La delegazione di solidarietà con il popolo ezida di cui Dinamopress fa parte è entrata a Sinjar, dove ha incontrato i rappresentanti del Consiglio Autonomo e della comunità locale. Un reportage dal nord iracheno
Nel caldo torrido della piana di Ninive, alle estremità nord-occidentali dell’Iraq, anche i cani hanno un’aria stremata. Stesi sotto il sole, ai lati della strada o lungo campi di terra bruciata privi d’acqua, appaiono macilenti e assetati, molti di loro malati. Quando si spostano, strascicano le zampe e inclinano lo sguardo in un moto di fatica. In un contesto così ostile, dove i pochi sprazzi di vegetazione si trovano solo in cima alle montagne, sembrano quasi dei sopravvissuti, gli “ultimi” della specie.
«La nostra autonomia nasce dal sangue dei martiri», ripete in continuazione la comunità che abita queste terre. Insediato da millenni fra la cittadina di Sinjar e i villaggi limitrofi, il popolo ezida sta cercando di costruire una nuova società ispirata ai principi del “confederalismo democratico”, dotandosi delle proprie istituzioni e delle proprie forze di autodifesa militare.
«Vogliamo governarci da soli. Abbiamo capito che se ci affidiamo a qualcun altro, saremo costretti a rivivere il dolore che abbiamo già subito».
Il “sangue” su cui fondare una nuova convivenza, infatti, non è solo quello dei martiri, ma anche quello delle migliaia di vittime del genocidio perpetrato contro ezidi ed ezide fra il 2014 e il 2015: oltre 5mila persone uccise, “giustiziate” dai fondamentalisti o morte nel tentativo di fuggire dai massacri, 500mila profughi, che hanno trovato rifugio nel vicino Rojava, nel Kurdistan iracheno oppure scappando in Europa, 3mila bambini e bambine rapiti, “trasformati” in soldati o ridotte a schiave sessuali.
Dalle sommità dei monti che sovrastano la piana, dove combattono asserragliate le unità di autodifesa delle Ybş e delle Ezidxan Asaysh, fino alle profondità delle fosse comuni in cui l’Isis ha accatastato i cadaveri in seguito alle fucilazioni, la regione del Sinjar rappresenta una terra martoriata, un’area da sempre sotto attacco. «Il nostro compito principale è evitare nuovi massacri», dicono rappresentanti del Consiglio Autonomo che hanno acconsentito a parlarci.
«La nostra è una regione contesa e sia il governo iracheno che quello delle autonomie regionali curde non riconoscono la nostra autorità. Vogliono prendere il controllo della zona e tornare alla situazione che c’era prima del genocidio dello Stato Islamico. Ma il punto è che sono anche loro responsabili dei massacri: ci hanno abbandonato, lasciando aperta la strada ai fondamentalisti».
Dopo numerose difficoltà, dovute all’interposizione delle milizie che nel “caos iracheno” presiedono i diversi posti di blocco presenti sul territorio come si trattasse di tanti piccoli “feudi” indipendenti, una delegazione di solidarietà è riuscita a entrare a Sinjar. Dalla città di Erbil, passando per Mosul (ex-“capitale” dello Stato Islamico) e per la “porta sul deserto” di Tal Afar, un gruppo di attiviste e attivisti, giornalisti e giornaliste sta incontrando in questi giorni la comunità ezida, che vuole lanciare un messaggio molto chiaro al resto del mondo.
«I nostri diritti non vengono rispettati», proseguono con decisione i e le rappresentanti del Consiglio riunito a Sinjar. «Ci appelliamo alle società civili dei diversi paesi, perché non crediamo alle nazioni ma nella democrazia “fatta” dal popolo: il governo iracheno deve riconoscere la nostra autonomia e ascoltare le nostre esigenze».
Invece, sembra che stia accadendo l’esatto opposto. Il 9 ottobre scorso, infatti, l’autorità di Baghdad guidata da Al-Kadhimi e i curdi di Barzani hanno siglato un accordo che prevede il ritiro delle truppe ezide di autodifesa dalle loro postazioni nel Sinjar, senza che venisse consultato nessun rappresentante della comunità locale. L’intento è di riportare la zona sotto il proprio controllo, con il beneplacito della Turchia di Erdoğan che può così proseguire la sua guerra contro il Pkk (il quale, assieme alle Ypj e Ypg del Rojava, ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione delle unità delle Ybş e delle Ezidxan Asaysh). «Dovrebbero ringraziarci per aver combattuto l’Isis, ma il governo non si è nemmeno degnato di incontrare le famiglie dei martiri», concludono al Consiglio Autonomo. «A noi, intanto, tornano in mente ogni giorno le immagini del genocidio, senza che possiamo ottenere giustizia».
