si è diffusa a livello internazionale nel 2019 con la ribellione di Hong Kong e le rivolte in Algeria e Sudan. Nell’Iraq devastato dalla guerra, sono seguite proteste di massa. Anche in Libano. In America Latina, abbiamo assistito a rivolte e ribellioni popolari in Ecuador, Colombia, Porto Rico e Cile, dove abbiamo visto il ritorno degli scioperi di massa.
Alcuni degli scioperi di massa hanno avuto luogo in mezzo a mobilitazioni moltitudinarie nelle strade e nelle piazze di tutto il mondo, come a Hong Kong, Cile, Thailandia, Ucraina, Libano e Iraq. L’Istituto sindacale europeo (ETUI) stima che tra il 2010 e il 2018 ci sono stati 64 scioperi generali nell’Unione europea, quasi la metà dei quali in Grecia. Più in generale, l’ILO stima, per quanto riguarda solo 56 paesi, che ci sono stati 44.000 scioperi operai tra il 2010 e il 2019, principalmente nelle fabbriche. Lo stesso rapporto dell’ILO, tuttavia, sottolinea che, possedendo dati limitati, il numero di scioperi potrebbe essere molto più alto di 44.000.
Giovani affrontano in prima linea i Carabineros a Santiago in Cile, 12 novembre 2019.
La nuova ondata di rivolte e ribellioni popolari che ha scosso diverse parti del mondo ha acuto come limite l’azione delle burocrazie sindacali e dei partiti riformisti che deviarono la forza e l’azione delle masse, facendo sì che queste importanti risposte contro gli attacchi dei governi capitalisti, che includevano metodi come lo sciopero generale in alcuni casi e scontri violenti contro la repressione poliziesca, non superassero la fase di estrema pressione sui regimi. Tuttavia, sono la base per nuovi processi di lotta di classe e per l’emersione di ali dell’avanguardia operaia e popolare che aiutino a ricomporre la soggettività del proletariato. La connessione tra la lotta di classe e la radicalizzazione politica dei settori d’avanguardia è terreno fertile per la nascita di partiti rivoluzionari, rivitalizzando le idee del marxismo rivoluzionario.
La forza della classe operaia
Questi processi di lotta di classe si svolgono nel quadro di una classe operaia che mantiene la sua forza strutturale. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), la forza lavoro globale è cresciuta del 25% tra il 2000 e il 2019. Le persone occupatesono passate da 2,6 miliardi a 3,3 miliardi nei primi due decenni del XXI secolo, il che rappresenta anche il 25%. Di questi persone impiegate, in termini ILO, il 53% sono salariati, rispetto al 43% del 1996; il 34% sono considerati lavoratori autonomi, rispetto al 31% del 1996; l’11% sonocollaboratori familiari, meno della metà del 23% del 1996; e il 2% sono datori di lavoro, rispetto al 3,4% del 1996.
Il capitalismo ha integrato nelle sue “catene globali del valore” anche il lavoro più elementare svolto da membri della famiglia in parti remote del mondo.
Nello stesso periodo, mentre in questi due decenni i servizi sono cresciuti del 60%, la forza lavoro impiegata nell’industria è cresciuta del 40%.
Contrariamente alla fantasia di un mondo “post-industriale”, la forza lavoro in fabbrica è cresciuta da 393 milioni nel 2000 a 460 milioni nel 2019, così come la forza lavoro industriale (che comprende anche l’edilizia e l’industria mineraria) è cresciuta da 536 milioni a 755 milioni nello stesso periodo. Le comunicazioni e i servizi urbani hanno 226 milioni di persone impiegate nel 2019, contro i 116 milioni del 2000.
I processi di delocalizzazione di importanti industrie fuori dagli Stati Uniti e dall’Europa e la riconversione di certe attività hanno creato due grandi poli della classe operaia a livello mondiale. Ci sono milioni di lavoratori nelle grandi industrie installate nei paesi asiatici o periferici, così come un settore concentrato di logistica e distribuzione con un peso speciale nei paesi capitalisti più sviluppati, ma che in realtà ha peso in tutti i grandi centri urbani del mondo. A questo si aggiunge la crescente proletarizzazione di settori di lavoratori che in passato erano socialmente e culturalmente legati alla piccola borghesia urbana e le cui condizioni di vita sono state assimilate a quelle della classe operaia media: lavoratori della sanità e dell’istruzione, impiegati statali, lavoratori di vari servizi, ecc. Mentre settori come il petrolio, l’energia, i trasporti, i porti o la logistica occupano grandi posizioni strategiche capaci di paralizzare la circolazione delle merci e delle persone, quelli legati alle funzioni statali legate alla comunità hanno il potenziale per contribuire all’articolazione tra la classe operaia organizzata e i poveri urbani.
Questa realtà della classe operaia e la sua forza dal punto di vista strategico mette anche in discussione le ideologie che oggi sono incluse sotto il nome di “post-capitalista” e che suppongono che il sistema attuale si stia dirigendo verso una quasi totale automazione dei processi di produzione che renderebbe superflua la forza lavoro, sostituendo il lavoro umano con le macchine, senza cambiare i rapporti di produzione. Diversi studi hanno sottolineato che i vari progressi che sono stati fatti negli ultimi decenni in termini di intelligenza artificiale, robotizzazione e automazione dei processi produttivi sono stati accompagnati da un crescente allungamento della giornata lavorativa. Attraverso meccanismi come l’annualizzazione dell’orario di lavoro, le banche delle ore e altre forme di precarizzazione del lavoro e gli attacchi alle conquiste della classe operaia, il capitalismo ha dimostrato che può sviluppare la tecnologia finché può essere usata per il profitto capitalista e non per i bisogni della grande maggioranza.
La lotta contro il razzismo e il capitalismo imperialista
Questa forza sociale della classe operaia può trionfare solo se si propone di liquidare il capitalismo imperialista. Su questa strada deve articolarsi politicamente con le richieste di tutti i settori oppressi. La lotta contro il razzismo e la xenofobia ha mostrato tutta la sua forza negli ultimi anni, come testimonia l’emergere di Black LivesMatter (BLM) negli Stati Uniti, guidando una ribellione nel cuore imperialista. Il BLM ha rivelato al mondo il carattere profondamente razzista dello stato americano e il matrimonio tra capitalismo e razzismo. Non solo per il carattere omicida degli sbirri contro le minoranze etniche, ma perché il capitale in generale usa il razzismo per alimentare l’esercito industriale di riserva e per dividere la classe operaia in lavoratori di prima, seconda e terza classe secondo la loro origine etnica o il loro status di immigrazione. Per questo ci sono le leggi reazionarie sull’immigrazione, i muri alle frontiere, le deportazioni o i centri di detenzione che sostengono la violenza poliziesca e istituzionale che gli Stati Uniti impongono al Messico, all’America Centrale, ai Caraibi e gli imperialismi europei impongono ai paesi dell’Europa orientale, dell’Africa e dell’Asia.
L’Unione Europea spende miliardi per la protezione delle frontiere di Frontex per impedire ai rifugiati di attraversare il Mediterraneo. Di conseguenza, otto persone muoiono ogni giorno cercando di attraversare il Mediterraneo. L’UE ha effettivamente soppresso il diritto d’asilo con campi di detenzione alle sue frontiere esterne, combinati con un discorso che cerca di dividere i migranti in quelli che presumibilmente “meritano” l’asilo e quelli che non lo meritano. Così, la stragrande maggioranza dei rifugiati viene messa fuori legge, gettata in condizioni di sopravvivenza ancora peggiori e condannata al supersfruttamento e all’oppressione razzista.
La classe operaia negli Stati Uniti e in Europa è multietnica, e la pandemia ha rivelato che i lavoratori afroamericani, latini e caraibici costituiscono una parte fondamentale dei cosiddetti “lavoratori essenziali” negli Stati Uniti, così come i lavoratori turchi, arabi, curdi e africani in Europa.
