Secondo il segretario di Sinistra Italiana, con il Governo Draghi «siamo di fronte a un paradosso, che è insieme di carattere politico e democratico». Da qui in avanti, sarà fondamentale il ruolo dei conflitti sociali

Unici a sinistra, Nicola Fratoianni e Sinistra Italiana hanno deciso di non sostenere il governo Draghi. Con l’intervista che segue, abbiamo indagato le ragioni di questa scelta e, soprattutto, il progetto politico – presente e futuro – radicato nella defezione.

Di fronte al “salvatore” indiscusso della Patria, Mario Draghi, hai deciso – e con te Sinistra Italiana – di fare un passo indietro. Oggi, a qualche settimana di distanza da allora e alla luce di una maggiore definizione del profilo politico del governo, come valuti quella decisione?

Decisione giusta. Anzi, sono se possibile ancora più convinto di aver fatto bene a segnalare la distanza da un esecutivo nato in un contesto assai particolare, ovvero dopo l’omicidio politico del governo Conte bis, affossamento che aveva un obiettivo preciso: sottrarre a quel governo, e in particolare a quella maggioranza, la possibilità di programmare e gestire la spesa dei 209 miliardi del Recovery Fund. Un governo, quello Draghi, emerso nella retorica del ritorno della competenza, del commissariamento della politica, del primato della tecnica – intesa come neutrale – per quel che riguarda la gestione dell’emergenza.

È sotto gli occhi di tutti, il nuovo esecutivo non si è sin qui mostrato capace di cambiare il quadro della situazione, in particolare sul fronte della gestione dell’emergenza sanitaria, economica e sociale; visibile, piuttosto, uno spostamento a destra del quadro politico, nonché delle decisioni che caratterizzano il governo: penso non solo alla composizione della maggioranza parlamentare e ai Ministri nominati, ma più in particolare ai suoi primi atti, per esempio il condono delle cartelle esattoriali, che conferma il vecchio adagio secondo il quale si liscia il pelo all’evasione fiscale e si bruciano risorse necessarie per altre emergenze.

Aggiungo poi l’esigenza di segnalare, per una forza di sinistra, l’indisponibilità a governare insieme alla destra nazionalista della Lega, a Forza Italia.

La stabilizzazione del quadro politico ricercata con la “soluzione Draghi” ha in realtà innescato crisi nelle due maggiori forze politiche che sostenevano il Conte bis, facendo pendere verso destra – come sopra indicavi – gli equilibri del nuovo esecutivo. Dalla tua posizione, quali problemi e potenzialità intravedi nella congiuntura attuale?

È successo quanto era prevedibile. Nonostante i desiderata di coloro che hanno sostenuto la necessità di votare la fiducia al governo Draghi e che hanno accusato me e Sinistra Italiana di indebolire la solidità dell’alleanza giallo-rossa, i fatti parlano chiaro: il nuovo quadro ha prodotto un terremoto che si è scatenato innanzitutto contro le forze che con più decisione avevano sostenuto il Conte bis.

Prima nel Movimento 5 Stelle, con una crisi che lo ha attraversato verticalmente e di cui vedremo gli sviluppi, poi nel PD. Ora, questa destabilizzazione porta con sé due possibili conseguenze. Da un lato, che si lavori alla ridefinizione di una coalizione alternativa a quella delle destre; e ciò sarebbe risultato positivo, perché, pur non avendo indicato una cultura politica adeguata alla congiuntura, il secondo esecutivo di Conte è stato senz’altro l’alternativa alle destre più avanzata, dati i difficili rapporti di forza sul piano politico e sociale che attualmente segnano l’Italia.

