di Mario Agostinelli
Incontro con Mimmo Perrotta e Marino Ruzzenenti (*)
Tripoli, novembre 2019 – Migrante mentre lavora in una discarica.
Energia e vita
Per cominciare, è necessario spiegare perché di questi tempi è così importante riflettere sull’energia. L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia alla trasformazione della natura inerte e soltanto da poco più di un secolo la scienza tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia. Più ancora che di un oggetto di difficile definizione, si tratta di una lente formidabile attraverso cui si può leggere il mondo – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande – e capire come tutto sia interconnesso in forma di scambi, di relazioni, che ordinano il vivente mentre “disordinano” l’ambiente in cui sopravvive.
Dalla rivoluzione scientifica del 1600 avevamo tratto la capacità di mettere in relazione quantitativa le grandezze fisiche presenti nel nostro universo, stabilendo leggi matematiche che ritenevamo immutabili e che trasformavano la materia a velocità sempre più elevata, nella presunzione che le risorse cui si applicava il lavoro e l’energia che ottenevamo con la combustione del carbone fossero illimitate. Si profilava e attuava un mondo artificiale sempre più complesso, che circondava le città, le fabbriche, delimitava le campagne e inquinava i fiumi, concentrando sulla produzione e il commercio di manufatti la crescita e la ricchezza delle economie e delle nazioni. È il mondo che Engels scopre nella sua valle di Wuppertal, ormai costipata di manifatture avvolte da nuvole pestifere. Ma è proprio dalla seconda metà dell’800 che nascono i primi studi sistematici e i nuovi modelli per interpretare la vita come fenomeno e valore distinto, irripetibile e fragile, che andava trattato come un insieme e non semplicemente come un “ente” scomponibile o smontabile in parti complementari, giacché il tutto era superiore alla pura somma dei costituenti. L’entrata in campo della vita e delle sue relazioni indissolubili con la natura finì col togliere alle leggi fisiche newtoniane, deterministe, indipendenti dal tempo e dal contesto in cui si applicavano, il primato nel disegnare il nostro futuro e addirittura di stabilire la gerarchia che presiedeva alla politica, consegnando a un approccio interdisciplinare e non più solo specialistico la preoccupazione per la cura, per il benessere, per una giusta sopravvivenza dell’intera biosfera.
Credo che la lettura più straordinaria che sia stata data negli ultimi anni sul rapporto tra energia e vivente sia quella articolata con suggestioni penetranti nella enciclica Laudato Si’. Con essa Francesco ha prodotto una cesura con la concezione meccanicistica e determinista dell’energia ed ha contribuito a spostare il centro della discussione dall’antropocentrismo e dalla geopolitica alla cura della Terra come complesso coerentemente inscindibile. Per la prima volta un religioso – non soltanto cattolico, ma, probabilmente, unico nelle religioni – fa marciare insieme la scienza più avanzata e la religione e non le mette in rapporto gerarchico e nemmeno dialettico tra di loro. Si tratta di una lettura della realtà che ci circonda, che io non mi sarei aspettato, soprattutto da un’esegesi religiosa, anche perché interiorizza un’idea di un tempo che va immancabilmente e colpevolmente a finire, in cui il disordine provocato dall’ultima specie comparsa sul Pianeta può diventare talmente insopprimibile da mettere in discussione la riproduzione della vita. Molta ecologia già percorreva una strada parallela, ma la diffusione del negazionismo climatico non aveva ancora incontrato un pensiero che – come afferma Peter Kammerer – “ha preso le ali”.