Nel contesto della pandemia e sulla scia dell’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, è sorto il movimento più massiccio della storia recente, che si è confrontato con la polizia e ha ribadito che il razzismo è un problema strutturale intimamente legato alla storia della formazione del potere statale e delle istituzioni del paese nel loro insieme. Non è una coincidenza la confluenza di vecchie e nuove organizzazioni razziste e di estrema destra che irrompono al centro della scena politica statunitense con le mobilitazioni contro le quarantene e il BLM, e con l’attacco al Campidoglio.
La crisi che l’imperialismo statunitense sta attraversando apre nuovi scenari della lotta di classe e un’apertura all’azione del proletariato. Ma nessuna politica rivoluzionaria negli Stati Uniti può fare a meno di prendere come una delle sue principali bandiere la lotta per la liberazione dei neri e contro l’oppressione delle minoranze etniche e degli immigrati. La sinistra democratica – allineata con la burocrazia sindacale che è stata storicamente strumentale nel sostenere il razzismo all’interno del movimento operaio – disprezza la lotta specifica contro il razzismo, chiamandola “politica dell’identità”. Le burocrazie che guidano il movimento nero, come agenti del Partito Democratico, separano la lotta contro il razzismo dalla lotta contro il capitalismo. Entrambe le politiche portano a un vicolo cieco.
Entrambe le strategie si oppongono alla lotta contro il razzismo sistematico e lo sfruttamento capitalista, per i quali i lavoratori neri devono prendere la guida nella lotta del potente proletariato multietnico degli Stati Uniti.
Bisogna alzare con forza le bandiere dell’antirazzismo, della lotta senza quartiere contro i gruppi protofascisti e la polizia razzista, e unirle a quelle della lotta di classe contro i padroni, la grande borghesia e lo Stato imperialista.
Gli esempi storici dei grandi scioperi a Detroit nel 1968 hanno dimostrato che si può fare. Più recentemente abbiamo i vari esempi di organizzazioni sindacali che hanno lanciato scioperi a sostegno del BLM e in ripudio dell’omicidio di George Floyd, come lo sciopero di un giorno dei porti il 19 giugno 2020 che ha paralizzato 29 porti sulla costa occidentale, o le centinaia di azioni in tutto il paese in ripudio alla violenza razzista della polizia nei magazzini Amazon, nei supermercati e nei fast food. Abbiamo visto manifestanti antirazzisti fraternizzare con i cosiddetti lavoratori essenziali in azioni comuni. Le campagne regionali, condotte dalla base di alcune organizzazioni sindacali locali che chiedono alle direzioni sindacali di espellere i sindacati di polizia dalle confederazioni sindacali, sono un altro esempio di tendenze concrete verso l’unità.
Mentre il BLM si è ritirato nelle strade ed è stato travasato per il voto del “male minore” per Joe Biden e Kamala Harris, le braci del movimento sono ancora vive e vegete e si esprimono nell’emergere di decine di organizzazioni d’avanguardia antirazziste in piccole e grandi città. Tra queste, ci sono organizzazioni che cominciano a radicalizzarsi politicamente, lottando per l’indipendenza politica del movimento dal Partito Democratico e abbracciando sempre più una prospettiva di classe per unificare la lotta antirazzista come lotta anticapitalista, come Detroit Will Breathe, in quella che è stata l’imponente capitale della Rust Belt.
Questa avanguardia, emersa nel calore del BLM, coesiste e fa parte del fenomeno ideologico di sinistra che si è sviluppato a partire da Occupy Wall Street, poi con la candidatura di Bernie Sanders e ha catapultato la crescita dei Democratic Socialists of America. Mentre i DSA ha catturato l’immaginazione deimillennial socialisti, oggi si sono adattati a lavorare per la sinistra del Partito Democratico, che a sua volta lavora per la nuova amministrazione di Joe Biden.
La persistenza di questa avanguardia si combina con l’emergere di grandi lotte locali che diventano nazionali, come il tentativo di sindacalizzare più di 5.100 lavoratori per lo più neri nella comunità di Bessemer, Alabama. Anche la stampa borghese ha dovuto riconoscere che la lotta di Amazon è l’espressione profonda della simbiosi tra la lotta antirazzista e la lotta contro il grande padronato come Amazon. Nonostante la sconfitta immediata, questa è una prima battaglia sulla strada per strappare un sindacato al gigante di proprietà di Jeff Bezos.
Anche in Europa, la lotta contro il razzismo è strettamente legata alla lotta contro le politiche imperialiste, che generano solo guerre, fughe e morte nella periferia, in Africa e nel Medio Oriente. Pertanto, è altrettanto necessario stabilire un programma antimperialista che si opponga agli interventi militari e alle esportazioni di armi dei paesi del nucleo capitalista. Nel 2018, c’è stata un’ondata di scioperi portuali in Europa di carattere esemplare: i portuali di Le Havre, Genova, Santander e Marsiglia si sono rifiutati di caricare la nave cargo saudita “Bahri-Yanbu” con materiale bellico. Hanno scioperato e inviato un messaggio veramente internazionalista: “Porti chiusi per la guerra – porti aperti per i migranti”.
Per l’unità e l’egemonia della classe operaia
Mentre la lotta di classe più dinamica si esprime in molti casi attraverso l’intervento degli oppressi nei movimenti policlassisti, la sinistra internazionale si è divisa tra coloro che hanno avuto una politica astensionista o coloro che si adattano opportunisticamente alle direzioni dei cosiddetti movimenti sociali o delle burocrazie sindacali, senza lottare per una direzione operaia e rivoluzionaria al loro interno.
Di fronte alla ribellione dei gilet gialli nel 2019, la prima risposta del governo di Emmanuel Macron è stata quella di identificare il movimento con l’estrema destra. I leader sindacali hanno seguito l’esempio, compresa la CGT e purtroppo anche settori dell’estrema sinistra. Mentre il carattere eterogeneo dei suoi partecipanti, i limiti della sua organizzazione, e il basso livello di coscienza di classe ponevano da sempre il pericolo che la minoranza reazionaria di estrema destra si rafforzasse, il suo radicalismo, le sue rivendicazioni sulla disuguaglianza economica e le sue aspirazioni democratiche, gli davano un corso progressivo. In questo contesto, il ruolo della sinistra rivoluzionaria era quello di cercare di combattere la minoranza di estrema destra nel movimento, sia politicamente che ideologicamente, invece di voltare le spalle all’insieme. Per questo come NPA – Révolution Permanente ci siamo battuti per l’autorganizzazione democratica del movimento, la necessità di formare comitati d’azione per estenderlo e unificarlo con i principali baluardi della classe operaia, i giovani e i quartieri popolari fino a sconfiggere Macron sulla strada dello sciopero generale. Allo stesso tempo, abbiamo lottato nelle strutture operaie e studentesche in cui ci troviamo e anche nei sindacati, non solo per ottenere la loro solidarietà ma anche per farli aderire al movimento. Dal collettivo interstazione ereditato dal grande sciopero ferroviario del 2018 e dal Comitato Verità e Giustizia per Adama, abbiamo promosso fin dalle prime azioni dei gilet gialli quello che è stato chiamato il “Polo Saint-Lazare”. Questo polo di lavoratori, giovani e settori popolari di quartiere chiamava a marciare insieme dalla stazione di Saint-Lazare, per poi unirsi ai gilet gialli e manifestare con loro in spezzoni organizzati, avanzando le proprie rivendicazioni. Questo polo arrivò a riunire diverse migliaia di persone nelle strade e centinaia nelle assemblee e giocò un ruolo importante nel rompere l’isolamento che il governo e la burocrazia sindacale cercavano di imporre al movimento.
