Partendo dalla storica asserzione di Milton Friedman sulle imprese, la cui responsabilità (quasi una sorta di morale…) sarebbe quella di fare più profitti possibili, proprio per aiutare l’intera società ad evolversi e a svilupparsi, il liberismo è cresciuto nel corso dei decenni, fin dal lontano 1976 in cui l’economista monetarista prendeva il Premio Nobel, prescindendo da qualunque teoria, da qualunque specificazione accademica e ha seguito la sua strada devastante in ogni continente.
Al pensiero di Friedman si può dire che si ispirarono tanto la signora Thatcher in Gran Bretagna quanto Ronald Reagan negli Stati Uniti, ed anche Pinochet in Cile. Era l’epoca dei “Chicago Boys“, di quegli studenti che avevano disimparato l’umanità del vivere e avevano invece introiettato la logica, paradossalmente universalitista, dell’egoismo primigenio dell’essere umano che vuole primeggiare e che fa della spietata concorrenzza l’asse portante di un’etica singolare, egoistica e del tutto privata.
L’anticomunismo del dittatore cileno e il liberismo sfrenato dell’economista statunitense si sono incontrati a metà strada, in una corrispondenza in cui si scambiavano reciproche esperienze politiche da un lato, di studio dall’altro. Entrato in un turbine di polemiche per questo suo rapporto con il golpista e fascista Pinochet, Friedman dichiarò che, in fin dei conti, non trovava poi così strano dare dei consigli ad un uomo di Stato il cui popolo, che ammetteva non essere libero, era comunque a suo dire più libero rispetto a quello sovietico, cinese o cubano.
Non c’è che dire, un bel missaggio di posizioni reazionarie, parafasciste, autocratiche e prepotenti sul piano tanto politico quanto economico. Non stupisce che, pur biasimando il marxismo e le sue infelici deformazioni messe in essere dai regimi del socialismo reale e dal maoismo, Friedman abbia trovato anche il tempo per consigliare la dirigenza del Partito comunista cinese, parlando con Deng Xiaoping e suggerendo riforme verso una progressiva economia di mercato anche alle altre latitudini del presunto “comunismo” nel mondo: da Mosca a Belgrado.
Le sue altre affermazioni sugli interventi “shock” sul terreno economico, con tutte le ricadute antisociali prevedibili, sono tutt’oggi oggetto di critica: Naomi Klein ne ha scritto ampiamente in un suo libro del 2007, un interessante saggio intitolato appunto “Shock economy” dove si smontano, una ad una, le teorie liberiste di Friedman partendo dall’utilizzo indiscriminato delle privatizzazioni, dei tagli alla spesa pubblica e della riduzione dei salari come metodi di miglioramento dell’economia mondiale.
Dunque, per chi volesse approfondire il personaggio Friedman e l’economista, prima di tutto, esiste una vasta letteratura in merito anche in lingua italiana che analizzano il rapporto macroeconomico del monetarismo nel moderno contesto liberista tanto caro al fondatore della scuola di Chicago. A questi testi, reperibili facilmente nelle librerie e anche in rete, oggi si aggiunge un testo scritto dall’ingegner De Benedetti.
Si intitola “Fare profitti“, edito da Marsilio. Il titolo la dice già lunga: in questa fatica molto poco economica e, invece, tanto enfatica nei confronti del sistema capitalistico, la tessera numero 1 del PD (ai tempi di Veltroni) suggerisce che agli attacchi contro il libero mercato, la libertà di impresa e concorrenza, quella di circolazione delle merci e di globalizzazione delle produzioni, non si può rispondere con una idea differente di società, ma con una giustizia sociale che trovi il suo “naturale” momento di rinascita e ricrescita proprio nella assoluta modernità liberista.
Davanti alle aspre critiche, anche di forze politiche non certo riconducibili al contesto critico marxista, ma magari tenuemente socialdemocratico-keynesiane, De Benedetti si domanda se davvero si possa pensare di risolvere i problemi sociali rovesciando il mondo: «Cambiare tutto, modificare le regole di un capitalismo che ha mantenuto le sue promesse: fare profitti e creare ricchezza per tutti?». Ovviamente la sua risposta è un secco, granitico e immarcescibile tonante “NO!“. Scopo del libro è descrivere “l’etica dell’impresa“, del fare impresa, dell’essere imprenditore (la parola “padrone” è accuratamente obliata in tutto il testo; non appartiene – oggettivamente – alla considerazione anti-classista che i “datori di lavoro” hanno di sé stessi, propagandandosi, piuttosto che ritenendosi, dei benefattori dell’intera umanità)..