Un altro aspetto da prendere in considerazione nella relazione tra energia e vita è quello della giustizia sociale. Sembrerebbero nozioni assai distanti, ma basta per collegarli dare una definizione all’ordine e al disordine che si crea intorno alla vita: “entropia”. Essa è la misura del grado di ordine e di informazione che si può trarre da un corpo; in natura, fatta di tanti corpi isolati nel loro ambiente, l’entropia di [vivente + ambiente] tende irreversibilmente a crescere. Poiché gli esseri viventi sono dotati di un “progetto interno” che mantiene il loro ordine il più elevato possibile, prelevano energia dall’ambiente, creando in tal modo una quantità di scarti, sprechi, rifiuti che fanno crescere il degrado e il disordine complessivo. “Ogni vivente – dice Bertand Russell – è a suo modo un imperialista che cerca di appropriarsi dell’ambiente circostante”. A meno che prevalga una cooperazione, che nel mondo animale e vegetale è assai presente e che la specie umana affronta o rifiuta dandosi regole politiche e sociali. Consumare troppa energia o troppi alimenti o troppi oggetti, e lasciarne privi altri esseri, corrisponde a ridurre potenzialità di vita in base a scelte che prevedono ingiustizia sociale, come accade nel sistema capitalista, che, oltrepassando i limiti naturali, è all’origine anche dell’ingiustizia climatica.
Da solo poco più di cinquanta anni abbiamo consapevolezza di un rapporto tra energia e vita così inquietante quando se ne infrangono i limiti, per due ragioni importanti, che purtroppo non vengono ancora insegnate nelle scuole (non le hanno insegnate neanche a me, che sono un chimico-fisico): la prima riguarda le eccessive potenze (velocità trasformative) con cui si è messa al lavoro da secoli l’energia fossile; la seconda corrisponde alla sottovalutazione dell’innalzamento della temperatura della Terra, che è indice di una crescita della sua energia interna oltre l’equilibrio.
La prima consapevolezza emerge solo negli anni ’60: prima di allora, si pensava all’energia come un magazzino infinito da cui potessimo trarre infinite risorse, impiegate nella trasformazione della natura in mondo artificiale. Solo dopo la metà del Novecento i primi attenti osservatori si accorgono che la natura si consuma e che alcune materie non sono recuperabili in cicli utili, ma vanno scartate e non c’è energia conveniente per rinnovarle. Nel 1972, il Club di Roma individuò nell’uso esasperato di materie prime la possibile fine della presenza umana sulla terra. E quindi spinse per un atteggiamento sobrio rispetto in particolare ai consumi di materia. L’energia fossile con i suoi effetti climalteranti era presa in considerazione solo per la sua esauribilità.
La seconda consapevolezza si è fatta strada quando si è estesa la convinzione che la finestra energetica in cui avvengono processi di vita “salubri” è entro i limiti di due-tre gradi al massimo. E la climatologia cominciò ad avvertire, con milioni di dati alla mano raccolti giorno dopo giorno e ad ogni latitudine e longitudine, che se la temperatura media dovesse aumentare oltre 2°C, le catastrofi sarebbero superiori alle disponibilità di prevenirle e l’estinzione della specie avrebbe un orizzonte temporale di poche generazioni. Non era possibile fino ai primi decenni del Novecento, con la relatività e la quantistica ormai affermate, individuare i meccanismi microscopici che spiegano gli scambi di energia tra raggi solari e Terra, per cui si comprende che l’esistenza della vita dipende da un fatto eccezionale: che questo pianeta è circondato da un insieme minuto e differenziato di particelle che vengono colpite dalla radiazione, che con un meccanismo quantistico ne spezza le molecole oppure, nel caso della CO2 o del metano, induce vibrazioni che trasmettono movimento alle altre molecole che stanno attorno e quindi producono calore. E si comprende, infine, che se questi meccanismi microscopici producono disordine irrecuperabile la vita stessa potrebbe estinguersi. Ad esempio, basta un eccesso di CO2 perché le piante non respirino come prima. Si è cominciato quindi a parlare di bilancio di flussi energetici in atmosfera, di assorbimenti negli oceani, di permeabilità dei suoli, di assorbimento delle foreste. Da questo punto di vista è stato decisivo l’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, che dalla fine degli anni ’50 misura costantemente la CO2 nell’atmosfera e la temperatura sulla terra.
Queste due consapevolezze sono molto recenti, storicamente datate e fortemente negate dagli interessi del mondo dell’impresa e delle grandi multinazionali, assecondate da gran parte dei governanti.