L’importanza di una politica egemonica rimane valida in relazione a settori sociali che non fanno parte della classe operaia, ma che hanno interessi convergenti con essa. Possiamo prendere come esempio il caso dell’alleanza tra gli scioperanti petrolieri della Total alla raffineria Grandpuits in Francia e i movimenti ecologisti di fronte alla chiusura e alla ristrutturazione della raffineria, che i padroni hanno presentato come al servizio di una supposta transizione ecologica. I lavoratori in sciopero hanno dimostrato che non c’è nulla di ecologico nel progetto della Total, hanno denunciato il ruolo del gigante petrolifero in paesi periferici come il Mozambico e l’Uganda, e hanno rivendicato che solo i lavoratori possono garantire una transizione veramente ecologica e che non sarà fatta a spese di centinaia di posti di lavoro e della sicurezza dei lavoratori e degli abitanti della zona. Sulla stessa linea, possiamo evidenziare la lotta dei lavoratori del cantiere navale Harland and Wolff in Irlanda, che reclamano contro la chiusura e in difesa della “energia pulita”. Contro il “greenwashing” e gli appelli al grande capitale, che sono essi stessi i più grandi assassini del clima, queste lotte rappresentano dei fari per una via d’uscita della classe operaia dalla crisi climatica, che deve essere innalzata e generalizzata per i giovani, i quali si trovano a un bivio tra socialismo e barbarie nella lotta contro il cambiamento climatico.
D’altra parte, la classe operaia deve prendere in mano le bandiere dei popoli nativi storicamente oppressi dagli stati capitalisti e la lotta in difesa dei loro territori in tutta l’America Latina. Non dimentichiamo che la destra filoimperialista che colpisce la classe operaia, è la stessa che ha dato fuoco alla wiphala del Palacio Quemado, dimostrando il carattere razzista del golpe in Bolivia, attaccando le comunità di origine Aymara, Quechua o Tupi Guarani. I popoli nativi hanno importanti storie di resistenza, come l’eroica lotta del popolo Mapuche. L’alleanza tra operai, contadini e indigeni ha una dimensione strategica per superare la resistenza dei capitalisti e delle loro istituzioni. Tuttavia, questa alleanza è inconcepibile senza che i lavoratori prendano in mano queste rivendicazioni. A partire dal riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale, di fronte al fallimento dell’”integrazione” istituzionale che i governi borghesi e i “progressisti” hanno sostenuto. La smilitarizzazione delle comunità dei popoli nativi, la redistribuzione delle terre legata all’esproprio delle industrie agricole e forestali. L’esempio della resistenza al colpo di stato in Bolivia, sviluppatasi nel distretto 8 della fabbrica di Senkata, mostra il potenziale dell’alleanza tra operai, contadini e popoli nativi.
Mobilitazione in Francia dei Gilets Jaunes a Tolosa, 18 dicembre 2018.
Manifestazione a Parigi dei lavoratori della raffineria Total Grandpuits, 26 gennaio 2021.
Nello stesso senso, è importante sottolineare l’importanza di articolare la lotta della classe operaia con quella delle donne e delle persone LGTBI, un movimento che ha prodotto mobilitazioni di massa in tutto il mondo. Nessun progetto di emancipazione sociale rivoluzionaria può fare a meno di prendere le rivendicazioni delle donne come vitali e centrali, in quanto costituiscono una messa in discussione della politica degli Stati e della classe dominante. Sostengono l’oppressione delle donne nel capitalismo, che implica l’intensificazione della violenza contro le donne, la negazione dei loro diritti più elementari, l’imposizione di condizioni di vita e di lavoro peggiori. Negli ultimi anni, di fronte all’emergere di un importante movimento delle donne in diversi paesi, abbiamo partecipato attivamente a molteplici assemblee e piattaforme unitarie, promuovendo gli “scioperi delle donne” e lottando per formare un’ala rivoluzionaria, socialista e di classe all’interno del movimento. In questo senso, ci siamo confrontati sia con i settori del femminismo liberale che con i settori separatisti – che rifiutavano di unificare la lotta delle donne con il resto dei settori oppressi – così come con le tendenze punitiviste che cercano di rafforzare i meccanismi repressivi dello Stato borghese come risposta alla violenza maschilista. Lottiamo anche contro la cooptazione del movimento delle donne dietro alternative “neoliberali con un volto progressista” come il Partito Democratico negli Stati Uniti o il governo PSOE-Podemos in Spagna, o il “femminismo dei ministeri” come il kirchnerismo in Argentina. Allo stesso tempo, abbiamo messo tutta la nostra forza per dare voce alle lotte delle donne lavoratrici contro lo sfruttamento capitalista, per il diritto alla casa o contro il razzismo istituzionale. Durante la pandemia, le lavoratrici e i lavoratori migranti sono stati in “prima linea” nella lotta contro il coronavirus e oggi meritano di essere in prima linea nella lotta di classe. Per lottare per questa prospettiva di un femminismo socialista e operaio, promuoviamo la corrente Pan y Rosas in ogni paese e a livello internazionale.
Spezzone di Pan y Rosas nel corteo dell’8 de marzo 2021, a Buenos Aires, Argentina.
Tenendo conto della lotta contro il razzismo e della lotta delle donne, l’unità della classe operaia implica non solo la lotta per l’uguaglianza dei diritti sul piano economico, ma anche sostenere le rivendicazioni specifiche di tutti quei settori che sono socialmente parte della classe operaia. Quella che storicamente nel marxismo si è definita come una politica di egemonia operaia (cercare un’alleanza tra la classe operaia e altri settori sociali oppressi), collegando le loro rivendicazioni con l’obiettivo di rovesciare il regime capitalista, oggi è indispensabile anche per raggiungere l’unità della classe stessa.
Polarizzazione, tendenze bonapartiste e difesa delle libertà democratiche
Nel quadro della crisi capitalista, negli ultimi anni, formazioni di destra nazionaliste o “populiste” sono cresciute in diversi paesi del mondo, ma soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Vediamo le correnti di ultradestra legate a Trump, i nazionalismi dei paesi del gruppo di Visegrad, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. La loro politica è quella di attaccare i più elementari diritti democratici, sulla base di un discorso che viene presentato come “anti-establishment”. Prendono di mira settori della classe operaia e del popolo, le donne, gli immigrati e le comunità LGTBI, alimentano pregiudizi razzisti e xenofobi (antisemiti, islamofobici e antirom), esacerbando per esempio le “radici cristiane dell’Europa” di cui i loro paesi sarebbero i garanti “della fede” contro le “invasioni” straniere. Tutte mirano a rafforzare un apparato esecutivo sempre più autoritario: concentrazione del potere nelle mani del partito al potere, controllo esecutivo dei diversi poteri e istituzioni dello Stato, controllo sempre più restrittivo dei media e della repressione, modifiche delle leggi elettorali, tra gli altri.
Bolsonaro è in Brasile il rappresentante di questa corrente internazionale di estrema destra che è stata promossa da Donald Trump, e che dopo la sua sconfitta elettorale conserva ancora un’importante base sociale. È una figura che ha rapporti con le milizie paramilitari reazionarie, con la polizia e con settori delle Forze Armate. Il Brasile è uno dei paesi che più sviluppa tendenze bonapartiste a livello internazionale, ma è anche soggetto agli effetti delle crisi organiche derivanti dalla Grande Recessione del 2008 e dalla pandemia. Bolsonaro non è in grado di stabilire l’egemonia dell’estrema destra e il suo è un governo instabile, come dimostrano la crisi pandemica, i cambiamenti ministeriali forzati e la crisi con settori delle forze armate. La lotta contro queste tendenze bonapartiste, che in Brasile includono l’autoritarismo giudiziario, con una politica di indipendenza di classe e con l’autorganizzazione delle masse, è una delle più importanti battaglie dell’avanguardia. Con i nostri compagni del MRT, lottiamo per un programma operaio di transizione contro tutto il regime del golpe istituzionale del 2016, contro Bolsonaro, Mourão e i golpisti, insieme alla proposta di un’Assemblea Costituente Libera e Sovrana, che metta nelle mani delle masse, con i lavoratori, le donne e i neri in prima linea, la decisione di tutti i problemi strutturali del paese, economici e democratici.