Non è difficile da credere: arrivando dalle montagne, la strada che conduce a Sinjar è un “serpente di tornanti” che cala quasi a picco verso la valle; da lì, entrando nella cittadina, si percorrono lunghe vie composte solo ed esclusivamente da macerie, palazzi bombardati, tetti scomposti dal crollo. Sono i luoghi di alcune delle fasi più cruente della guerra con lo Stato Islamico: dopo l’occupazione e i massacri dei fondamentalisti, è iniziata la resistenza popolare unita ai bombardamenti da parte della coalizione internazionale.
«Siamo stati per undici mesi barricati in due palazzi, l’uno di fronte all’altro», ci racconta una persona ezida che ha preso parte ai combattimenti. «Una situazione di stallo infinita, in cui non facevamo altro che spararci a vicenda». Il risultato è appunto una città completamente distrutta, così come completamente distrutti e spesso spopolati sono tanti dei villaggi circostanti, come quello di Girzerik in cui è tra l’altro presente una fossa comune di 74 deceduti.
«Le macerie sono il segno del martirio di chi ci ha difeso», afferma il popolo ezida. È allora dal segno “vivo” di questo martirio che si prova a costruire un nuovo presente. Sconfitto l’Isis, il popolo ezida sta provando a ri-fondare la società.
Oltre al già citato Consiglio Autonomo, a Sinjar sono state istituite anche l’Assemblea del Popolo e il movimento per la libertà delle donne Taje, che si occupa tra l’altro del sostegno e del reintegro delle bambine rapite dallo Stato Islamico e poi rientrate presso la propria comunità.
«Abbiamo deciso che dal genocidio possiamo imparare a essere più forti di prima», ci spiega la loro rappresentante Delyla. «Per noi le donne devono decidere in autonomia come vivere la propria vita, senza che nessuno lo faccia per loro. Questo significa cambiare innanzitutto la mentalità delle persone. È un processo lento e difficile, non accettato da tutti. Ma la tradizione ezida è piena di donne coraggiose, che hanno giocato un ruolo di primo piano nella storia della nostra comunità: ogni volta che si è verificato un massacro contro di noi, c’è sempre stata anche una donna che ha lottato affinché ciò non avvenisse».
Ma anche il sistema politico più generale è improntato a un forte principio di parità di genere. Similmente a quanto avviene in Rojava e secondo i dettami del confederalismo democratico, a Sinjar portavoce e rappresentanti dei vari consigli e delle assemblee sono sempre un uomo e una donna. In questo caso, il compito delle istituzioni è quello di capire quali sono le esigenze dei singoli e dei territori, per poi provare a risolverli collettivamente.
«Ci sono i consigli di quartiere che ci riportano le problematiche dopo aver ascoltato cittadini e cittadine», spiegano i membri dell’Assemblea del Popolo. «Noi ci occupiamo di raccoglierle e trasmetterle al Consiglio Autonomo, che dovrà poi trovare delle soluzioni pratiche. Decidiamo tutto con questo metodo: anche le unità di autodifesa rispondono all’assemblea popolare. Se c’è la minaccia di un attacco, discutiamo insieme che tipo di strategia adottare per resistere».
A Sinjar sembra dunque essere in atto un esperimento di democrazia davvero radicale e partecipata. Il tutto si svolge in un contesto difficile, a tratti estremo, dove le ferite del terribile genocidio da poco subito si sommano alle pressioni esterne per far abbandonare alla comunità il proprio progetto di autodeterminazione.
Ezidi ed ezidi hanno a che fare con città distrutte e villaggi annientati, masse di morti ancora privi di un nome e i bombardamenti turchi che di tanto in tanto si abbattono sul territorio. Rivolgono lo sguardo alle proprie tradizioni e alla propria cultura, alle montagne per loro “sacre” da cui è partita la resistenza e che – anche nel caldo torrido di fine maggio – lasciano intravvedere generose macchie di verde sopra la terra bruciata.