La transizione ineludibile
Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile: ancora molto carbone e, relativamente in crescita rispetto al carbone, petrolio in forma di benzina e diesel per la mobilità e gas per le forniture elettriche. Il futuro è però sicuramente un futuro di azzeramento delle quote fossili, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali attivissime in tutte le sedi internazionali (come l’attività di Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano denunciate da Re:Common). Sono necessari una serie di accordi internazionali, dopo quello insufficiente di Parigi 2015, con il rispetto dei quali il mix energetico si deve drasticamente spostare dal carbonio per provenire esclusivamente da fonte solare in costante equilibrio con il pianeta terra. Questa è la indicazione “da scolpire sulla pietra” assieme ad una riduzione dei consumi energetici pro capite, allineata in ogni regione del globo.
Le fonti fossili sono il lavoro fatto per milioni di anni dal sole e conservato all’interno della crosta terrestre o dei mari in forma altamente condensata, quindi con densità energetica (potere calorifico) rilevante. I giacimenti fossili sono il frutto del sequestro sottoterra o nelle rocce o nei mari – e comunque non in atmosfera – di notevoli quantità di anidride carbonica che, senza processi di equilibrio tra aria, rocce, mari e vegetazione, avrebbero reso la vita impossibile. Man mano che questi stati di carbonio in forma di complessi, cioè carbone, gas, petrolio, sono stati sequestrati e sottratti all’atmosfera attraverso processi geologici, è diminuita la quantità di CO2 che sopravviveva in parti per milione nell’aria, fino a raggiungere un equilibrio attorno a 300 parti per milione, che ha consentito la transizione decisiva verso l’evoluzione, in quanto permetteva all’assorbimento di CO2 da parte delle piante l’emissione di ossigeno e, di conseguenza, l’alimentazione della vita attraverso la respirazione. La presenza di una concentrazione di CO2 sostanzialmente costante ha dato origine all’effetto serra, dovuto a una riflessione in atmosfera della radiazione infrarossa, che ha consentito che la temperatura media del pianeta raggiungesse 15°C, da -18°C in assenza di effetto serra. Ora, però, man mano che emettiamo CO2 in eccesso – siamo nel 2021 a oltre 415 parti per milione – rischiamo di far crescere a tal punto l’effetto serra da avere una temperatura media sul pianeta che non è più completamente compatibile con la riproduzione della vita, a cominciare dai tropici e dai poli.
Si capisce perché occorra tenere sotto terra due terzi di tutto il materiale denso di energia che proviene dal carbonio fossile, sotterrato geologicamente in una successione di miliardi di anni e che la combustione potrebbe invece liberare all’istante. Per questo è indispensabile lo spostamento verso fonti di energia come acqua, vento, sole e in misura meno rilevante geotermia, che non liberano anidride carbonica. L’attenzione così si sposta dal modello di consumo al modello di produzione: non più consumo rapido di energia – non più combustione! un evento che in natura esiste solo come incidente – ma equilibri naturali e ciclo solare secondo tempi biologici di smaltimento delle scorie.
Un secondo fattore che indica l’ineluttabilità dell’abbandono dei fossili sono i costi, che aumentano costantemente rispetto a quelli delle fonti rinnovabili, che oggi sono più convenienti anche considerate nell’intero ciclo di vita. Certo, dal punto di vista dei costi le fonti fossili hanno – ma potremmo dire avevano – un vantaggio rispetto alle rinnovabili: possono essere trasportate e bruciate anche per un intero anno, mentre le rinnovabili sono intermittenti: dipendono dall’esposizione al sole (quindi solo durante le ore del giorno) o al vento (che tira bene per tre quarti dell’anno nel Baltico, per metà dell’anno nel Mediterraneo…). Questo fino a cinque anni fa faceva pendere la bilancia dei costi verso i fossili. Oggi c’è una novità, che è vista come una soluzione decisiva anche in prospettiva: la possibilità che, attraverso l’idrolisi, l’energia elettrica prodotta in eccesso e non consumata (quando magari c’è vento troppo forte o c’è un sole troppo battente o magari di notte quando l’idroelettrico viene usato come pompaggio) venga invece trasformata in idrogeno, che può essere trasportato o di nuovo riconvertito in energia elettrica. Potremmo dire che una soluzione alla sostituzione definitiva dei fossili è già alla portata anche economica: rinnovabili, in particolare eolico, e accanto a esse un sistema di approvvigionamento che possa essere poi ridistribuito e utilizzato nei momenti in cui non c’è dispacciamento diretto di energia elettrica (idrogeno, pompaggi, batterie).