Il Movimiento Revolucionario de Trabajadores (MRT) del Brasile in lotta contro il golpe istituzionale. Brasilia, 2017.
Ma, prendendo il quadro più generale, l’estrema destra non è sola a fare attacchi alle libertà democratiche. Lo si può vedere in quei vari governi autodefinitisi “di centro” o addirittura “progressisti” che hanno difeso le misure di stato di emergenza e la repressione dei movimenti operai e popolari, come il governo Macron in Francia che ha provocato decine di mutilati, come non si vedeva da decenni, di fronte alla rivolta dei gilet gialli come parte di un salto nella repressione di scioperi e proteste sociali; la difesa della monarchia contro l’indipendenza catalana in Spagna, la giustificazione del militarismo e delle politiche anti-immigrazione con la scusa di combattere il “terrorismo”, tra gli altri.
La pandemia inasprisce le misure di controllo con confinamenti, coprifuoco e stati di eccezione. In America Latina, il corso disastroso del governo Maduro è l’espressione di come la militarizzazione del regime, lungi dal combattere l’imperialismo, colpisce settori della classe operaia che vedono polverizzati i loro salari (in media due dollari al mese).
Quelli di noi che lottano per una democrazia operaia basata su organi di autodeterminazione delle masse sfruttate, si mettono in prima linea nella lotta contro ogni attacco alle libertà democratiche. Nello Stato spagnolo, come CRT abbiamo difeso le giuste richieste del movimento democratico in Catalogna per il diritto all’autodeterminazione, che si è espresso negli ultimi anni con molteplici manifestazioni di massa, proteste giovanili e il referendum del 1 ottobre 2017. Come parte di questa lotta, affrontiamo anche la repressione dello Stato spagnolo centralista e monarchico e chiediamo la libertà di tutti i prigionieri politici. Allo stesso tempo, mettiamo in discussione la politica conciliante delle direzioni borghesi e piccolo-borghesi del “procés” catalano e segnaliamo la necessità di una strategia di indipendenza di classe. L’orizzonte di lotta per una Repubblica Socialista Catalana è parte della prospettiva di lotta per una Federazione delle Repubbliche Socialiste Iberiche.
La Corriente Revolucionaria de Trabajadoras y Trabajadores (CRT) dello Stato spagnolo nella mobilitazione per l’autodeterminazione della Catalogna e per la liberazione dei prigionieri politici catalani.
Contro i tentativi di limitare le libertà e i diritti democratici da parte di regimi sempre più repressivi contro la classe operaia e il popolo, chiediamo la fine della militarizzazione, degli stati di eccezione e dei coprifuochi, che non servono a nulla per affrontare la pandemia. La fine delle istituzioni oligarchiche come il senato e la figura autoritaria del presidente della repubblica che concentra prerogative ponendosi al di sopra del popolo lavoratore. Difendiamo il diritto al suffragio universale, senza veti o restrizioni. Elezione popolare dei giudici e processi con giuria. La formazione di un’assemblea unica di rappresentanti eletti a suffragio universale dall’età di 14 anni, senza discriminazione di sesso o nazionalità, con rappresentanti revocabili che guadagnino come qualsiasi lavoratore o lavoratrice.
Sosteniamo anche che l’abolizione delle leggi reazionarie sull’asilo, la chiusura immediata dei campi di detenzione e l’apertura di tutte le frontiere a tutti i richiedenti asilo, insieme a un piano di emergenza che includa il sostegno ai rifugiati, l’accesso agli alloggi, i pieni diritti sociali e politici e l’accesso al lavoro in condizioni di parità con i lavoratori nativi, sono rivendicazioni che devono essere difese dalla sinistra socialista e rivoluzionaria e dalla classe operaia nel suo insieme.
Avanziamo tutte queste rivendicazioni in difesa dei diritti democratici spingendo per richieste democratiche radicali (prese da esperienze come la Comune di Parigi e la Convenzione Giacobina), come un modo per accelerare l’esperienza delle masse con la democrazia borghese e per squarciare i regimi capitalisti e la loro democrazia per i ricchi. Per affrontare sia l’estrema destra più reazionaria che le tendenze bonapartiste dei regimi nel loro insieme, unendo la lotta per le rivendicazioni democratiche con un programma per un governo della classe operaia e del popolo.
L’attualità di un programma di transizione per affrontare la crisi capitalista
Gli slogan più immediati che abbiamo sollevato devono essere articolati con altri di carattere transitorio anticapitalista, che cercano di costruire un ponte tra la coscienza attuale delle masse e la meta del socialismo, come un modo per garantire pienamente le rivendicazioni sollevate attraverso lo sviluppo della lotta di classe. Di fronte alla crisi degli alloggi in cui sono state gettate milioni di famiglie povere, con la complicità delle forze di polizia, chiediamo l’esproprio delle case vuote delle imprese immobiliari per rispondere alla crisi degli alloggi, e la nazionalizzazione delle imprese strategiche sotto il controllo dei lavoratori, in un momento in cui queste imprese stanno aumentando le tariffe nei quartieri popolari, tra gli altri; con questo programma, cerchiamo di unificare le richieste della classe operaia e aiutare il suo sviluppo dalle lotte settoriali a una lotta generalizzata contro il governo e lo Stato.
I problemi di articolazione tra le rivendicazioni di classe e quelle di altri settori popolari sono stati trattati anche da Lev Trotsky nella sua teoria della rivoluzione permanente e nel Programma di transizione in un altro contesto storico, in cui il mondo era molto più agrario e rurale e meno urbano e industriale di oggi. La teoria della rivoluzione permanente non contrappone la lotta per specifiche richieste sociali o democratiche alla rivoluzione e al socialismo. Al contrario, sottolineando l’importanza di queste rivendicazioni come motori di mobilitazione di massa, segnala che la loro risoluzione integrale e definitiva è impossibile senza collegarle alla lotta contro il capitalismo, per porre fine alla proprietà privata dei mezzi di produzione e costruire il comunismo. Quando parliamo di comunismo, ci riferiamo, come Marx, a una società di liberi produttori, in cui la liquidazione dei rapporti di proprietà, delle classi e dello Stato e il superamento delle diverse forme di oppressione, permettono a ciascuno di sviluppare il massimo delle sue capacità contribuendo al lavoro comune della società.
Per tutto il 2020, le grandi imprese e i governi hanno imposto il costo della crisi economica e sanitaria alla classe operaia e ai settori popolari. Come Frazione Trotskista, segnaliamo l’importanza di misure elementari come la liberazione dei brevetti per permettere la produzione e la distribuzione di massa dei vaccini, le ferie pagate al 100% e i salari di quarantena, il condono dei debiti per i piccoli e medi commercianti, le tasse progressive sulle grandi fortune, la centralizzazione e la nazionalizzazione dei sistemi sanitari, così come l’importanza delle misure per affrontare l’irrazionalità delle multinazionali e dell’imperialismo, come il monopolio statale del commercio estero e la nazionalizzazione del sistema bancario sotto il controllo dei lavoratori; insieme al mancato pagamento dell’odioso debito estero che costringe i paesi a stanziare risorse per servire le piovre economiche internazionali e non per i bisogni del popolo in questi tempi di crisi.
La borghesia, ma anche le correnti riformiste e neoriformiste dicono che molte di queste misure sono “inapplicabili” o “utopiche”. È diventato senso comune che il capitalismo è ciò che passa il convento, e che al massimo possiamo chiedere sussidi o aumenti salariali quando l’economia cresce, o peggio, accontentarci di chiedere la liquidazione di fronte alle chiusure nei periodi di crisi.