(immagine da commons.wikimedia.org)

Sarebbe del tutto positivo se il terremoto di cui sopra riuscisse a imporre al M5S, al PD e alle forze politiche che insieme a queste vogliono mettersi davvero in gioco, una svolta, ovvero la costruzione di una radicale e programmaticamente qualificata alternativa a Salvini e Meloni. Dall’altro lato, il rischio è che, nella brevità funzionale dell’esecutivo Draghi, lo smottamento nel M5S e nel PD si approfondisca, aprendo il campo a una nuova offensiva elettorale delle destre. Naturalmente, si tratta di una partita politica, un terreno di conflitto sul quale pesa e peserà non solo ciò che faranno le forze politiche in questione, ma, come sempre e soprattutto, l’emergenza di conflitti sociali che le costringano alla ricerca di un equilibrio programmatico più avanzato.

Nei suoi discorsi di insediamento, in quelli successivi, Draghi ha ovviamente insistito sul problema che più conta: l’uso del Recovery Fund per salvare l’Italia dal declino che, oltre a essere economico, è demografico e culturale. Data la debolezza del tessuto produttivo italico, e della domanda di forza-lavoro qualificata, possibile risolvere tutto con apprendimento duale alla tedesca, merito e politiche attive del lavoro? Non è giunto, invece, il momento di estendere e rafforzare il Reddito di Cittadinanza?

Rispondo subito e con forza sì, ma con una premessa. Siamo di fronte a un paradosso, che è insieme di carattere politico e democratico. Il governo Draghi è stato invocato come necessario per la gestione del Recovery Plan, essendo quest’ultimo non a torto considerato storica occasione per immaginare la modernizzazione del Paese, la risposta ad alcune delle emergenze, e delle inadeguatezze strutturali, che l’Italia si porta dietro da decenni. Ciò nonostante, del Recovery Plan del Governo Draghi abbiamo appreso nelle ultime ore, a giochi già conclusi. Un paradosso che è di natura democratica, perché il Parlamento della Repubblica, nei due mesi di insediamento dell’attuale esecutivo, è stato impegnato in una discussione a dir poco surreale proprio sul Recovery Plan scritto dal Conte Bis.

Tutti noi sappiamo che il “governo dei migliori” si è impegnato nella riscrittura di quel piano, ma di questa riscrittura, in Parlamento, abbiamo saputo solo oggi (26 aprile); e non c’è nemmeno l’ombra di un processo partecipativo che coinvolga il Paese, le sue energie, le sue forze sociali e politiche (più o meno organizzate) nel confronto e nella definizione delle linee guida della modernizzazione. E mi pare evidente che l’impianto a cui Draghi ha fatto sin qui riferimento, che è poi il modello tedesco dell’apprendimento duale, sia del tutto insufficiente. Ma è in nome di questa prospettiva, e della quotidiana condanna del Reddito di Cittadinanza, considerata misura assistenzialistica incapace di attivare i giovani, che è stato condotto il cecchinaggio e l’affossamento, da parte di Renzi e di buona parte dei media, del Conte bis. Obiettivo dell’assalto animato da Italia viva?

(immagine da commons.wikimedia.org)

Mettere in crisi la faglia che, sul piano delle politiche di sostegno al reddito, si è aperta con l’approvazione della norma ideata e voluta dai 5S. Intendiamoci, trattasi di misura problematica, densa di elementi critici giustamente evidenziati dai movimenti sociali, da quello femminista ai lavoratori dello spettacolo, ma finalmente anche in Italia una base da cui partire per fare meglio. In questo senso, ritengo sbagliato il dispositivo proposto da Draghi, che continua a non tenere in conto i problemi strutturali della domanda di forza-lavoro, essendo le piccole e medie imprese nostrane incapaci di investire in innovazione e ricerca. A mio avviso, invece, oggi più che mai è necessaria una riforma in senso universalistico degli ammortizzatori sociali e l’estensione, nonché il rafforzamento, del RdC.

Insistiamo sulle politiche attive del lavoro, che molto ti hanno tenuto impegnato con la vertenza dei precari “storici” di Anpal Servizi. Si avvicina la scadenza del blocco dei licenziamenti, ancora latita una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali, serve un cambio di passo. Come?