L’UE in questo Next Generation Plan ha puntato quasi tutto in una direzione di questo tipo.
Energia e democrazia
Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili sono dappertutto: in un deserto c’è molto sole ma non c’è l’acqua, in un fondovalle c’è molto vento e c’è poco sole, in cima ad un ghiacciaio c’è sia sole che vento che acqua condensata. Insomma, le fonti rinnovabili sono largamente disponibili, sebbene in misure e proporzioni diverse, in quasi tutte le parti del pianeta. Questo è il colpo più duro che potessero subire le corporation minerarie e le multinazionali energetiche che avevano dislocato in spazi territoriali circoscritti le loro licenze e proprietà di derivazione sostanzialmente coloniale, visto che ormai il petrolio o il gas si andavano a cercare con strutture e impianti imponenti perfino tra i ghiacci o in fondo al mare, con costi crescenti e sistemi di trasporto smisurati.
A fronte del loro declino, oggi è in corso una duplice forma di guerra. La prima è di sapore antico, militare: per procurarsi il petrolio e il gas, gli eserciti sono in continua crescita e si contendono i territori con forme di occupazione ad alto dispendio di automazione e controllo a distanza. Si noti che il terzo produttore di CO2 al mondo, se lo considerassimo come uno stato, è il settore delle armi: droni, portaerei, cacciabombardieri, missili puntati, ordigni nucleari sempre allerta su mezzi mobili. Questa enorme mole di energia degradata ora dopo ora, sprecata e irrecuperabile contraddice profondamente la possibilità invece di convivere con un’energia rinnovabile, cioè rigenerabile nei tempi della vita umana o nel susseguirsi di generazioni in tempi storici. Le armi, evidentemente, contraddicono qualsiasi principio di rinnovabilità: in un tempo il più breve possibile scaricano il massimo di energia distruttiva. Non è un caso se questo papa è andato in Iraq, dove c’è una guerra per il petrolio, per l’acqua, per l’accaparramento degli elementi naturali.
Il secondo tipo di guerra lo stanno conducendo le grandi multinazionali dei fossili, che hanno capito che dal punto di vista economico in un tempo di venti o trent’anni bisogna passare a un mix dove le fonti naturali saranno nettamente superiori rispetto ai fossili e non hanno alcuna intenzione di lasciare il campo senza combattere. Già nel 2019 e nel 2020 nel mondo si sono fatti più investimenti in rinnovabili che in tutti gli altri settori, compreso il nucleare. L’economia sembra prendere un corso diverso: in tal caso le multinazionali provano a ritardarne quanto possibile la trasformazione anche a spese di salute e clima, per poter reindirizzare tutte le riserve finanziarie del mondo fossile, che sono tutt’ora enormi, verso sistemi ancora centralizzati, proprietari, a dimensione non territoriale.
Il sistema delle rinnovabili, al contrario, è territoriale, decentrato, democratico, cooperativo, senza sprechi. Con le fonti idriche, solari ed eoliche si potrebbe organizzare la produzione di energia in autentiche comunità, che siano in comunicazione tra loro attraverso sistemi informatici e usare il criterio della sufficienza – e ce n’è, perché abbiamo una quantità di sole infinitamente superiore a quella che serve per dare vita alla terra e a tutte le forme che la popolano – mentre il resto dell’energia prodotta potrebbe essere distribuita per eliminare la povertà energetica.
Purtroppo, nell’attuale fase di transizione le grandi corporation elettriche o fossili puntano a costruire ancora grandi impianti, di potenza non distribuita, stoccata eventualmente in grandi bacini di gas, idrogeno e acqua di loro proprietà.
