Stati Uniti d’America e Gran Bretagna hanno tenuto per sé il 95% dei vaccini prodotti. Una bella accumulazione, non proprio “primitiva” come quella marxianamente intesa; anzi, modernissima nel non separare questa volta il produttore dal prodotto. Laddove il primo è il paese interpretato dal suo governo e il secondo sono i miliardi di fiale che, invece di essere esportate, sono rimaste nei frigoriferi degli stabilimenti e dei laboratori scientifici.
La bella cornice di Villa Pamphili in Roma non rende migliori le non-decisioni del G20 che traccheggia, evita di affrontare di petto questioni internazionali che vedono intersecarsi tanto la pandemia quanto le riaperture dei canali di espansione dei mercato nell’ancora immaginario tempo post-pandemico. Nulla sarà come prima, si ripete, per convincersi che alcuni cambiamenti andranno fatti: a comincare dall’esportazione dei vaccini, dalla modifica di trattati internaziali sull’import e sull’export.
La “dichiarazione di Roma” è composta da cinque paginette ben scritte, logiche nella loro analisi tutta liberista di un mondo dove al centro rimane non l’interesse dei popoli ma quello del mercato con formule descrittive bizantineggianti ma esplicative nel loro vero significato. I potenti della Terra scrivono che occorre incentivare «il sostegno e il potenziamento dell’architettura sanitaria multilaterale»: tradotto, vuol dire che i diversi poli di sviluppo dei nuovi mezzi per affrontare la presente e le future pandemie (che a detta degli scienziati saranno un po’ la “novità” costante degli anni a venire) devono collaborare per risollevare le sorti della globalizzazione sul piano degli scambi commerciali che non possono essere abbandonati ad una concorrenza intercontinentale deflagrante al momento.
L’interesse non può non essere del tutto privato: lo esige il DNA del sistema, lo esige la premura con cui il G20 intende mettere mano alla più ampia interazione tra gli Stati per governare la fase post-pandemica e fare in modo di arginare furberie unilaterali. Non lo si dice e non lo scrive neppure apertamente, perché un documento unitario è sempre qualcosa in cui la formalità esige che si scenda al compromesso anche sui contenuti espressi mediante una esprimibilità preventiva, ma la grande lente occidentale ingrandisce il “dilemma cinese“, il problema rappresentato da una ingestibile potenza avversaria tanto della UE quanto degli Stati Uniti, nonostante il disgelo parziale sopraggiunto con la presidenza di Biden.
Per riequilibrare le terribili sorti e regressive del capitalismo liberista del nuovo millennio (e del nuovo secolo), il biennio pandemico risulta ora efficace dopo il primo impatto devastante, risultate dal sorprendente contropiede di un anno e mezzo fa quando il Covid-19 fece la sua comparsa a Wuhan, quando ancora si pensava che fosse circoscrivibile al contesto sino-asiatico e non si sarebbe dovuta proclamare la pandemia.
Sempre citando la “dichiarazione di Roma“, Draghi, von der Leyen, Merkel, Macron, Biden, eccetera eccetera, si impegnano ad una risposta efficace (ovviamente) e globale (economicamente) per accompagnare verso la cosiddetta “normalità” popoli che non hanno ancora visto un vaccino ma nei confronti dei quali si mostra tutta la pelosa benevolenza del caso. Parlando a suocera perché nuora intenda, gli occidentali alfieri del liberismo si rivolgono all’umanità intera per rivolgersi in realtà alle borghesie nazionali ed ai governanti di Stati dipendenti già oggi dalle grandi potenze.
Scrivono i 20 grandi che è oltre modo necessario «supportare i paesi a basso e medio reddito nella costruzione di competenze e capacità produttive locali e regionali» in quanto a sviluppo di una industria scientifico-farmaceutica altamente carente, priva di mezzi fondamentali per poter autogestirsi nella fabbricazione dei vaccini, per esempio. Casistiche varie e differenti ci dicono che larga parte dei paesi africani si trova in questa angosciante dipendenza dal cosiddetto “nord del mondo“. Nella zona caraibica soltanto Cuba sfugge alla “protezione” affaristica del G20, produce un proprio vaccino e lo rende pubblico (anche per i turisti che vogliono visitare l’”isla rebelde“); ma al contempo deve sempre combattere contro l’embargo imposto da oltre cinquant’anni dagli USA con la famigerata legge Helms-Burton.
Di contro, l’India che ha un miliardo e mezzo (quasi) di popolazione, e che avrebbe sul suo territorio strumenti, mezzi e personale per produrre vaccini tanto per sé stessa quanto per altre parti del mondo, viene frenata dalla proprietà privata tanto dei brevetti quanto degli impianti. Nessun governo può espropriare nulla, servirsi della scienza per il bene comune. La legge dell’economia di mercato si impone e impera su ogni vita, su ogni persona, su ogni cittadino.
La questione dei brevetti, poi, è uno dei temi più accaloranti: di rinunciarvi e di fare dei vaccini un patrimonio dell’umanità, nemmeno se ne parla. Di sospendere temporaneamente le proprietà economiche delle grandi aziende farmaceutiche forse sì. Ma in questo caso, Ursula von der Leyen ostenta grande prudenza, nonostante il Parlamento europeo abbia approvato un emendamento del Gruppo de “La Sinistra” (“The Left“) che è abbastanza esplicito nell’impegnare la Commissione «a sostenere l’iniziativa presentata da India e Sud Africa in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, con la quale si richiede una sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale relativi ai vaccini, alle attrezzature e alle terapie per far fronte alla COVID-19 ed esorta le società farmaceutiche a condividere le proprie conoscenze e i propri dati attraverso il pool di accesso alle tecnologie (C-TAP) relative alla COVID-19 dell’Organizzazione mondiale della sanità».
Il ritorno alla normalità capitalistica è tanto prevedibile quanto forse scontato: basterebbe solo essere meno ingenui nel ritenere le dichiarazioni del G20 fondate sulla buona fede di capi di governo che amministrano, per conto terzi, la stabilità delle economie nazionali nel contesto dei grandi aggregati di interessi finanziari che hanno nomi di organizzazioni internazionali. Economie nazionali che non appartengono ai popoli che sembrano viverle, ma in realtà le subiscono.
Il mercato e l’alta finanza si preparano, dunque, a gestire la fase post-pandemica, spremendo il più possibile le solite tasche: quelle dei miliardi di salariati e di persone «del cui lavoro vive l’intera società», come osservava con grande sintesi critica, politica e rivoluzionaria, Rosa Luxemburg.
MARCO SFERINI