La più bieca delle motivazioni, quella che ci si augura non sia l’unica ipotesi possibile, invece si materializza e prende corpo dalle parole del capo servizio della funivia di Mottarone a Stresa: quella frenata mancata, che è costata la vita a quattordici persone, che ha dilaniato l’esistenza di intere famiglie, che ha lasciato un bambino di cinque anni quasi completamente solo al mondo, è stata il prodotto di un calcolo fondato sul guadagno, sul profitto.
Mettere il forchettone rosso alle ganasce dei freni della funivia più famosa della zona, per evitare lungaggini e aggirare una anomalia proprio all’impianto frenante che si trascinava da mesi. Una scelta, dunque. Nessuna fatalità. E già quest’ultima sarebbe stata difficile da accettare, pur dovendo far ricorso alla ineluttabilità del caso, del fato, del destino: davanti all’imponderabile e all’ingestibile, si può maledire qualunque circostanza del tutto inaspettata e frutto di incroci di momenti, azioni e situazioni che si tengono soltanto per una apparente illogicità, una sincronia non cercata, per nulla riscontrabile nella naturalità degli eventi che solitamente si susseguono ogni giorno.
Ma no, non si può nemmeno trovare un conforto nell’alibi epifenomenico della casualità. Questa è un’altra tragedia umana: doppiamente umana e disumana, al contempo. Opera dell’uomo che non si accontenta di forzare i tempi, la natura, gli equilibri in cui vive e sopravvive quotidianamente, ma che sfida anche la precisione ingegneristica, la scienza, la fisica, la meccanica. Le colpe le stabilirà la magistratura, anche se il quadro sembra già sufficientemente chiaro: chi doveva decidere ha deciso e dato disposizioni affinché la funivia non si trovasse nella circostanza di saltare corse per via di un guasto “superabile“: «Intanto, cosa vuoi che succeda?».
A volte le domande retoriche non sono poi così banali, scontate e prive di senso: vogliono averlo un significato e diventano autoassoluzioni, celebrazioni di una sicumera che si staglia contro l’oggettività del rischio e che lo sminiusce fino a ridicolizzare magari chi osa avanzare un dubbio, una perplessità e obiettare che no…, che forse il pericolo esiste e che per qualche decina di migliaia di euro non vale la pena… Una insufficiente dose di scrupoli che, tuttavia, è sempre meglio della spregiudicatezza di chi non si è curato delle possibilissime conseguenze.
Il mistero del cavo spezzato, che taglia l’aria con un sibilo metallico che risuona nella vallata, lo scossone improvviso e la corsa folle a cento chilometri all’ora verso un pilone che fa saltare in aria la cabina per trenta metri d’altezza, per poi rovinare giù, frenata dagli altissimi larici che sembrano anche loro, come il padre di Eitan, fare l’ultimo tentativo per salvare la vita almeno ad un bambino di cinque anni.
L’unica nota profondamente umana di questa tragedia è l’immagine di quell’abbraccio paterno, quell’istinto di protezione che scatta immediatamente e che sovrasta la enorme miseria morale che circonda il 23 maggio 2021, a pochi metri soltanto dall’arrivo della cabina sulla vetta del monte.
Si può parlare di fatalità quanto si vuole; si possono mettere tutti i se e i ma del caso, ma il dato certo, per cui la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verbania ha disposto tre arresti, è la (in)cosciente consapevolezza piena di chi ha agito per aggirare non un problema del sistema frenante della funivia, ma la sicurezza della funivia stessa. Per unire tempo e soldi, più corse al giorno e più guadagni. Non vale nemmeno accampare giustificazioni legate alla crisi economica dovuta alla pandemia: nel nome di questa si dovrebbero allora oltrepassare tutti i limiti, inadempiere a regolamenti, leggi e normative che tutelano la salute, la sicurezza e il benessere di ogni cittadino.
Questa strage è figlia della logica prettamente capitalistica, imprenditoriale: anteporre il profitto a qualunque altra tutela ed esigenza tanto sociale quanto singolare, è nel DNA del sistema economico globale che si riversa sulle nostre vite e che le plasma secondo le oscillazioni dei mercati, i dividendi aziendali e le speculazioni finanziarie che transitano da un continente all’altro dopo la semplice pressione di pochi tasti su un computer.
Bisogna però che non solo la magistratura per dovere, ma soprattutto le persone prendano atto della criminogenia che risulta dai comportamenti spregiudicati che tutelano i profitti e lasciano indietro il “costo” di una esistenza. Tutto ciò va denunciato e non ci si deve fermare alla critica superficiale sui “guadagni facili“. E’ tutto un sistema economico che va messo in discussione, perché a cascata nel discendono le tragedie che commentiamo poi con grande amerazza e sgomento.
E’ proprio il profitto a dover essere messo sul banco degli imputati, insieme ai suoi realizzatori materiali che, a prima vista, paiono delle eccezioni che confermano la regola del “buon guadagno“. Dove c’è un guadagno c’è sfruttamento: materiale e mentale, di braccia e di mente.
La vita che merita di essere tutelata e salvata solo se le tasse si abbassano ed allora si investe di più in sicurezza, oppure se gli scudi fiscali consentono il rientro di grandi capitali volati nei paradisi fiscali, questa vita è sempre e soltanto una sopravvivenza nell’incertezza, una impossibile costruzione del futuro.
Pare di essere dentro i fotogrammi in bianco e nero di “Schindler’s list“, quando l’industriale dà fondo a tutti i suoi profitti per comperare gli ebrei destinati alla “soluzione finale” ad Auschwitz e metterli in salvo alla feroce barbarie dell’olocausto, dello sterminio nazista. Nel momento in cui la vita è proteggibile soltanto tramite il denaro, è evidente che il valore dell’esistenza non dipende più da qualcosa di innato, da un comune sentire, da una percezione ancestrale collettiva che ci dovrebbe unire nel rispetto tanto dei nostri simili quanto dei nostri dissimili; diventa un accidente sulla strada della linearità profittuale.
Tutto ciò è violenza verso il diritto di esistere liberamente che ognuno di noi ha e deve rivendicare. Non accontentatevi della spiegazione opportunistica e molto retorica che ferma la critica sul singolo caso nella sua evoluzione a critica sociale ed economica. La tragedia di Mottarone merita il rispetto che le si deve veramente: questo rispetto esige che, oltre ai reati contestati ai futuri imputati del processo per la strage della funivia, la gente aggiunga un punto di osservazione molto più ampio, una prospettiva che non è fuori luogo solo perché riguarda un ambito meno ristretto di Stresa.
Proprio perché nessuna giustificazione è possibile per quanto avvenuto, la contestualizzazione ragionata ed anche politica porta alla conclusione più elementare e vera: la colpa non deve limitarsi ai tre arrestati, ma deve poter essere percepita da tutte e tutti come la cattiva coscienza di ognuno, per mal sopportare questo regime di obbedienza cieca al profitto, questa negazione costante della naturalità della vita.
MARCO SFERINI