Intanto la scadenza in questione mette davanti a tutti noi il rischio di una ulteriore catastrofe occupazionale. In questo anno di crisi pandemica, si sono persi quasi un milione di posti di lavoro, e, come abbiamo visto, nel numero complessivo l’incidenza delle donne, delle donne giovani e dei precari, è particolarmente significativa. Il rischio è che la scadenza del blocco dei licenziamenti determini un aggravamento drammatico della situazione e che la ristrutturazione di ampi settori dell’impresa si giochi, come spesso e quasi sempre accade nelle le grandi crisi, sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori. Fondamentale dunque imporre la proroga del blocco dei licenziamenti, senza fissare astrattamente una data, ma andando avanti almeno fin quando non saranno stati riformati adeguatamente e in senso universalistico gli ammortizzatori sociali.

Vale la pena aggiungere che, nel quadro europeo, solo in Italia e grazie all’esecutivo giallo-rosso è stata disposta una misura di questo genere, ciò è anomalia positiva e in alcun modo negativa, come in troppo insistono a dire. Secondo: è del tutto evidente, però, che in prospettiva occorre accelerare la riforma degli ammortizzatori sociali; nel senso di una semplificazione, di una riduzione degli strumenti e di un’estensione universale degli stessi. Continuo con forza a pensare che, data la situazione, una misura di sostegno al reddito finanziariamente rafforzata ed estesa, per quel che riguarda la platea, sia del tutto prioritaria e necessaria; così come vanno riorganizzate e potenziate le politiche attive del lavoro. Anche su questo l’Italia è segnata da una evidente contraddizione: il dibattito sul RdC e la polemica contro di esso si sono consumati sull’inefficacia delle politiche attive del lavoro.

(foto di Caterina Zavattaro)

Dibattito viziato: non è il RdC che blocca le politiche attive del lavoro e la ricollocazione dei disoccupati, ma gli investimenti pubblici inadeguati per le stesse – sotto-finanziamento che favorisce, tra l’altro, le agenzie di somministrazione – e la debolezza della domanda di forza-lavoro, soprattutto qualificata. Arriviamo dunque al paradosso italico: per un verso, rispetto ai numeri tedeschi, il personale dedicato alle politiche attive del lavoro in Italia è esiguo; per l’altro, buona parte di questo personale è precario – come ci ha segnalato nell’ultimo biennio la vertenza dei precari “storici” di Anpal Servizi. Penso dunque che occorra cambiare passo lungo tre direttrici: la prima, è separare la questione del RdC e del suo rafforzamento dalle politiche attive del lavoro; la seconda, è investire significativamente, e non solo a mezzo di retorica, sulle politiche attive del lavoro, a cominciare dalla stabilizzazione e dall’incremento del personale che vi opera; la terza, ripensare complessivamente il sistema delle politiche attive del lavoro.

In una recente intervista esclusiva che ci ha concesso, Jeremy Corbyn ha insistito sulla necessità, da parte di una rinnovata sinistra, di sostenere i movimenti sociali, la loro espansione, il loro rafforzamento. In una simile direzione ha lavorato, negli scorsi anni, anche una parte della Linke. A partire da una eterogeneità originaria e fondamentale, e dalla necessaria autonomia dei movimenti, possibile che anche in Italia si possa andare in questa direzione? Se sì, in che modo?

Ritengo che sia necessario, ed è una delle sfide a partire dalle quali vogliamo riorganizzare Sinistra Italiana. Con la scelta – in solitudine a sinistra – di opporci al governo Draghi, in questa direzione abbiamo scelto di rilanciare la nostra iniziativa politica. Penso inoltre che una forza politica di sinistra debba (anche) saper diventare una struttura di servizio e di sostegno per i movimenti e le vertenze sociali, i fenomeni di autorganizzazione e di rinnovato mutualismo che animano le nostre città. E debba farlo per una ragione molte semplice: perché la politica, in generale ma per la sinistra ciò è vero all’ennesima potenza, non ha forza e capacità negoziale – o le ha molto ridotte – se non a partire da una ripresa robusta dei conflitti sociali.