Lavoratori della salute della provincia di Neuquén, Argentina, bloccano la strada dello stabilimento petrolifero di Vaca Muerta, 10 aprile 2021.
Il nostro programma è socialista non per questioni dottrinali, ma perché per salvaguardare le condizioni di vita delle masse popolari è necessario prendere misure che colpiscano gli interessi di coloro che beneficiano dello sfruttamento e della precarietà della classe operaia e del popolo. Di fronte all’inflazione, all’alto costo della vita e al ricatto economico della borghesia, sosteniamo la lotta per la scala mobile dei salari e degli orari di lavoro, l’occupazione e il controllo operaio di ogni fabbrica o stabilimento che chiude o fallisce, una questione fondamentale per difendere i posti di lavoro. Di fronte ai licenziamenti di massa e alla disoccupazione, lottiamo per la distribuzione dell’orario di lavoro senza intaccare i salari per combattere la disoccupazione, la nazionalizzazione delle banche sotto il controllo dei lavoratori e il monopolio del commercio estero per porre fine alla fuga di capitali che beneficia solo le corporations e le imprese imperialiste.
Misure come queste possono essere imposte solo dalla lotta sistematica della classe operaia, basata su organi di auto-organizzazione e difesa, consigli operai e popolari e le loro rispettive milizie, per imporre un governo della classe operaia e del popolo, mettendo fine allo sfruttamento e alla miseria a cui ci gettano i capitalisti. La crisi attuale riattiva molte di queste rivendicazioni che storicamente facevano parte del programma del movimento operaio e che furono sistematizzate specialmente da Lev Trotsky nel Programma di transizione adottato come manifesto di lotta dalla Quarta Internazionale nel 1938.
L’importanza di sviluppare istituzioni di auto-organizzazione per la lotta di classe
La classe operaia ha la forza sociale e la possibilità di unire i diversi settori oppressi, ma deve affrontare la burocratizzazione delle proprie organizzazioni subordinate allo Stato.
Questa questione è stata affrontata da Lev Trotsky nelle sue riflessioni sulla “statalizzazione dei sindacati”, sulla base delle quali ha formulato una politica di intervento attivo nella lotta contro la burocrazia. D’altra parte, Antonio Gramsci ha analizzato l’evoluzione del vecchio sindacalismo e la sua integrazione allo Stato, coniando la nozione di ‘Stato integrale’. Queste elaborazioni effettuate nel periodo tra le due guerre sono ancora pienamente valide oggi.
Anche se sotto l’offensiva neoliberale alcune conquiste del cosiddetto “stato sociale” sono state erose in molti paesi del mondo, il ruolo della burocrazia sindacale come rappresentante dello Stato nella classe operaia è stato mantenuto, anche con un salto nell’integrazione della burocrazia sindacale in molti paesi, attraverso benefici o direttamente il suo sviluppo come burocrazia aziendale. In altri casi in cui le burocrazie sindacali non sono così potenti in termini economici, hanno ugualmente seguito la rotta a destra della socialdemocrazia e del riformismo, accettando l’essenza degli attacchi portati dalle diverse borghesie, con l’argomento che “non c’è abbastanza forza” per affrontarli e dividendo in modo corporativo i diversi settori della classe operaia. Di fronte allo sviluppo di diversi movimenti sociali, nuove mediazioni o direzioni burocratiche sono emerse anche in movimenti che non sono direttamente legati ai sindacati, come nel movimento delle donne, nel movimento ambientalista o anche nei movimenti dei disoccupati organizzati separatamente dai lavoratori dipendenti e basati sulla richiesta di sussidi e altre forme di assistenza statale.
La burocrazia sindacale è la principale promotrice della divisione della classe operaia in diversi settori, che in molte occasioni sembrano addirittura essere direttamente opposti tra loro. Per questo, la classe operaia deve lottare per la più ampia democrazia sindacale, strappando il controllo dei sindacati alle burocrazie e per l’indipendenza delle loro organizzazioni rispetto allo Stato. Ma per sviluppare una reale unificazione di tutti i suoi settori e per far coincidere le sue rivendicazioni con quelle degli altri settori oppressi, è necessario, quando se ne presenta l’occasione, sviluppare nuove organizzazioni che vadano oltre la minoranza sindacalizzata della classe operaia. Ci riferiamo a casi di autorganizzazione popolare che permettono di raggruppare la classe al di là delle divisioni tra lavoratori permanenti e a contratto, nativi e immigrati, sindacalizzati e non sindacalizzati, che rafforzano le tendenze d’avanguardia e in questo modo costituiscono un movimento operaio indipendente dallo Stato, che eleva la prospettiva di un governo della classe operaia e del popolo.
Dalla crisi del 2008, diverse forme di irruzione ed espressione del movimento di massa sono emerse al di fuori dei canali tradizionali. Dalle manifestazioni di massa come quelle di piazza Taksim e piazza Tahrir, alle assemblee territoriali in Cile, o i Cabildos di El Alto (Bolivia) tra gli altri. Come Frazione Trotskista – Quarta Internazionale abbiamo promosso lo sviluppo di istituzioni di autorganizzazione nelle diverse esperienze di lotta di classe di cui abbiamo avuto l’opportunità di far parte, cercando che possano effettivamente creare meccanismi di decisione e preparazione della lotta. Ne citeremo alcuni.
In Argentina, come PTS abbiamo promosso la formazione di organizzazioni di base anti-burocratiche fin dagli inizi della nostra corrente. Una delle esperienze più importanti in questo senso è stata quella, già emblematica, della lotta della Cerámica Zanon di Neuquén, che da più di 20 anni è sotto la gestione diretta dei lavoratori e che ha dato origine nel 2003 all’unità tra il Sindacato Ceramista e il Movimento dei Lavoratori Disoccupati, creando in seguito il Comitato Regionale di Coordinamento dell’Alto Valle, che raggruppava lavoratori occupati e disoccupati, diversi settori militanti, i gruppi coscienti di classe che in quel momento dirigevano le sezioni sindacali del capoluogo e della località Centenario del sindacato degli insegnanti, tra gli altri. Questo Comitato Coordinatore raggruppava i settori militanti e antiburocratici e allo stesso tempo avanzava richieste di sciopero e unità d’azione con la CTA, spesso convergendo nelle strade con i sindacati che raggruppavano i lavoratori statali della provincia. Allo stesso tempo, la direzione dei lavoratori stabilì un’alleanza con il popolo Mapuche, che dura ancora oggi. Abbiamo promosso l’unità degli occupati e dei disoccupati nell’Assemblea Nazionale Piquetera, lottando per un unico movimento di lavoratori disoccupati con libertà di tendenze e con la rivendicazione di un lavoro genuino. Questa lotta continua ancora oggi. Nelle diverse esperienze del fenomeno anti-burocratico che ha travolto il movimento dei lavoratori dell’industria e dei trasporti dal 2004, noto come “sindacalismo di base”, così come nelle lotte dei lavoratori della sanità e dell’educazione, abbiamo cercato di sviluppare l’organizzazione di base, il coordinamento tra diversi settori di lavoratori e l’unità con altri settori popolari. Nello stesso senso, siamo intervenuti nella recente lotta per la terra e la casa, con epicentro a Guernica, cercando l’unità dei diversi quartieri in cui si è organizzata l’occupazione, proponendo un’assemblea unitaria e non divisa secondo le correnti che predominano in ogni settore, chiedendo che le centrali sindacali appoggino la lotta delle famiglie senza casa, promuovendo l’unità con i lavoratori occupati e il movimento studentesco. Abbiamo partecipato in prima linea al confronto con l’operazione repressiva portata avanti dal kirchnerismo e ci siamo battuti per mantenere l’organizzazione dopo lo sgombero con la proposta di sostenere l’Assemblea dei vicini di Guernica. Attualmente, la militanza del PTS sta partecipando direttamente ai diversi processi di lotta dei lavoratori che sorgono, mettendo in discussione le direzioni sindacali burocratiche, come le dure lotte dei viticoltori e la ribellione dei lavoratori della salute a Neuquén, che ha paralizzato tutta la provincia con picchetti e grande appoggio popolare, cercando di promuovere istanze di raggruppamento dei settori combattivi, e allo stesso tempo esigendo dai sindacati e dalle centrali sindacali misure di azione contro l’erosione dei salari, per la salute e le condizioni di lavoro e anche in difesa dei lavoratori e dei settori popolari non raggruppati nelle organizzazioni sindacali. Per questo sosteniamo la necessità di una politica di unità tra occupati e disoccupati e al di là delle frontiere imposte dalla burocrazia sindacale e dallo Stato.