A Civitavecchia è in corso uno scontro chiarissimo e con i connotati sopra riportati. La sostituzione della centrale a carbone dell’Enel – a dispetto della cittadinanza e delle sue rappresentanze territoriali – viene prevista con la combustione di gas metano e un tracollo dell’occupazione anche in prospettiva, con un silenzio tombale finora di Governo e Regione. A questa soluzione, deprecata e contrastata anche dai piani di raggiungimento della neutralità climatica approvati dal Parlamento europeo, i movimenti ambientalisti e la mobilitazione dei lavoratori e della popolazione stanno contrapponendo un modello territoriale concretamente perseguibile, con vantaggi tangibili sul piano della salute, dell’occupazione, della cura del territorio. Un sistema eolico galleggiante a distanza nel mare e una rete alimentata da fotovoltaico sull’area del carbonile attuale, assistiti da stoccaggio con idrogeno, alimenterebbero la città e il territorio circostante, estendendo anche alla mobilità e al calore i benefici di un sistema pulito. A Civitavecchia si è palesato uno straordinario esempio di protagonismo del mondo del lavoro, che si è schierato per la transizione energetica: i dipendenti della centrale, appoggiati dalla Uil, dalla Camera del Lavoro, dall’Usb e dai due maggiori comitati contro i fossili della città, hanno già indetto più ore di sciopero contro il progetto sbandierato con una dose di arroganza da altri tempi dalla direzione Enel attraverso la pagina locale del Messaggero.
La difficile transizione nei grandi stabilimenti produttivi e il rischio del nucleare
La svolta in corso adesso non ha i tempi che i governanti vorrebbero imporre. Una parte larga della società, compresi gli studenti, si rende conto che può vivere utilizzando di fatto le fonti solari, sebbene nei luoghi di lavoro questa consapevolezza non sia ancora giunta a piena maturazione.
Certo, non c’è ancora oggi una ricerca avanzata e una tecnologia non solo sperimentale per alimentare con sistemi a fonti rinnovabili alcuni processi produttivi complessi, ad alta temperatura e che richiedono energia molto condensata: acciaierie, cementifici, certi processi chimici. Il caso tipico riguarda le acciaierie di Taranto (io sono di quelli che pensano che l’Ilva andrebbe chiusa al più presto, perché non c’è soluzione per un sistema che non dispone di investimenti e progetti in ricerca di alternative, poiché non si sono prese per tempo le precauzioni per affrontare la transizione). I modelli alternativi per un impianto di quella portata e in condizioni di crisi così impellente non sono ancora all’altezza della sfida. L’idrogeno dovrebbe svolgere un ruolo chiave nella futura decarbonizzazione dell’industria siderurgica e di altre industrie pesanti. Può essere utilizzato come materia prima, combustibile o vettore energetico e stoccaggio e ha molte possibili applicazioni. Di recente la Germania ha adottato il documento “Steel Action Concept” per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica tedesca attraverso un aumento dell’utilizzo di energie rinnovabili e l’introduzione dell’idrogeno verde nei processi industriali. Le acciaierie di Lienz in Austria funzionano totalmente a idrogeno, con quattro idrolizzatori; è uno stabilimento davvero notevole e fa un acciaio specialissimo, tuttavia produce solo un quarantesimo di quello dell’Ilva.
Penso che, se consumi e trasporti si convertono a energie rinnovabili e, cosa altrettanto importante, l’agricoltura viene convertita ad agricoltura di vicinanza, senza ricorso ai concimi chimici, allora anche il problema delle grandi produzioni verrà affrontato con uno sforzo maggiore di ricerca e con lo straordinario apporto che può offrire la nuova generazione.
Temo che in questa fase torni una spinta al nucleare, per i grandi impianti. Il nucleare è non solo peggio dei fossili, ma è ben più devastante e irrimediabile in tempi storici. Basti pensare che il tempo di dimezzamento del plutonio è di 121.400 anni e noi ancora non sappiamo dove mettere le scorie in depositi sicuri. E, ancora, che a Fukushima si continua a versare bario e stronzio radioattivo nel Pacifico per tenere a bada la fusione dei tre reattori avvenuta 10 anni fa. Così come ritengo pericolosa l’affermazione avventata del nuovo ministro per la transizione Cingolani sulla disponibilità a dieci anni della fusione nucleare: un diversivo – temo – per non giocare a fondo il passaggio a multipli di potenza rinnovabile già nei prossimi tre anni.
Non ci sono soluzioni meramente tecnologiche, se le tecnologie cercano di risolvere i problemi lasciandone inalterata la causa.