Del resto, come dimostra la storia del nostro Paese, ma in Europa e nel mondo è lo stesso, le più avanzate esperienze politiche riformiste e di governo hanno conquistato e conquistano risultati quanto più sono aperte e permeabili all’effervescenza sociale. Al momento, aggiungo, a me pare che la questione sia ancora più urgente: conflitti sociali ce ne sono stati e ce ne sono, ma sono troppo spesso frammentati e dunque fragili. Per chi come me si occupa di organizzare e dirigere un partito politico, avviare un’interlocuzione dinamica e virtuosa con quanto si muove nella società, è di vitale importanza; e lo è anche per favorire, nel rispetto delle reciproche autonomie, il consolidamento delle lotte stesse.

(immagine da commons.wikimedia.org)

Nostra convinzione è che in Italia la crisi della rappresentanza non riguardi solo i partiti e la politica, ma anche e soprattutto le organizzazioni sindacali. Non pensi che sia urgente affermare, anche dal punto di vista normativo, pluralismo e democrazia sindacale, a maggior ragione in Italia, dove le organizzazioni tradizionali rappresentano sempre meno il lavoro precario e quello migrante, assieme a quello delle donne i più colpiti dalla pandemia? Quali proposte politiche in merito?

È una grande questione, perché chiama in causa l’efficacia delle organizzazioni sociali, delle forme innovative di organizzazione sindacale, la possibilità di queste ultime di incidere nella contrattazione e dunque ridare forza alla parola “rappresentanza”. Quando parliamo di rappresentanza, ci occupiamo di interessi, di visioni, di condizioni collettive. I vuoti normativi che in Italia ci sono, sono stati riempiti con soluzioni pattizie che non tengono in alcun conto la radicale modificazione del lavoro vivo; in questo modo osteggiando l’affermazione di nuovi e necessari processi di sindacalizzazione, soprattutto tra chi è più fragile dal punto di vista delle tipologie contrattuali – giovani, donne, migranti.

Necessaria, a mio avviso, una norma che valorizzi il pluralismo sindacale, dando piena applicazione al dettato costituzionale; e che favorisca il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, soprattutto di quelli precari, tra i quali si sconta tutta l’inefficacia delle forme tradizionali di organizzazione e di rappresentanza. Immaginare una norma che metta dunque al centro il potere delle lavoratrici e dei lavoratori, nel giudicare e nell’esprimere, anche in modo vincolante, il loro punto di vista sulle vertenze, sui contratti e sulla contrattazione, mi pare indubbiamente la strada più interessante, da percorrere quanto prima.

Per concludere, cosa pensi della recente occupazione del Globe Theatre di Roma?

Quanto successo a Villa Borghese è meraviglioso, perché è un segno del “disgelo”. È la ripresa del conflitto e della mobilitazione, che unisce reti di lavoratrici e lavoratori di un settore, lo spettacolo, tra i più duramente colpiti dalla crisi pandemica. Crisi che, tra l’altro, ha fatto venire allo scoperto un sistema del tutto inadeguato; sul piano delle tutele, delle garanzie contrattuali, delle modalità di organizzazione del lavoro. In questo senso, l’occupazione ha rappresentato e rappresenta a mio avviso un segnale molto importante, di speranza; ed è positivo che abbia già raggiunto un primo risultato, con la convocazione del tavolo interministeriale – che ora pretende legittimamente continuità.

(foto di Margherita Caprilli)

In questo caso, ma guardando a quanto accaduto con lo sciopero globale delle lavoratrici e dei lavoratori Amazon, o allo sciopero dei rider in Italia, si va delineando una nuova domanda di diritti, di protagonismo, di democrazia sostanziale.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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