La polizia della Provincia de Buenos Aires, Argentina, sgombera violentemente oltre 4.000 famiglie senza tetto che avevano occupato terreni nella località di Guernica, 29 ottobre 2020.
In Cile, il Partido de Trabajadores Revolucionarios (PTR) è stato una delle organizzazioni trainanti del Comité de Emergencia y Resguardo de Antofagasta, un’organizzazione che ha riunito sindacati dell’industria metallurgica e portuale, insegnanti, giovani precari e comitati di quartieri popolari che sono stati in prima linea nell’organizzazione e nella convocazione di uno sciopero generale, con la rivendicazione comune di caduta di Piñera nel mezzo della ribellione popolare cilena del 2019. Organismi come questo permettevano di coordinare settori della classe operaia con la “prima linea” della gioventù militante nelle città. Il punto più alto è stato raggiunto nello sciopero generale del 12 novembre 2019. Un’assemblea di 400 delegati di diversi settori ha cercato di organizzare la paralisi della città, concentrando 25 mila lavoratori nella “piazza della rivoluzione” con un polo militante che denunciava la tregua criminale che le organizzazioni del riformismo e la burocrazia sindacale della CUT cercavano di inserire, ponendo la caduta rivoluzionaria del governo. Abbiamo anche fatto parte del comitato di sicurezza dell’ospedale Barros Luco nel comune di San Miguel a Santiago, che è stato un esempio di coordinamento con le città vicine, gli studenti delle scuole superiori e le organizzazioni. Per agire nei giorni dello sciopero generale abbiamo cercato di promuovere istanze di coordinamento nelle principali città del paese come Arica, Antofagasta, Santiago, Valparaiso e Temuco.
Assemblea del Comité de Emergencia y Resguardo ad Antofagasta, Cile, 10 novembre 2019.
Durante la lunga lotta contro la riforma delle pensioni in Francia nel 2020, i militanti della CCR-Révolution Permanente sono stati al centro del coordinamento tra SNCF (ferrovie) e RATP (trasporto urbano nella regione di Parigi), che è stato un elemento determinante perché lo sciopero rimanesse in atto, nonostante l’appello più o meno aperto alla tregua durante le vacanze di fine anno da parte della burocrazia sindacale. Il Coordinamento è arrivato a riunire più di 100 rappresentanti di 14 centri degli autobus (su un totale di 21), di tre linee della metropolitana e delle due linee ferroviarie urbane, e fu in un certo senso una voce alternativa a quella dei dirigenti sindacali durante tutto il conflitto.
Creare istituzioni di autorganizzazione operaia e popolare ci prepara alle prossime lotte nella lotta di classe, cercando di approfondire l’alleanza tra i lavoratori e i settori oppressi, combattendo le burocrazie sindacali e il riformismo, che sono stati fondamentali perché le ribellioni popolari che hanno scosso il mondo fossero parzialmente deviate.
La lotta per sviluppare questo tipo di istanze di auto-organizzazione è strettamente legata alla lotta per l’unità dei diversi settori della classe operaia e la sua difesa, e non può essere separata a sua volta dalla politica nei confronti dei grandi sindacati, nei quali è necessario sviluppare frazioni rivoluzionarie e allo stesso tempo lottare per il Fronte Unito della classe operaia, affinché emerga come attore della lotta di classe e i settori più militanti possano articolarsi con le masse.
Il dirigente operaio ferroviario Anasse Kazib parla in un’assemblea alla Gare du Nord, Parigi, Francia, 5 dicembre 2019.
La crisi dei neoriformismi e dei “progressismi” e il fallimento del nazionalismo borghese
Le esperienze di Syriza che applica le ricette della Troika, o di Unidas Podemos trasformato in un’appendice del PSOE nel governo, hanno dimostrato che i tentativi di incanalare le lotte sociali con formazioni politiche opportuniste, che propongono riforme minime nel quadro del sistema, eludendo qualsiasi messa in discussione della proprietà capitalista, è il modo migliore perché le rivendicazioni di questi movimenti siano sconfitte o deviate.
I recenti governi “progressisti” o “post-neoliberali” in America Latina hanno cercato di far uscire le masse dalle strade (come nei casi di Bolivia, Ecuador e Argentina e del nazionalismo borghese in Venezuela con tiepide misure nazionaliste) o hanno agito preventivamente (come nel caso del Brasile), per incanalare nel sistema politico borghese il rifiuto della classe operaia e popolare del neoliberismo e delle politiche di austerità. Politiche di austerità che questi stessi governi hanno iniziato ad attuare quando le condizioni economiche sono diventate più avverse per le politiche “redistributive”.
Dal colpo di stato istituzionale contro Dilma Rousseff nel 2016, la successiva ascesa di Bolsonaro e i trionfi elettorali di formazioni che dichiarano apertamente di essere di destra, i “progressisti” hanno coltivato la retorica del “male minore” di fronte a governi che applicano politiche di tagli o si identificano apertamente con gli Stati Uniti e il FMI. Tuttavia, nei casi in cui sono tornati al governo, come il Frente de Todos in Argentina, mantengono essenzialmente gli effetti della politica di saccheggio, pagando il debito al FMI e abbassando le pensioni, o nel caso di López Obrador in Messico, appoggiando la politica anti-immigrati del regime statunitense, e continuando con la militarizzazione del paese attraverso la sua Guardia Nazionale e le azioni delle Forze Armate.
Particolarmente sintomatica è stata la politica del MAS in Bolivia. Nel tentativo di forzare una rielezione, Evo Morales è stato rovesciato da un colpo di stato civile-militare pro-USA. Avendo un peso decisivo nelle organizzazioni sociali, il MAS ha evitato in ogni momento la lotta coerente contro il governo golpista di Añez, cercando un negoziato che permettesse una nuova convocazione alle elezioni, cosa che alla fine avvenne nelle condizioni imposte dai golpisti. La gestione disastrosa della pandemia, il revanscismo anti-indigeno e la divisione delle forze di destra hanno permesso un nuovo trionfo del MAS. García Linera si entusiasma per una nuova “onda rosa” in America Latina. Gli apologeti del MAS sottolineano che il nuovo trionfo elettorale è il risultato di una “brillante strategia” messa in atto dalla direzione del MAS di fronte al colpo di stato. Ma dimenticano la resistenza che le masse hanno dispiegato contro il colpo di stato, realizzando blocchi, mobilitazioni e scontri contro l’esercito e la polizia, come a Senkata. Quella lotta, portata avanti mentre la direzione del MAS era impegnata a negoziare con i golpisti, è ciò che ha segnato il rapporto di forze che il governo golpista non ha potuto invertire totalmente e spiega, insieme alla catastrofica gestione della pandemia, la successiva sconfitta della destra.