Le prospettive dell’Italia
L’Italia tra le nazioni europee ha una particolare caratteristica: possiede una quota di carbone nel suo mix energetico inferiore in genere alla gran parte degli altri paesi, ma non tende a innescare, come accade ad esempio in Germania e Spagna, un processo di crescita di eolico e solare equivalente agli obiettivi a cui tende l’Europa. Eppure, la sua posizione geografica glielo consentirebbe. Negli ultimi anni vi è stato uno stallo: se nel 2007 avevamo il 24,2% di energia elettrica prodotta con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico, su cui l’Italia vanta una eredità importante, grazie ai grandi impianti alpini e appenninici), nel 2014 siamo arrivati al 38,6%, ma nel 2019 la quota era scesa al 35,9%. Una vera e propria flessione, con una responsabilità politica. Dal 2011 al 2019 abbiamo mantenuto statica la quantità di energia fornita da vento, sole e acqua, mentre abbiamo aumentato la quota di gas, soprattutto in funzione di stoccaggio nel caso di black-out, lasciando del tutto inattivi i bacini di pompaggio pronti all’occorrenza. La crescita di generazione fotovoltaica in Italia dal 2017 al 2019 è stata un quinto di quella della Germania. Inoltre, soffriamo di un forte disavanzo commerciale riguardo alle “tecnologie verdi”, perché i pannelli fotovoltaici prima prodotti, oggi sono completamente importati.
Nel nostro piano energetico nazionale (PNIEC), per raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media al di sotto di 1,5 gradi, noi dovremmo ridurre anno dopo anno della metà le emissioni di CO2, installando almeno 17 GW di rinnovabili, cosa del tutto improbabile se non si sblocca il meccanismo delle autorizzazioni e se il PNIEC rinuncia all’obbiettivo UE del 55% rimanendo fermo al 48%. Un problema tuttora molto acuto è quello dei trasporti: impieghiamo più energia nei trasporti che nell’industria, abbiamo il carico di auto per famiglia più alto in Europa e un parco macchine che mediamente supera i 135 grammi di CO2 di emissione per km.
Naturalmente una transizione come quella in discussione è fitta di conflitti, ma anche di imbrogli. Il più imbarazzante lo sta gestendo Eni a Ravenna, con il progetto di produrre idrogeno da una centrale a metano con sequestro della CO2 da pompare sottoterra. È un progetto non solo ambientalmente dannoso, data la pericolosità di un giacimento di anidride carbonica, ma anche assurdo, perché l’idrogeno verrebbe a caricarsi dei costi della cattura e della compressione del gas climalterante nelle falde sotterranee. Senza mettere in conto le perdite inevitabili di metano nelle condutture dell’impianto, sotto osservazione per il suo pesante effetto sull’innalzamento della temperatura terrestre.
Rispetto al governo Draghi e al nuovo ministero per la transizione ecologica non sono ottimista. Lo sarei se le associazioni ambientaliste e le rappresentanze locali avessero voce e potessero partecipare alla formulazione dei PNRR (Piani nazionali di ripresa e resilienza). Ma il fatto che la validazione avvenga attraverso McKinsey significa affidarsi a una cultura che punta esclusivamente all’efficienza in termini di come la valuta l’impresa. E qui non siamo di fronte a una contabilità aziendale e nemmeno a progetti che vengano semplicemente delegati agli accordi che Eni, Enel e Cassa Depositi e Prestiti raggiungono a livello ministeriale, nel silenzio dei cittadini e dei lavoratori.
Io non credo che il ministro Cingolani possa presumere di avere da solo la cultura sufficiente per affrontare questo passaggio. Occorre svolgere un dibattito pubblico, accessibile e informato, ma di ciò finora non si ha notizia alcuna. Nemmeno a Civitavecchia, dove la transizione energetica è all’ordine del giorno. Penso che, per quanto riguarda l’ecologia integrale, la tecnologia, che spesso diventa tecnocrazia, prenda il problema per la coda anziché per la testa: è il nostro modo di produrre e consumare che va radicalmente cambiato. A Cingolani proporrei di partire da una attenta considerazione della Laudato Si’.
(*) ripreso da https://gliasinirivista.org – fotografia di Lorenzo Tugnoli