Scopo del libro, pertanto, è affermare (forse dimostrare, ma risulta molto arduo farlo se ci si affida ad un mero ambito etico e non invece scientifico-economico) che il capitalismo ha tutto il diritto di esistere perché – non si sa bene come – si sarebbe guadagno una sorta di Premio Nobel al pari del monetarista Friedman, dominando sui popoli per secoli e mettendone a dura prova la sopravvivenza. Il tutto per arricchire poche centinaia di individui che non fanno altro se non accumulare profitti a tutto scapito della vita di miliardi di persone.
Secondo De Benedetti il capitalismo è necessario e indispensabile proprio perché assolve ai compiti storici cui è stato chiamato: far transitare l’umanità dal primitivismo pre-mercantilista e successivamente liberale di una economia ristretta prima alle regioni e poi alle nazioni, al grandioso sviluppo novecentesco che ha reso ogni cosa una merce, in ogni parte del globo e ovunque tratta i salariati come dei dipendenti dalle variabili dipendenti delle borse, dei mercati e dei cosiddetti “rischi di impresa“.
La sfacciataggine con cui un padrone difende il regime dei padroni è così evidente da far persino amaramente sorridere. E’ tremendamente coerente e, da questo punto di vista, dal suo punto di vista, non gli si può muovere nessun appunto.
Perché è davvero sperticata la costruzione di una anti-etica del capitalismo che dovrebbe inglobare ogni tentativo di evoluzione al di là del profitto e del tema che mai viene citato come asse portante del sistema economico in cui viviamo: la proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa è per gli imprenditori un’origine indiscutibile del loro potere, del loro diritto a gestire chi lavora veramente e non accumula profitti. Al massimo, ma se proprio è fortunato, riesce a mettere da parte qualcosa del salario quando scatta la tredicesima natalizia.
Per un marxista, il libro di De Benedetti è un paradosso così enorme che sfiora l’intangibile e incommensurabile contraddizione insita nella natura del capitalismo: soddisfare appieno l’accumulazione dei profitti e farne, farne sempre di più e, al contempo, realizzare il benessere universale, per tutte e tutti. Nel nome dello sviluppo globale e locale, dell’interazione tra grandi imprese e medie e piccole industrie, De Benedetti declina tutte le potenzialità che ogni giovane lavoratore può vedere esaltate dai virtuosismi del liberismo.
Le storture, le ineguaglianze e le disparità tra dipendenti (sfruttati) e datori di lavoro (padroni) le devono correggere le sovrastrutture statali, i poteri costituiti e democraticamente eletti. Perché nulla di democratico vi è nel regime dei padroni, nel capitalismo, ma il richiamo alla democrazia si impone per mostrare e dimostrare l’assoluta buona fede di una classe antisociale che ha un preciso ruolo in questa società e che non può cavarsene fuori tentanto di essere ciò che non è.
Il “politicamente corretto” dei padroni come De Benedetti è riconducibile, alla fine, a mere affermazioni di principio che cozzano con la spietata durezza del capitale.
Sapete qual’è la differenza tra Friedman e De Benedetti? La principale, ovviamente, è data dal fatto che il primo è uno studioso di ciò che l’ingegnere rappresenta nel sistema del profitto e dello sfruttamento del lavoro altrui. Le altre, che ne vengono fuori a cascata, sono via via sempre meno divaricanti tra loro: includono visioni che sommano politica ed economia, rapporti sociali e contrati tra classi e così i due finiscono per arrivare ad un punto non lontano dalla coincidenza.
Tuttavia rimane una differenza: Friedman dimostra di essere al corrente di tutto il portato inegualitario che il liberismo si trascina appresso. Sarà pure considerabile cinismo accademico, apatia intellettuale, ma questo emerge dai suoi studi. De Benedetti invece, molto più modestamente, scrive un libro dove tenta di fare la morale a chi cerca un po’ di giustizia sociale, additandolo come nemico dello sviluppo vero per tutte e per tutti.
Questa è la differenza tra chi teorizza il profitto a tutti i costi e chi lo vuole realizzare sempre a qualunque costo.
MARCO SFERINI