In Brasile, il PT ha accuratamente evitato qualsiasi lotta seria contro il governo Temer (che era stato il vicepresidente del governo PT), che è emerso dal colpo di stato istituzionale contro Dilma Rousseff e successivamente ha affrontato solo con risorse legali l’offensiva per imprigionare Lula e privarlo dei suoi diritti politici e impedirgli di essere candidato nelle elezioni che hanno dato il trionfo a Bolsonaro. Successivamente ha dovuto essere rilasciato e recentemente, anche sulla base della crisi di Bolsonaro e della sua insolita gestione “negazionista” della pandemia, ha riacquistato la possibilità di essere candidato. In tutto questo processo, il PT ha avuto una politica coerente: fare opposizione verbale e legale, ma evitare qualsiasi tipo di lotta attraverso la mobilitazione delle masse, sia dei sindacati riuniti nella CUT guidata dal PT, sia delle masse popolari del nord-est che sono la sua base sociale.
Quello del Venezuela è il caso dove si è espressa maggiormente la bancarotta del nazionalismo borghese promosso da Chávez, confermando ancora una volta la teoria programmatica della rivoluzione permanente, diventando nella sua decomposizione (come stadio più alto della debacle del chavismo) un regime quasi dittatoriale con Maduro e caratterizzato da un profondo attacco alle masse con grandi calamità per queste ultime. Le politiche del governo di Maduro dopo la caduta dei prezzi del petrolio, preferendo pagare lo scandaloso debito estero invece di occuparsi dei bisogni del popolo e investire nella struttura del paese, hanno portato a una delle più grandi catastrofi economiche e sociali, che è stata aggravata dalle sanzioni economiche degli Stati Uniti e di altri imperialismi. Maduro attualmente sta promuovendo misure di svendita e contro i lavoratori, usando la “legge anti-blocco” come copertura per rendere più facile l’acquisto di aziende venezuelane da parte di gruppi economici stranieri ad un prezzo ridicolo, così come per dare più controllo alle multinazionali e ai creditori stranieri sia sulle azioni che sui beni dei campi petroliferi e degli impianti di gas. Nel frattempo, polverizza i salari e perseguita i settori della classe operaia che si organizzano per lottare contro la politica di austerità, in un quadro generale di rafforzamento dell’autoritarismo.
Il Movimiento de Trabajadores Socialistas (MTS) del Messico si mobilita all’ambasciata degli Stati Uniti a Città del Messico in repudio all’oppressione imperialista e a Donald Trump, gennaio 2017.
Gli esempi di questo tipo abbondando, ma la cosa fondamentale che vogliamo segnalare è che sia i “neo-riformismi” che i governi “progressisti” e i nazionalismi borghesi che non rompono con l’imperialismo e si basano sulla smobilitazione delle masse, sostengono l’essenza dell’eredità neoliberale sia nei paesi centrali che in quelli periferici, compreso nel caso dell’America Latina, venendo a patti con l’imperialismo e i suoi trattati, all’estrattivismo in tutte le sue varianti: agribusiness, industria petrolifera e mega-mineraria inquinante. Sostenere i regimi neoliberali come ha fatto il Frente Amplio in Cile, che ha giocato un ruolo criminale nella ribellione popolare firmando l’”Accordo di pace” che ha salvato il governo Piñera e votando le leggi anti-protesta che permettono a centinaia di prigionieri politici di essere in carcere oggi. Una politica coerentemente antimperialista, che rompa con i patti e i trattati che legano i paesi dipendenti e semicoloniali all’imperialismo, che preveda il non pagamento del debito e la rottura con il FMI e le organizzazioni finanziarie internazionali, che metta il commercio estero e il sistema bancario sotto monopolio statale, può essere portata avanti solo dalla classe operaia e dal popolo, con una mobilitazione costante e organizzata dal basso e nella prospettiva di unire la classe operaia dei paesi oppressi con quella dei paesi imperialisti per sconfiggere l’imperialismo e il capitalismo.
È necessario costruire partiti rivoluzionari e un movimento per un’Internazionale della rivoluzione socialista
Negli ultimi decenni c’è stata un’importante battuta d’arresto nelle forze di sinistra, che ha colpito anche molte organizzazioni che si dichiarano trotskiste. Il contesto è che nella sinistra hanno preso il sopravvento idee sproporzionate sui grandi successi del capitalismo a partire dalla restaurazione in Russia e in Cina e in altri paesi, controparte di una precedente fiducia in conquiste (gli Stati operai deformati e degenerati sotto la guida di stalinisti e maoisti) che presumibilmente non sarebbero mai state rovesciate. La borghesia e l’imperialismo avevano presentato il neoliberismo come un dogma universale che non sarebbe mai più stato messo in discussione. E con ciò, proclamavano l’eternità del sistema capitalista, che sarebbe stato un festival del consumo e della realizzazione individuale.
In questi primi due decenni del XXI secolo, abbiamo visto chiaramente che queste idee erano radicalmente false. Abbiamo anche visto un ritorno ricorrente della lotta di classe della classe operaia e dei vari settori oppressi. Le disgiunzioni poste dai neo-riformismi secondo cui è possibile fare politica solo nelle cornici permesse dal sistema (come Podemos nel governo del PSOE, progetti come il Frente Amplio sorto in Cile e Perù) o rinunciare a qualsiasi politica di massa, implica l’abbandono di qualsiasi lotta seria contro il capitalismo. Anche la politica di costruire ampi partiti non strategicamente delimitati ha mostrato i suoi limiti, avendo come episodio finale la crisi e la probabile esplosione del Nuovo Partito Anticapitalista (NPA) in Francia, con il dibattito tra l’ala della vecchia maggioranza (proveniente dal Segretariato Unificato) che cerca incessantemente accordi con la sinistra istituzionale, compreso il riformismo sovranista di Mélenchon, e le correnti come i nostri compagni della CCR che sollevano la possibilità e la necessità di un partito operaio rivoluzionario in Francia.
Contro questo tipo di politica, lottiamo per sviluppare partiti rivoluzionari radicati nella classe operaia, con una politica di egemonia su tutti i settori oppressi, cercando di costruire frazioni rivoluzionarie e socialiste nei sindacati, nella gioventù, nel movimento dei neri e dei migranti, nel movimento delle donne, nel movimento di fronte alla crisi ambientale e dei poveri, che siano capaci di convergere con le esperienze più avanzate della lotta di classe, allo stesso tempo di promuovere una politica di massa contro il capitalismo.
Al servizio di questa prospettiva e perché raggiunga milioni di persone, c’è la Rete Internazionale di giornali digitali La Izquierda Diario. Una rete che mira a fare giornalismo rivoluzionario, una critica feroce del sistema capitalista e dell’imperialismo comprensibile a un pubblico di massa, e a mettere in evidenza le lotte degli sfruttati e degli oppressi. Allo stesso tempo, puntiamo a offrire un dibattito di idee affinché l’avanguardia possa discutere sulle nostre pagine quali sono le vie per portare la lotta per il socialismo fino alla fine. Il nostro obiettivo è che le nostre pagine servano anche per organizzare un movimento rivoluzionario internazionale in varie lingue. Nei paesi dove siamo, oltre alla rete di giornali e alla partecipazione alla lotta di classe, promuoviamo varie politiche di unità della sinistra con l’indipendenza di classe. In Argentina, siamo parte dell’esperienza del Frente de Izquierda y de los Trabajadores dal 2011 (oggi Frente de Izquierda y de los Trabajadores – Unidad, composto da PTS, Partido Obrero, Izquierda Socialista e MST), che ha significato la trasformazione della sinistra trotskista in un attore della scena politica nazionale e allo stesso tempo l’unica sinistra chiaramente posizionata fuori dal kirchnerismo e dal peronismo con un programma e una pratica di indipendenza di classe.
Sulla base di questa esperienza, abbiamo sollevato in diverse occasioni la necessità di avanzare nell’apertura del dibattito su un partito unificato della sinistra socialista rivoluzionaria.
Compagne di Left Voice durante le manifestazioni di Black Lives Matter a New York, giugno 2020.
I nuovi settori della gioventù, delle donne e della classe operaia, che oggi stanno intraprendendo lotte per un insieme di rivendicazioni la cui risoluzione integrale e definitiva non è possibile nel quadro del capitalismo, possono essere il fulcro di una nuova ricomposizione della sinistra rivoluzionaria a livello internazionale. C’è una generazione, la cosiddetta generazione Z tra i 16 e i 23 anni, che aveva meno di 10 anni quando è scoppiata la crisi del 2008 e che oggi è in prima linea in molte delle lotte che abbiamo citato in questo manifesto, e molte altre. Tutta la loro vita è passata attraverso la crisi e sentono che non devono nulla al capitalismo.
Di fronte allo sfacelo a cui ci sta portando il capitalismo, dobbiamo indicare un programma e una via d’uscita globale sia contro le varianti del neo-riformismo sia contro gli estremisti di destra, che -facendo demagogia “populista”- cercano di conquistare la base in settori della classe operaia e della gioventù colpiti dal neoliberismo. Per queste ragioni, vogliamo discutere la necessità di un movimento per un’internazionale della rivoluzione socialista.
Dobbiamo riprendere la tradizione internazionalista del movimento operaio. La Prima Internazionale ha posto le basi della lotta per l’unità del movimento operaio mondiale. La Seconda Internazionale ha costruito grandi partiti e sindacati di massa, che però non hanno superato la prova della prima guerra mondiale. Di fronte al tradimento della socialdemocrazia e sulla base della Rivoluzione Russa, emerse l’Internazionale Comunista, che gettò le basi per la tattica e la strategia rivoluzionaria nei suoi primi quattro congressi (1919-1922). La Quarta Internazionale, fondata da Trotsky nel 1938, era l’unica organizzazione internazionale che rappresentava la lotta contro il capitalismo e il fascismo, affrontando a sua volta la burocratizzazione dell’URSS e proponendo un’alternativa completa allo stalinismo. Anche se più tardi, nel secondo dopoguerra, si scisse in diverse tendenze che non riuscirono a sostenere un’alternativa complessiva, assumendo posizioni prevalentemente centriste, cioè oscillanti tra posizioni rivoluzionarie e riformiste, le bandiere della Quarta Internazionale sono ancora valide di fronte al fallimento storico dello stalinismo e alla degradazione capitalista. Contro ogni autoproclamazione settaria, sosteniamo che la costruzione di partiti operai rivoluzionari e la costituzione di un’Internazionale della rivoluzione sociale, che per noi implica la rifondazione della Quarta Internazionale su basi rivoluzionarie, non sarà il prodotto dello sviluppo evolutivo delle nostre organizzazioni né della nostra tendenza internazionale, ma il risultato della fusione di ali di sinistra delle organizzazioni marxiste rivoluzionarie e di settori dell’avanguardia operaia e giovanile orientati alla rivoluzione sociale, che tenderanno ad emergere e generalizzarsi nel calore della crisi e della lotta di classe.
Membri della Revolutionäre Internationalistische Organisation (RIO) di Germania manifestano contro gli attacchi neofascisti e in solidarietà con il popolo curdo.
Le nuove generazioni perlopiù non conoscono questa tradizione. Per questo quelli di noi che si dichiarano trotskisti non pretendono che qualcuno accetti le nostre idee prima di avere un’esperienza comune, partendo dalla lotta di classe e dalle sue principali conclusioni. Partiamo dal presupposto che le tendenze all’azione diretta e i cambiamenti nei modi di pensare sono un punto di appoggio fondamentale per la costruzione di partiti rivoluzionari in tutto il mondo.
La situazione del movimento trotskista di oggi, per lo più in ritirata o di relativo indebolimento, è legata all’impatto dell’offensiva neoliberale sulla sinistra, ma anche e soprattutto alla scissione della Quarta Internazionale nel secondo dopoguerra e all’adattamento delle varie correnti a una situazione storica eccezionale in cui l’accordo di “coesistenza pacifica” tra imperialismo e stalinismo ha determinato per decenni una stabilità che la borghesia non aveva osato sognare nel periodo interbellico. La recrudescenza delle lotte dal 1968 al 1981 ha mostrato i limiti dei “gloriosi 30 anni” da un lato e la messa in discussione dello stalinismo dall’altro, ma è stata contenuta con concessioni o sconfitta con repressioni, dopo di che l’offensiva neoliberale ha modellato il mondo che conosciamo oggi. Per lunghi decenni, sostenere le idee di Trotsky e difendere la teoria marxista rivoluzionaria è stato un lavoro controcorrente, volto essenzialmente a resistere e a riprendere i deboli “fili di continuità” che il trotskismo del secondo dopoguerra aveva lasciato per collegarsi con il passato e con la tradizione lasciata in eredità da Trotsky senza passare attraverso le lenti distorsive dei suoi “interpreti”.
Lo sviluppo della lotta di classe solleva nuove possibilità di confluenza tra il marxismo rivoluzionario e il movimento operaio. Ma, per renderle concrete, è necessario ingaggiare effettivamente le battaglie che dobbiamo combattere, e non dare per scontato che il solo riferimento a una tradizione sia sufficiente per avere peso nell’avanguardia e nelle masse. La tradizione del trotskismo deve essere ricreata traendo conclusioni e riflettendo sulle esperienze della lotta di classe e sulla realtà del capitalismo attuale e, in questo contesto, di una situazione internazionale complessa e difficile, il compito di costituire un’Internazionale della rivoluzione socialista diventa sempre più urgente.
Questa Internazionale non nascerà dall’unificazione di diversi gruppi trotskisti o come un necessario prodotto spontaneo delle lotte sociali. Per questo è necessario sviluppare un movimento che ponga la sua necessità, che mostri in ogni esperienza di lotta di classe su scala nazionale la necessità dell’unità internazionalista della classe operaia e di un’organizzazione capace di condurre le sue lotte contro il capitalismo sullo stesso terreno che il capitalismo pone: il mondo intero.
Dal nostro punto di vista, questa Internazionale non può basarsi su principi generali astratti o essere un coordinamento di vari movimenti anticapitalisti. E non può esserlo, proprio perché lottiamo contro la politica delle classi dominanti di promuovere burocrazie di ogni tipo e di far sparire la storia della classe operaia e dei settori oppressi. Le bandiere della Quarta Internazionale mantengono la loro validità, perché è stata l’unica organizzazione che ha offerto un’alternativa teorica, strategica e programmatica allo stalinismo, cosa inevitabile per chi vuole pensare alla validità della lotta contro il capitalismo e per una società comunista oggi. La chiave del futuro della classe operaia e di tutti gli oppressi sta nella confluenza tra questa tradizione e le nuove generazioni che vanno a lottare.
Il Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) realizza un atto internazionalista in un palazzetto, il 16 novembre 2019. Migliaia di persone hanno ascoltato i discorsi di rivoluzionari provenienti anche dal Cile e dalla Bolivia.
La Frazione Trotskista – Quarta Internazionale (FT-QI) è composta da: Argentina: Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS); Brasile: Movimento Revolucionário de Trabalhadores (MRT); Cile: Partido de Trabajadores Revolucionario (PTR); Messico: Movimento de Trbajadores Socialistas (MTS); Bolivia: Liga Obrera Revolucionaria (LOR-CI); Stato spagnolo: Corriente Revolucionaria de Trabajadoras y Trabajadores (CRT); Francia: Courant Communiste Révolutionnaire (CCR),corremte dell’NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste); Germania: Revolutionären Internationalistischen Organisation (RIO); Stati Uniti: compagni e compagne di Left Voice; Venezuela: Liga de Trabajadores por el Socialismo (LTS); Uruguay: Corriente de Trabajadores Socialistas (CTS).
Inoltre le seguenti organizzazioni sono in un processo di integrazione alla FT: Italia: Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR); Perù: Corriente Socialista de las y los Trabajadores (CST); Costa Rica: Organización Socialista Revolucionaria (OSR).
FIR – Frazione Internazionalista Rivoluzionaria